Velo di Tenebre

 

Il ricordo di un padre. Questo lo tormentava. Il colpo di quel ragazzo, di quel cavaliere di Atena, cercava di schiarirgli la mente, di far riaffiorare ricordi che credeva dimenticati, di strappare il velo di tenebra che gli offuscava il cuore. Vedeva Folken, l’uomo che lo aveva cresciuto, trattarlo con affetto, accudirlo, stargli a fianco. Tutto quello che faceva, a suo modo, lo faceva per il suo bene, per renderlo un degno cavaliere di Asgard, un guerriero inarrestabile e più forte ancora del suo mentore. Lui invocava il suo nome, lo considerava come il genitore che non aveva mai veramente conosciuto, gli voleva bene, anche se aveva da tempo dimenticato i sentimenti che provava per lui quella volta. Già, ma perché li aveva dimenticati? Era iniziato tutto quel giorno, il giorno più bello e più terribile della sua vita, il giorno che lo avrebbe segnato inesorabilmente.

*****

Correva verso casa attraverso la foresta, abitava lontano, ma i suoi muscoli erano abituati a sopportare sforzi che sarebbero risultati eccessivi per un uomo normale e non era affatto stanco. Se il cuore gli batteva così forte era per un altro motivo: aveva finalmente completato l’addestramento da cavaliere, Syria, il suo maestro, colui che gli aveva insegnato l’arte di saper combinare insieme la battaglia e la musica, lo aveva ritenuto degno di diventare uno dei sette cavalieri preposti alla difesa di Asgard. Hilda, la celebrante di Odino, lo aveva ricevuto nel suo palazzo e gli aveva promesso che in futuro, nel caso si fosse presentata una minaccia, lo avrebbe investito cavaliere e gli avrebbe concesso di indossare una delle armature del nord, quella che maggiormente si addiceva ai suoi poteri.

Il ragazzo sorrideva, mentre ripensava ai quei momenti e correva da suo padre, per comunicargli la lieta notizia. Forse sarebbe stato nuovamente fiero di lui, forse gli avrebbe sorriso per la seconda volta, dopo il giorno in cui gli aveva comunicato che avrebbe iniziato ad impegnarsi seriamente con un altro maestro per diventare cavaliere. Si ricordava bene di quel giorno, perché per la prima volta non si era trovato a disagio in sua presenza, non aveva provato quella sensazione di oppressione che lo assaliva sempre quando stava con lui e che lo portava a preferire la ben più lieta compagnia degli animali della foresta. Non aveva sentito quel peso nel cuore, quella sorta di dispiacere che gli faceva chiedere perché non riuscisse ad amare pienamente il genitore. Adesso sperava di poter ripetere l’esperienza di quel giorno.

Intravide la casa attraverso il folto degli alberi e si slanciò verso la porta d’ingresso, fermandosi solo nel momento in cui vi fu davanti. Non si sentiva minimamente affaticato, ma il cuore continuava a battergli forsennatamente per l’emozione. Gli faceva quasi male. Aprì la porta, chiamando suo padre. Si accorse che non era in casa e il battito cardiaco iniziò a rallentare. Stava quasi per andarsene, deluso, quando vide il medaglione sulla scrivania.

Era grande quanto il palmo della sua mano, a forma di rombo, con una gemma rosa incastonata al centro. Non l’aveva mai visto prima, Folken non lo portava al collo e non assomigliava ai vari pendagli appesi alle pareti. Qualcosa gli diceva che doveva essere importante, che doveva aprirlo. Ma allo stesso tempo avvertiva anche un’altra strana sensazione, come se una voce gli stesse suggerendo che quell’oggetto, all’apparenza insignificante, avrebbe cambiato la sua vita. Era pur sempre una novità e come tale stava a significare qualcosa. La curiosità alla fine prevalse su quella sensazione, che aveva provato per pochi secondi. All’interno del medaglione vi era una fotografia. Una donna dai capelli rossi teneva in braccio un bambino che le somigliava molto. Dietro di loro vi era un uomo dai capelli ramati. Sorridevano. Il cuore del ragazzo si fermò per un attimo, poi ricominciò a battere più forte di prima, più forte ancora di quando aveva immaginato di parlare al padre del suo ultimo giorno di addestramento. Ma in quel momento, quella notizia non aveva più la minima importanza.

