LA COMUNICAZIONE CULTURALE NEL FUMETTO: TRE ESEMPI DI TRASMISSIONE DI VALORI SOCIOCULTURALI

Andrea Napolitano

NdShiryu: L'articolo che segue, interamente scritto da Andrea Napolitano, è stato in origine pubblicato su "Metis" rivista di sociologia, psicologia, antropologia della comunicazione (Vol. XIV, n. 1, maggio 2007, pp. 141-160). Ringrazio l'autore per avermelo spedito e per il permesso di pubblicarlo nel sito.

1. Il fumetto e i livelli di comunicazione

Il fumetto è un genere letterario "giovane" sia per l’età media del suo target, sia per la sua breve vita: i suoi natali risalgono al 1895, quando nel quotidiano statunitense New York World nacque il personaggio di Yellow Kid (Brancato, 1994). Inizialmente considerato un sottogenere paraletterario di bassa qualità, il fumetto è stato rivalutato grazie alla messa in discussione del concetto di cultura (Ciofalo, 2005) e alla capacità del fumetto stesso di trascendere il mondo infantile, diventando un tema di riflessione per chi si occupa di comunicazione (Morcellini, 1996).

Alla base dell’alto gradimento del fumetto vi sono l’espressività che coniuga testo e immagine, il particolare linguaggio usato, la capacità di suscitare emozioni nel lettore (Zamuner e Cavarra, 2002). È necessario inoltre che ci sia una cultura condivisa da chi scrive e chi legge il fumetto: di tale cultura il fumetto è talvolta specchio, talvolta un veicolo che ne consente la diffusione, portando dei messaggi potenzialmente educativi anche negli strati sociali più bassi e illetterati.

Non si può parlare di comunicazione e cultura senza citare Giorgio Braga che (1961) distingue tre livelli di comunicazione: interpersonale, culturale e di massa. Il fumetto potrebbe accampare diritto di cittadinanza tanto nel secondo quanto nel terzo livello. Nella comunicazione interpersonale il primo comunicante forma il suo messaggio e il secondo lo riceve e risponde. Nella comunicazione culturale il primo comunicante diventa un "autore" che crea opere (artistiche, scientifiche, filosofiche) il cui contenuto si risolve nella funzione di consumo simbolico (Tessarolo, 1991) e la cui decodificazione spetta al secondo comunicante. Nella comunicazione di massa vi è un primo comunicante "collettivo" ("fonte") e un’audience collegata ad esso (Tessarolo, 1991). La molteplicità di autori è uno dei motivi per cui il fumetto potrebbe rientrare nel terzo livello comunicativo: nel fumetto, infatti, sceneggiature e disegni sono spesso opera di diversi autori, anche se il "soggetto" è generalmente "parto" di un solo creatore. Il fumetto fa poi parte dei periodici, afferenti alle comunicazioni di massa, che tengono conto della logica dello spettacolo e del profitto, distribuendo alternativamente messaggi ludici o informativi. Anche nella produzione fumettistica è ravvisabile una duplice, alternativa, strategia: pedagogizzante e d’intrattenimento (Colombo, 1998).

Se la diffusione di massa fa gravitare parzialmente il fumetto verso il terzo livello comunicativo, la condivisione culturale e la funzione di consumo simbolico sono tipici del secondo livello. Il fumetto mette infatti in comunicazione il mondo dell’autore e del lettore (Colombo, 1998): un mondo fatto di valori sociali ed esistenziali; un mondo in cui riecheggiano memorie storiche, miti passati e contemporanei, ideali a cui tendere. Il fumetto può additare filosofie sconosciute, e può addirittura essere mosso, come vedremo, da archetipi sovraindividuali che vivono di vita propria, della cui esistenza l’autore può farsi inconsapevole portavoce.

Per illustrare tutto ciò, verranno riportati tre esempi di fumetto, nella cui scelta non vi è nessuna pretesa di esaustività. Sono solo tre campioni paradigmatici di tre culture e tre modi di fare fumetti completamente diversi, accomunati dall’ottimo successo commerciale ottenuto: si tratta del fumetto statunitense Spider-Man, dell’italiano Dylan Dog e del giapponese Saint Seiya.  

2. Spider-Man, ovvero potere e responsabilità

Spider-Man è da quarant’anni un fenomeno fumettistico di prim’ordine: era il 1962 quando il soggettista Stan Lee e il disegnatore Steve Ditko organizzarono il fatidico incontro fra il timido liceale Peter Parker e il più famoso ragno radioattivo dei fumetti. Morso dell’aracnide, il complessato studente acquisisce forza e capacità proporzionali a quelle di un ragno, nonché un senso premonitore (il "senso di ragno") in grado di avvertirlo dei pericoli. Peter pensa inizialmente di sfruttare le sue doti per arricchirsi, ma la morte di suo zio Ben, ucciso da un ladro che il neonato Uomo Ragno aveva irresponsabilmente evitato di catturare, convince il giovane che "da grandi poteri derivano grandi responsabilità": utilizzerà allora i suoi superpoteri per difendere la giustizia.