Un dubbio, quasi più simile ad una consapevolezza che aveva sempre cercato di ignorare e di nascondere anche a se stesso, si faceva largo nella sua mente. Quel bambino aveva un’aria così familiare al punto che ne aveva riscontrata una simile solo specchiandosi nell’acqua del laghetto vicino, anni prima. E quella donna non poteva essere altro che sua madre, aveva gli stessi occhi e gli stessi capelli. Ma allora quell’uomo… Cosa doveva pensare? Il cuore gli martellava nel petto e il battito rimbombava nella testa, un rumore cupo, come un cattivo presagio.

Aveva la gola secca. Riuscì appena a pronunciare debolmente l’inizio del pensiero che aveva formulato, quando udì la voce di Folken.

Già, Folken, così avrebbe dovuto chiamarlo, non più padre. Si voltò verso la porta. L’uomo gli confermò che il bambino nella foto era proprio lui e che quelli erano i suoi veri genitori. E aggiunse, senza lasciar trasparire alcuna emozione, che lui stesso era stato la causa della loro morte. Il medaglione cadde sul pavimento. Il ragazzo, con gli occhi spalancati, come per poter cogliere meglio la verità, rimase immobile ad ascoltare il seguente resoconto del finto genitore. La rivolta di Iisung. Suo padre consigliere. L’arrivo di Folken di fronte alla sua vecchia casa. La morte dei suoi genitori. Il bimbo che piangeva disperato avvolto fra le coperte, svegliato dal rumore. Il giovane colse ben poco di quel discorso, mentre la sua mente immagazzinava quelle nuove informazioni, lui non poteva quasi udirle, tanto era assordato dal rumore prodotto dal battito del suo cuore. Ora gli faceva veramente male.

Corse fuori dalla stanza, alla ricerca di un po’ d’aria, per poter almeno respirare più profondamente. Folken si scostò, lasciandolo passare, ma lui quasi non vi fece caso. Tremava e provava un tremendo dolore in tutto il corpo, che non aveva niente a che vedere con quello che aveva sperimentato durante la prima fase del suo addestramento. Questo dolore era dentro di lui e non poteva liberarsene in alcun modo. Scagliò un pugno contro il tronco di un albero per sfogarsi. Era in affanno, il cuore gli si stava contorcendo nel petto. Lo sentiva, sentiva il suo battito e lo sentiva muoversi. Era come se stesso cambiando, si stava impregnando di odio, si stava coprendo di un velo di tenebra.

Tremando, si rivolse a Folken, uscito anche lui dalla casa. I due si davano le spalle. Lo accusò di non aver mai provato affetto per lui, di averlo cresciuto solo per mettere a tacere la coscienza. In fondo, sapeva che non era così, ma quella nuova oscurità nel petto stava lentamente nascondendo i vecchi ricordi alla sua mente, per poterla controllare meglio, facendo leva su impressioni che il giovane aveva avuto sin da bambino, su quella vecchia sensazione di disagio. L’albero che aveva colpito crollò.

Non sapeva come erano andate le cose quel giorno, quando Folken si era recato ad Iisung, ma immagini confuse iniziarono a ronzargli nella testa, facendolo infine convincere che rappresentassero la verità. Vide sua madre soccorrere suo padre gravemente ferito. Folken era in piedi di fronte a loro, due innocenti. La donna non ebbe il tempo di fare niente, il guerriero di Asgard levò la mano contro di lei, un fascio di luce ed ella crollò a terra priva di vita. Un secondo colpo e il consigliere di Iisung fu scagliato contro la parete di casa, sfondandola. Tentò di reagire per un attimo, poi anche lui non si mosse più. Il pianto del bambino.

Il giovane si voltò verso il suo finto padre con un sorriso strano, neanche lui sapeva perché aveva quell’espressione. Delirava, lo accusò di aver trucidato i suoi genitori senza alcun motivo, mentre quelle immagini gli scorrevano nella mente.

Urlò di essere il passato che Folken non voleva ricordare, che il passato portava il suo nome. Ecco il volto di sua madre morente. Le lacrime iniziarono a sgorgargli dagli occhi, inondandogli le guance. Ecco suo padre che cercava di rialzarsi per l’ultima volta.