Già dalle prime tavole emerge la peculiarità di questo fumetto: il fungere da specchio delle problematiche sociali dell’America dagli anni ’60 in poi. La radioattività che rende anomalo il ragno che morderà Peter riflette le paure del tempo: è l’era della guerra fredda, del timore delle possibili conseguenze di un conflitto atomico e delle radiazioni nucleari. Fra i molti altri problemi sociali contro cui l’Uomo Ragno dovrà scontrarsi vi sono le condizioni di vita nelle carceri, la discriminazione verso gli studenti di colore, la manipolazione di notizie operate dalla stampa, lo spaccio e abuso di stupefacenti. Il riferimento al contesto sociale e alle sue incertezze inserisce un fumetto come Spider-Man nel livello delle comunicazioni culturali: l’autore interpreta lo spirito dell’epoca e il fruitore lo re-interpreta (Tessarolo, 1991). Il lettore di Spider-Man può trovare fra le pagine dell’albo l’anima del suo tempo, il proprio vivere giornaliero, e il loro riesame operato dagli autori; può quindi a sua volta riassumerli, non più come semplici dati percepiti nella routine di ogni giorno, ma come cultura rielaborata e rifiltrata. È il quotidiano che si fa cultura.

Oltre alle questioni sociali, ci sono poi quelle esistenziali che prima o poi travagliano la vita di tutti, Spider-Man incluso: il passare dall’adolescenza all’età adulta è problematico, specie per chi, come Peter, è orfano, deve studiare, trovare un lavoro, pagare l’affitto, affrontare i problemi di cuore. Insomma, sotto la maschera, l’Uomo Ragno deve fare i conti con le difficoltà di tutti i suoi coetanei, le stesse difficoltà spesso incontrate dai criminali contro cui Spider-Man combatte: è il caso di Prowler, lavavetri di colore, costretto dalla povertà a riciclarsi come rapinatore. Fra le difficoltà della vita, vi è anche l’affrontare la morte delle persone care: Peter dovrà fronteggiare la scomparsa della fidanzata Gwen, uccisa dal super-criminale Goblin.

Parker dovrà farsene una ragione e guardare avanti: la vita non aspetta, e nemmeno la storia. I progressi scientifici portano a dubbi e interrogativi ancor oggi irrisolti, e anticipati (siamo negli anni ’70 e ’80) nella loro drammaticità dal fumetto: è il caso del dibattito etico aperto dalla bioingegneria e dalla clonazione. Ecco allora comparire, nei panni dello Sciacallo, Miles Warren, ex-professore di Peter e Gwen, esperto di biogenetica e capace di creare un clone dell’uno e dell’altra. Le copie genetiche dei due ragazzi, così come i loro "originali", dovranno affrontare un lungo dissidio interiore alla ricerca del senso profondo della propria identità.

Un ultimo tragico spaccato di America viene mostrato dopo l’11 settembre 2001 e l’attacco alle Torri Gemelle. L’Uomo Ragno, pur emotivamente travolto dalla tragedia, aiuta la polizia e i vigili del fuoco a spostare le rovine, colpevolizzandosi per non aver saputo evitare il disastro, ma anche chiedendosi quanto in questa tragedia sia il risultato di ingiustizie subite da popoli lontani cresciuti nell’odio, nella povertà, nel terrore, nella tirannia. 

3. Dylan Dog, ovvero l’eroismo di un antieroe

Nato nel 1986 dalla mente di Tiziano Sclavi e dalle chine di Claudio Villa e Angelo Stano, Dylan Dog è il più celebre protagonista di una serie horror italiana, capace di coniugare uno straripante successo di pubblico con il plauso della critica. Dylan è un investigatore privato trentaquattrenne che vive nella Londra contemporanea: un eroe romantico e sensibile, alla ricerca di demoni suoi e altrui con l’ingenua sprovvedutezza di un adolescente che crede ai fantasmi, e con la saggezza antica di chi è sensibile a questioni complesse come la banalità del male, il mistero della morte, l’irrazionalità della vita (Ciofalo, 2005). Dylan si definisce "indagatore dell’incubo", e investiga solo su casi legati al soprannaturale: l’ordinarietà con cui gli si presentano clienti che chiedono di indagare su fantasmi, zombi, vampiri, licantropi rivela quanto la sua realtà fumettistica differisca dal nostro mondo quotidiano. D’altronde, la comunicazione letteraria non sarebbe possibile se il suo contenuto non fosse parzialmente ri-conoscibile dal lettore. Ed ecco che, nonostante i vari mostri che fronteggia, Dylan non è il classico eroe, ma un "anti-eroe" con le sue paure, i suoi dubbi, le sua fragilità: tratti che chiunque può ritrovare nella propria personalità.

Dylan non ha nessun superpotere: al massimo, usa il suo intuito (il suo "quinto senso e mezzo"). È un ex-alcolista, un depresso, un fobico, segnato da innumerevoli lutti irrisolti: la sua stessa "divisa" – giacca nera, camicia rossa, jeans – è portata quotidianamente in memoria di una fidanzata uccisa in un’occasione in cui lui vestiva in tal modo. Ma le tragedie colpiscono anche i nemici di Dylan: molti dei "mostri" da lui affrontati erano tali solo in conseguenza di storie di abbandono o violenza: il vero mostro è spesso solo la paura del diverso, l’incomunicabilità verso chi ha un pensiero o un aspetto differente da quello della moltitudine. La solitudine è il vero orrore: quella invisibile, provata da tanti giovani, che la trovano riflessa ed esorcizzata nelle creature d’incubo o di malinconica marginalità che popolano le pagine di Dylan Dog. La vera paura è quella dell’abbandono, del non poter comunicare: innumerevoli sono i clienti che si rivolgono a Dylan sperando di trovare qualcuno che accolga le loro paure, che creda all’esistenza dei loro timori e dei loro fantasmi, che non li confini nel mondo recluso della follia. L’unica soluzione è l’ascolto, l’apertura al diverso, l’apparentemente banale ma sempre invincibile capacità di amare. Ancora una volta il fumetto, alla stregua di più nobili forme letterarie, si pone intenti pedagogici e dà al lettore una possibilità di introspezione, un’occasione per capire meglio se stesso e gli altri.

L’eroismo di Dylan Dog sta nel tentare di comprendere il mistero e l’orrore, specie quando si nascondono nell’inconscio; la sua umanità si esprime nel mantenere il difficile equilibrio fra scetticismo e speranza ("Non ci credo, ma ci spero" è il suo motto). È un uomo dai molti dubbi e dalle forti passioni: quella per le donne (quasi una diversa per ogni albo); quella per il modellino di galeone che eternamente tenta di finire e che fa di lui una specie di psicopompo, di moderno Caronte; quella per la musica e per il cinema, che danno l’occasione per una serie infinita di citazioni: da quelle specificamente horror, a quelle più classiche, che riattualizzano le parole di grandi autori del passato quali Borges. L’uso di citazioni realizza un intento educativo, contribuisce a una diffusione culturale, stimola alla lettura, riecheggia altre opere e i mondi che dischiudono.

C’è un ultimo aspetto da sottolineare in Dylan Dog, un aspetto legato alla capacità della letteratura di diffondere i significati un tempo affidati al mito. Il mito disseminato nelle pagine di Dylan Dog è quello moderno della psicoanalisi: con "mito" intendiamo lo sguardo rivolto alle proprie origini, il desiderio di trovare un senso all’inspiegabile, il tentativo di esprimere in forma camuffata processi psichici universalmente noti (Freud, 1931). Intendiamo il mito nel suo senso etimologico, quale possibile derivazione dal verbo greco myo che esprime l’atto di socchiudere gli occhi per vedere meglio: splendido ossimoro che indica come il lavoro psichico avvenga "in negativo" rispetto al reale, a suggerire come, per guardarsi dentro, occorra non farsi accecare dal reale (Mangini, 2001). In questo senso la psicoanalisi è una forma mitologica moderna: tenta un’interpretazione pseudoscientifica della nascita e dello sviluppo della personalità individuale richiamandosi a concetti metapsichici indimostrabili, resistenti al falsificazionismo popperiano, quali il complesso di Edipo, il complesso di castrazione, l’invidia del pene e così via.

Dylan Dog è letteralmente infarcito di visioni psicoanalitiche, soprattutto per la storia personale del personaggio, che viene progressivamente ricostruita col succedersi degli albi. L’avversario più pericoloso di Dylan è infatti Xabaras, un fanatico negromante creatore di zombi, che tenta di scoprire il siero dell’immortalità iniettando filtri alchemici in cadaveri riesumati. Fra gli zombi rinvenuti da Xabaras, c’è Morgana, una ragazza a cui una versione perfezionata del siero ha consentito di recuperare non solo una vita da zombi, ma anche l’autocoscienza. Morgana sarà il grande amore di Dylan, il volto e l’immagine che l’indagatore ricercherà vanamente in tutte le donne da lui amate e fatalmente lasciate. Solo nell’albo n. 100 si arriva a scoprire che Morgana era in realtà la madre di Dylan e che Xabaras era suo padre, o meglio la parte malefica dello stesso.

Psicoanalisi allo stato puro: Dylan, affetto da un complesso edipico irrisolto, è innamorato dell’imago materna internalizzata; l’impossibilità di ritrovare la madre nelle sue numerose amanti gli impedisce di mantenere a lungo un rapporto amoroso. D’altro lato, il padre di Dylan soffre di un disturbo di personalità multipla che si manifesta nello sdoppiamento fisico tra il suo lato buono e quello cattivo; quest’ultimo è soggetto al complesso di Laio (l’odio che il genitore può provare nei confronti del figlio), che porta Xabaras a disprezzare Dylan; così come soffre di un disturbo narcisistico che lo conduce a voler far rinascere il figlio come uno zombi ai suoi ordini, privandolo della propria autoconsapevolezza e capacità decisionale autonoma.

Solo alla fine del centesimo albo, Dylan viene a conoscenza della sua vera storia; la parte malvagia e quella benevola di Xabaras si riuniscono, e lui e Morgana lasciano definitivamente libero il figlio di camminare autonomamente verso il proprio futuro. 

4. Saint Seiya, ovvero mitologia e azione transculturale

Se Spider-Man e Dylan Dog ritraggono la società odierna, niente potrebbe essere più lontano di Saint Seiya dal quotidiano. Il manga realizzato da Masami Kurumada nel 1986 è assolutamente irrealistico: forse proprio questo ha contribuito al suo enorme successo, conseguito soprattutto grazie alla trasposizione in cartone animato, in Italia noto come I cavalieri dello Zodiaco.

La storia narra di un gruppo di ragazzi – Seiya, Hyoga, Shiryu, Shun e Ikki – che in seguito ad uno sfibrante allenamento ottengono l’investitura a santi (Saints, in Italia Cavalieri), ossia combattenti devoti alla dea Atena, chiamati a difendere in suo nome la pace sulla Terra. I ragazzi ottengono anche un’armatura collegata ad una particolare costellazione (rispettivamente Pegaso, Cigno, Dragone, Andromeda, Fenice). I poteri conseguiti in seguito al training si basano infatti sulla raggiunta consapevolezza di come il proprio microcosmo interiore rifletta la struttura macrocosmica dell’universo e possa esprimere la stessa energia del big-bang, canalizzabile riconoscendo la costellazione affine alle proprie caratteristiche; l’armatura dei cavalieri permette di convogliare questa energia, per convertirla in colpi che vanno da calci e pugni alla velocità del suono (per i Saints meno esperti) all’apertura di varchi ultradimensionali (tecnica dei cavalieri più dotati) in cui scaraventare il malcapitato avversario. I cinque protagonisti hanno raggiunto solo il gradino d’investitura più basso, ossia il titolo di Bronze Saints (Cavalieri di bronzo): sono cioè muniti di una forza e un’armatura decisamente inferiori a quelle dei Silver e soprattutto dei Gold Saints (Cavalieri d’argento e d’oro), questi ultimi dotati della potenza trasmessa dalle dodici costellazioni zodiacali (Ariete, Toro…) e in grado di muoversi alla velocità della luce. Nonostante la loro inferiorità, i cinque santi di bronzo dovranno combattere contro i Cavalieri d’argento e d’oro per far tornare alla ragione Saga, il Gold Saint dei Gemelli, ribellatosi ad Atena. Scongiurato l’ammutinamento, i Saints di bronzo, d’argento e d’oro finalmente riuniti dovranno vedersela prima col dio del mare Nettuno, intenzionato a sommergere la Terra sotto un nuovo diluvio; poi col dio della morte Ade (Hades nel fumetto), determinato a oscurare il mondo con una perenne eclissi di sole.

Come si può vedere, di spaccati sociali non c’è qui nemmeno l’ombra. Tuttavia, Saint Seiya è un eccezionale veicolo di trasmissione culturale, mitologica, religiosa e filosofica: ha portato in Occidente diverse nozioni indo-buddhiste, e in Oriente rilevanti riferimenti alla mitologia greca o alla Divina Commedia. E se non sempre questi riferimenti sono stati colti, tuttavia essi rimangono nella memoria collettiva, partecipando al movimento transculturale e alla globalizzazione.

Un esempio di come Saint Seiya sia specchio fedele di tradizioni buddhiste è dato dalla trama dell’opera: il primo avversario che i Cavalieri devono affrontare è un nemico interno; solo dopo averlo sconfitto e riassimilato in sé potranno combattere contro antagonisti esterni. Come a dire che non possiamo aiutare il prossimo se prima non siamo giunti alla purificazione e alla quiete interiori (Comolli, 1991). Secondo il buddhismo mahayana la compassione è efficace solo se chi la pratica è in armonia con se stesso: un uomo che annega non può certo salvarne un altro (Mackenzie, 1992).

Un riferimento ben più esplicito all’induismo emerge dal personaggio di Krishna, generale marino al seguito di Nettuno: già il suo nome richiama quello del più famoso avatara (incarnazione) di Visnu, uno dei componenti (con Shiva e Brahma) la trinità induista. Le sue gesta sono cantate nella Bhagavadgītā, poema la cui importanza nella cultura indiana è pari a quella del Vangelo nella civiltà occidentale. Il generale marino Krishna deve la sua forza allo "sprigionarsi dell’energia cosmica Kundalini", derivante "dai chakra, i sette punti che si trovano all’interno del corpo umano". Secondo l’induismo, quest’energia, presente in ognuno, è la forza dormiente che incarna le potenzialità della natura, i cui effetti possono essere sia di divino perfezionamento spirituale, sia demoniaci. I chakra sono i sette centri energetici sottili del corpo umano, che governano secrezione, riproduzione, digestione, circolazione, respirazione, sistema nervoso riflesso e volontario; ognuno è collegato a una particolare ghiandola o organo fisico. Sono i punti in cui le forze psichiche, le funzioni corporee, le energie cosmiche e individuali si compenetrano (Lama Govinda, 1972).

La stessa unione di forze macrocosmiche e microcosmiche sta alla base del potere dei Saints di Atena. L’addestramento che li porta a controllare queste forze è più di tipo meditativo che fisico. Se Spider-Man ha il "senso di ragno" e Dylan Dog il "quinto senso e mezzo", i Cavalieri si esercitano a dominare addirittura "il settimo senso". Non si tratta di bufale fumettistiche: il buddhismo parla apertamente di un sesto e di un settimo senso. Il sesto senso è comune a tutti i poveri mortali: è semplicemente l’esercizio della coscienza tramite l’organo sensoriale apposito, il cervello; per il buddhismo, la coscienza è solo una capacità percettiva, il punto focale e di raccolta dei restanti sensi (Grimm, 1994). Il settimo senso, che consente ai Saints di espandere il proprio microcosmo interiore in sintonia con le energie macrocosmiche, è quella facoltà conoscitiva (manas) il cui oggetto non è il mondo sensibile, ma il fiume eterno del divenire, la coscienza profonda non limitata né da nascita e morte (meri passaggi fra una vita e l’altra), né da forme individuali di esistenza (Lama Govinda, 1972). Il settimo senso è la consapevolezza totale di sé come compartecipanti al flusso del divenire cosmico, emanazioni dell’Unità indefinibile alla base di tutto l’esistente.

Oltre al settimo senso, vi è l’ottavo senso, una capacità talmente elevata da essere posseduta da un solo Cavaliere d’oro, Shaka della Vergine, "l’uomo più vicino a Dio". L’ottavo senso consente di trascendere i confini del proprio ego illusorio, comprendendo di essere non solo appartenenti al Tutto, ma coincidenti con esso. Questa facoltà, nel manga, è chiamata araya-shiki, termine giapponese ripreso dal sanscrito ālaya-vijnāna, traducibile come Coscienza-deposito, emanazione e manifestazione della coscienza universale di base, che trascende ogni individualità ed è paragonabile all’oceano sulle cui superfici si formano le correnti e le onde, mentre le profondità rimangono immote, imperturbabili e pure (Lama Govinda, 1972).

Il Gold saint Shaka, unico possessore dell’ottavo senso, è un compendio di filosofia buddhista. Già al suo apparire, nella mente dell’avversario si forma l’immagine di Shaka bambino che nasce da un fiore di loto come reincarnazione del Buddha. Il loto che galleggia sull’acqua è simbolo della mente illuminata che emerge dal fango dell’esistenza per arrivare alla comprensione assoluta. Il nome stesso "Shaka" richiama il nome del clan familiare ("Shakya") a cui apparteneva il Buddha storico Gautama, e il nome del dio induista Sakka, con cui spesso il Buddha avrebbe dialogato nelle sue meditazioni (Digha Nikaya, XXI, Prima parte, § 1, § 13). Anche le tecniche di combattimento usate da Shaka aprono interi capitoli di filosofie orientali. Il "Tenma Kofuku" (rassegnazione del male) e il "Tenkuhaja Chimi Moryo" (liberazione celeste dai mostri maligni) annientano l’avversario dopo aver generato delle illusioni mentali. Tale capacità illusionistica rievoca il "gioco di māyā", la facoltà degli dèi induisti (in particolare di Visnu) di creare con la forza mentale universi illusori (compreso quello in cui crediamo di vivere). Questa facoltà è ben illustrata dalla storia (VI sec. d.C.) del saggio Nārada, che chiese a Visnu di mostrargli il segreto della sua māyā. Visnu lo portò in una piana desertica e gli domandò di recarsi in un vicino villaggio a prendergli dell’acqua. Bussando ad una porta, Nārada incontrò una bellissima fanciulla e sperimentò qualcosa che non aveva mai sognato: l’incanto dei suoi occhi femminili. Nārada s’innamorņ della giovane, si stabilì presso di lei e, dimentico di Visnu, la chiese in sposa; ebbe da lei tre figli. Dopo dodici anni, il piccolo villaggio fu sommerso da un’improvvisa inondazione, che trascinò via i bambini e la sposa di Nārada. Questi, dopo essere svenuto, riaprì gli occhi su una vasta distesa di acqua melmosa. Poté solo piangere. "Figliolo!" udì dire da una voce conosciuta, che quasi gli arrestò il cuore. "Dov’è l’acqua che sei andato a prendermi? Ti ho aspettato per più di mezz’ora". Nārada si voltņ. Invece dell’acqua vide il deserto. Visnu era in piedi dietro di lui. Le pieghe crudeli della bocca affascinante si schiusero nella soave domanda: "Comprendi ora il segreto della mia māyā?" (Zimmer, 1993).

Un'altra tecnica di combattimento di Shaka è il Rikudo Rinne ("Girotondo dei sei mondi"), con cui scaraventa l’avversario in uno dei sei mondi dell’aldilà: l’inferno, il mondo celeste, il mondo degli spiriti famelici, quello delle bestie, della guerra, degli uomini. Tutti questi aldilà appartengono alle antiche escatologie buddhiste, e il Bardo Thödol (Il libro tibetano dei morti, scritto nell’VIII-IX sec. d.C. ma basato su dottrine di un millennio prima) li descrive come i possibili mondi che appaiono all’anima del defunto quali luoghi in cui reincarnarsi, qualora non si rifugiasse nella luce del Buddha. Shaka padroneggia gli accessi a questi sei mondi grazie alla meditazione, nella quale ripete la sacra sillaba "Aum", simbolo della compartecipazione di tutte le cose esistenti a un’unità originaria, suono primordiale della realtà senza tempo (Lama Govinda, 1972).

Shaka, nella sua ultima battaglia, s’immola in difesa di Atena. Prima di esalare l’ultimo respiro, ricorda la sua infanzia, quando, a soli sei anni, sedeva in meditazione giorni interi vicino ad una statua del Buddha, fino a dialogare con l’Illuminato, chiedendogli perché gli uomini nascessero per vivere una vita di sofferenze culminante nella morte. "Shaka – gli risponde fra l’altro il Buddha – non esiste una vita in cui c’è solo sofferenza: dove c’è sofferenza c’è anche gioia e viceversa. La morte non è la conclusione di tutto: tutti quelli che sono stati chiamati santi hanno superato la morte. Se tu riuscissi a illuminarti di questo, pur se un comune mortale, diverresti l’uomo più vicino a Dio". Il senso profondo di questo discorso è l’ammaestramento secondo cui il "prendere rifugio nel Buddha" (nella sua dottrina, nella via di comportamento e pensiero da lui additata, nella meditazione) implica vincere la morte, uscire dal ciclo di rinascite del samsara (Anguttara Nikaya, vol. III, cap. IV, § ii; Majjhimonikaya, vol. III, XII parte, IX discorso). Shaka trova la morte fisica nel "giardino del Sharasoju", fra due alberi di Sala, dove la leggenda vuole che sia trapassato anche Gautama. "I fiori sono belli – riecheggia la voce del Buddha – ma un giorno devono appassire. Qualunque cosa nel mondo è effimera e non rimane mai nel medesimo stato. Tutto è mutevole, nulla è costante: è la legge dell’impermanenza; le stelle brillano, ma un giorno si spegneranno; anche per la terra, il sole, l’intera galassia, persino per il grande universo arriverà il momento di morire. La vita umana, rispetto a loro, è come un lampo di luce. Nel breve attimo della sua vita, l’uomo nasce, ama, odia, ride, piange, combatte, gioisce e si rattrista, poi alla fine viene accolto dal sonno della morte". Sono qui riassunti tre dei principali insegnamenti del buddhismo: i concetti di dukkha (termine pali traducibile con "sofferenza"), anicca ("impermanenza") e anatta (illusorietà e non sostanzialità dell’ego e di tutto ciò che esiste). Dukkha significa che la vita umana è pervasa dalla sofferenza: il Buddha non nega che ci sia la felicità; ma ogni felicità è dukkha: dolorosa perché transitoria (Rahula, 1984). La sofferenza consiste nella presa di coscienza che ogni cosa è impermanente (anicca), e destinata a perire (Grimm, 1994). In quanto impermanenti, le cose sono anche prive di sostanzialità (anatta): non hanno un’essenza né un’esistenza intrinseca, esistono solo come aggregato di costituenti in continuo cambiamento (Buddhadāsa, 1991). Impermanenza e insostanzialitą caratterizzano anche l’ego illusorio a cui l’uomo ostinatamente si aggrappa; in realtà, il sé non esiste, è solo "gioco di māyā": l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioni della vita. Senza natura impermanente e priva di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi: un chicco di riso non diverrebbe una piantina, né un bambino un adulto (Tich Nhat Hanh, 1992).

Libero dall’illusione dell’ego, Shaka si sacrifica, indicando ad Atena la via per la vittoria. Anche la dea dovrà infatti rinunciare volontariamente alle sue spoglie terrene, per combattere nell’aldilà lo scontro decisivo contro Hades. Il tema del sacrificio divino è fondamentale dell’induismo, in cui la creazione del mondo avviene mediante il "sacrificio" (nel senso originale di "rendersi sacro") che Dio fa di se stesso, per diventare il mondo, che alla fine ridiventa Dio (Capra, 1982).

Nell’Ade, Atena ritrova i Saints defunti che, acquisito l’ottavo senso, combatteranno al suo fianco. I Cavalieri sono dotati di un corpo spirituale che, pur simile al corpo fisico, non ha le eventuali menomazioni di quest’ultimo: ciò corrisponde a quanto spiegato dal Libro tibetano dei morti.

All’ingresso dell’oltretomba, i Cavalieri sono attesi da un tribunale chiamato a giudicare i trapassati per le azioni compiute in vita. Riecheggiano le antiche credenze buddhiste secondo cui, quando un defunto giunge nell’aldilà, il re della morte Yamo (Majjhimonikayo, vol. III, XIII parte, X discorso) lo giudica, decretandone la reincarnazione in uno dei sei mondi possibili. Naturalmente, i Cavalieri di Atena, scesi nell’oltretomba per contrastarne il signore, Hades, sono spediti dritti all’inferno!

E qui lo scenario cambia drasticamente: finora, Saint Seiya è stato un messaggero per il pubblico occidentale di aspetti – non semplici da cogliere – delle culture orientali; ora il manga percorre il cammino inverso, presentando a lettori orientali, presumibilmente non troppo edotti in materia, un argomento specifico della cultura occidentale: la rappresentazione dell’inferno nella Divina Commedia di Dante. La descrizione dei luoghi infernali visitati dai Saints nelle loro battaglie ricalca la narrazione dantesca (e i miti greci e romani che ne sono alla base): dalla vana attesa degli ignavi, all’iscrizione "Lasciate ogni speranza voi ch’entrate" all’ingresso dell’inferno; dal fiume Acheronte, al suo traghettatore Caronte; dal cane a tre teste Cerbero, alle punizioni subite dai dannati; dal lago ghiacciato Cocito, alla Giudecca dove risiede il signore del mondo infernale. Ma non è solo narrativamente che Saint Seiya s’ispira alla Commedia dantesca, bensì anche nell’aspetto grafico. I disegni di Kurumada ritraggono l’ambiente infernale ispirandosi alle note illustrazioni dell’incisore, pittore e scultore Gustave Doré (Strasburgo 1832 - Parigi 1883). Le tavole di Kurumada "citano" le illustrazioni di Doré, da cui riprendono le espressioni dolenti dei dannati, il tragico contorcersi dei loro corpi sofferenti, il mastino Cerbero e altri particolari.

5. Note conclusive

È ovvio che un fumetto non può essere veicolo sufficiente di contenuti culturali complessi. Tuttavia, la diffusione di un’opera come Saint Seiya contribuisce alla propagazione di culture diverse, che avviene in modo lento ma continuo, come sostenuto dalla "teoria dell’ago ipodermico": come un ago diffonde poco a poco il contenuto della fiala, così il nuovo messaggio pervade la società. Le nuove nozioni vengono sempre più interiorizzate, soprattutto se diffuse da canali culturalmente poveri come i fumetti: secondo l’agenda setting, la gente include o esclude dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto (Tessarolo, 1991).

C’è un ultimo aspetto degno di nota in Saint Seiya: è un aspetto che riguarda i miti. La struttura della narrazione di Kurumada richiama la tradizione eroica dei racconti mitologici, in cui l’azione era un espediente per permettere il ricordo e la trasmissione di quanto narrato, in tempi precedenti alla scrittura: la memoria orale opera meglio con personaggi forti e imprese monumentali (Tessarolo, 1991). I contenuti di memoria che si volevano trasmettere tramite tali mirabolanti narrazioni erano a volte "esoterici", nel senso aristotelico del termine: il racconto del mito riproponeva se stesso nel tempo, portando con sé anche un significato nascosto che veniva inconsapevolmente riprodotto, in attesa di qualcuno in grado di svelarlo e interpretarlo.

Questa è la tesi sostenuta da Giorgio de Santillana ne Il mulino di Amleto (1983). Tale saggio afferma che, in qualche momento imprecisato dell’antichità, in numerose parti del mondo distanti tra loro, "nacquero" dei miti (i "miti di fondazione") destinati a trasmettere dati tecnici riguardanti fenomeni di meccanica celeste, in primis la precessione degli equinozi, ufficialmente "scoperta" da Ipparco nel II secolo a.C., cioè diversi secoli dopo la composizione di questi miti. La precessione è un movimento della Terra, dovuto al fatto che l’asse di rotazione è inclinato rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, e ruota attorno ad essa descrivendo un cono in senso opposto al senso di rotazione del pianeta; la precessione, il cui ciclo completo è di 26.000 anni, fa sì che la costellazione zodiacale sulla quale si può osservare il sorgere del sole equinoziale o solstiziale vari ogni 2.160 anni.

I "miti di fondazione", secondo De Santillana, sono riconoscibili per la presenza di tre costanti:

1) un asse (un pilastro, una struttura lignea, un albero) che funge da vincastro di sostegno per il mondo, che rappresenta la perpendicolare all’eclittica, e che viene spostato o danneggiato, a simboleggiare lo spostamento precessionale della Terra rispetto a tale asse. L’axis mundi è ravvisabile nell’albero biblico del bene e del male; nel frassino Yggdrasil dei norreni; nel monte Meru dell’induismo; nell’albero Bodhi sotto cui il Buddha ricevette l’Illuminazione;

2) una catastrofe legata allo spostamento dell’asse, quasi sempre un diluvio di immani proporzioni. La tradizione conta il diluvio biblico, i diluvi sumerici e babilonesi, le storie di diluvi che avrebbero coperto l’Asia e l’America, raccontate da popoli che non hanno mai visto mari, laghi o grandi fiumi;

3) un eroe, chiamato a ripristinare l’ordine universale: il Noè biblico, corrispondente al cinese Nu Wah e al vedico Manu; l’indiano Krishna; lo stesso Cristo, la cui croce eretta sul Golgota può rappresentare un riposizionamento dell’asse terrestre e metaforicamente dell’animo umano.

Un quarto punto comune a questi miti, individuato dall’archeoastronoma Jane Sellers, è la presenza di un codice numerico, un ristretto gruppo di numeri legati al fenomeno della precessione: il 12, numero delle costellazioni zodiacali; il 30, numero dei gradi di ciascuna costellazione lungo l’eclittica; il 36, il 72 e il 108, anni impiegati dal sole equinoziale per completare uno spostamento precessionale rispettivamente di mezzo grado, un grado, un grado e mezzo; il 2.160 e il 4.320, anni impiegati dal sole equinoziale per attraversare una e due costellazioni zodiacali (Sellers, 1992).

Tutti questi quattro punti sono presenti in Saint Seiya:

1) l’asse è identificabile sia nella colonna sottomarina al cui interno Nettuno rinchiude Atena, sia nell’asse lungo il quale Hades allinea i pianeti tra la Terra e il Sole per provocare l’eclissi eterna;

2) la catastrofe è rappresentata prima dal diluvio (cataclisma mitico per definizione) con cui Nettuno minaccia di sommergere la Terra, poi dalla "greatest eclypse" progettata da Hades;

3) gli eroi di certo non mancano e sono i Saints che combattono per Atena;

4) quanto ai numeri, i Cavalieri d’oro sono 12 come le costellazioni zodiacali; gli "spectre" (combattenti al servizio di Hades) sono 108, così come i grani del rosario buddhista di Shaka; gli anni del più anziano fra i gold saints e gli anni trascorsi dalla precedente guerra sacra combattuta da Atena sono rispettivamente 261 e 243, ossia "anagrammi" di 2.160 e 4.320 divisi per dieci.

Ciò significa che Kurumada ha scritto Saint Seiya per divulgare dati sulla precessione come li trasmettevano i miti di un tempo? Ne dubitiamo. Ma l’impressione è che i miti siano forme di trasmissione culturale che acquistano quasi vita propria, insinuandosi nell’animo umano come archetipi capaci di far riverberare i propri messaggi autonomamente, anche quando ridotti a significanti il cui significato è momentaneamente dimenticato, occultato nella dimensione dell’esoterismo. Infatti, gli stessi punti focali indicati da De Santillana e dalla Sellers per riconoscere i miti precessionali sono rinvenibili anche in fiabe per bambini composte secoli dopo tali miti, ascoltando le quali è davvero difficile credere all’esistenza di un messaggio astronomico nascosto: eppure sono esempi di come i significanti abbiano tramandato se stessi svincolandosi dai significati. È presumibile che i significanti esoterici e astronomici nascosti nei miti siano giunti fino a Saint Seiya, "imponendo" a Kurumada di ritrasmetterli, agendo come archetipi inconsci che chiedono di essere espressi (il che è peraltro quanto avviene in qualsiasi opera d’arte che tende all’espressione di forze e sentimenti oltre-umani). D’altronde il mito ha sempre esercitato un fascino a livello inconscio e preconscio, e il fumetto ha un forte legame col mito ed i connessi archetipi inconsci collettivi (Tessarolo, 1991). Il mito, trasmettendo significanti che aspettano di essere decodificati, dimostra di essere stato concepito anche per assolvere a scopi diversi da quello del consumo simbolico. Esso è il veicolo di una cultura più ampia, che supera a volte l’individuo, il suo tempo, il suo sapere, che si esprime con opere d’arte che rimandano ad universi inesplorati, in un gioco di specchi che può non aver mai fine. L’artista lascia sicuramente, con le sue opere, tracce di sé e della cultura del suo tempo; ma a volte può accadere anche il contrario, e allora un tempo che sfuma nell’infinito, e un sapere che dev’essere ancora saputo, lasciano tracce di sé nell’artista, nella sua opera, nel suo presente, aspettando qualcuno che voglia intravedere i loro sottili messaggi nascosti. Ritrovandoli, a volte, anche fra le vignette di un fumetto.

 

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