L’uomo, l’assassino, affermava che non c’era stata altra soluzione, si prendeva gioco delle frasi deliranti del ragazzo. E rideva. O era solo frutto della sua immaginazione, di quella mente che ormai era totalmente in balia dell’odio sprigionato dal suo cuore? Non aveva importanza, non poteva permettere che quella risata continuasse, che qualcuno avesse assassinato i suoi genitori ed ora se ne stesse lì, a pochi passi da lui, a ridere. Il giovane urlò, accecato dalle lacrime, assordato dal suo cuore, confuso dalle immagini nella sua testa. Senza quasi rendersene conto, preda dell’ira, strinse il pugno e scaricò tutta la sua rabbia e la sua disperazione su Folken, per mezzo di quell’unico semplice colpo. Senza aggiungere neanche una parola, l’uomo che lo aveva cresciuto morì.

***

Ed ora il Fantasma Diabolico di Phoenix lo poneva ancora una volta di fronte ad una nuova e ritrovata verità. I ricordi trattenuti tanto a lungo sotto quel velo di oscurità stavano tornando a galla, sostituendo quelli distorti dall’odio nella sua mente, mostrandogli come stavano realmente le cose. Anche le immagini dell’assassinio dei suoi genitori venivano lentamente strappate via e al loro posto ve ne erano di altre, forse derivate dal discorso che Folken gli fece quel giorno, il discorso cui non prestò troppa attenzione, a causa di quel rumore. Un rumore che anticipava la venuta delle tenebre.

Ora vedeva il guerriero di Asgard decidere di risparmiare la vita di due persone inermi e prive di colpe, reagire d’istinto per difendersi dall’attacco di suo padre, sua madre cercare di placare lo scontro ponendosi nel mezzo, rimanendo uccisa insieme al marito. Ecco Folken che pregava di fronte alle tombe dei suoi genitori, che affrontava la tormenta di neve per portare ad Asgard lui, un bambino rimasto solo al mondo, per prendersene cura e per farlo diventare cavaliere, che gli stringeva la mano, mentre era a letto malato. Vide le lacrime dell’uomo solcargli le guance, incolpandosi silenziosamente per quanto accaduto, mentre lui lo accusava ingiustamente di aver assassinato a sangue freddo due innocenti. Vide suo padre morire per mano sua, senza che si fossero neanche detti addio. E il cuore ricominciò a battere.

Quella sensazione insopportabile e opprimente, quel rumore che aveva cercato di dimenticare insieme a tutto il resto, improvvisamente tornarono in lui insieme a quei ritrovati ricordi. Accadde di nuovo. Iniziò a delirare disperato, commentando quanto accaduto realmente, stringendosi la testa per evitare che potesse esplodere dal dolore, non riuscendo a rimettersi in piedi perché scosso dai tremiti. Phoenix parlava della sua nobiltà d’animo, quella che lui e suo fratello ritenevano essere propria del suo vero io, quella che sarebbe presto stata soffocata dalla rabbia e dal risentimento. Il cavaliere lo incolpava di non aver permesso a Folken di spiegarsi, di aver ucciso qualcuno che lo amava come un figlio e che lui amava come un padre.

Perché non glielo aveva permesso? Era rimasto preda dell’odio, quell’odio che anche ora si stava facendo strada dentro di lui, stimolato da queste sensazioni già provate, da queste sensazioni che la prima volta avevano portato alla devastazione del suo essere, che aveva causato la morte di Folken. Ora le tenebre, rimaste avvolte intorno al suo cuore, vi stavano penetrando come le acque di una cascata, inondandolo di oscurità.

Il ragazzo, respirando affannosamente, fece leva su questa oscurità per negare a se stesso quanto aveva appena visto, per negare la propria nobiltà. Erano tutte menzogne. Non aveva mai amato quell’uomo, si era sempre sentito male in sua presenza, come ci sente davanti ad un nemico temuto o a qualcuno con cui si è costretti a passare del tempo, pur avendo interessi e idee totalmente differenti. E lui non l’aveva mai amato, l’aveva trattato male, colpito ripetutamente, gli aveva impedito di dedicarsi esclusivamente alla musica, lo aveva costretto a diventare un cavaliere di Asgard. Phoenix mentiva, cercava di distrarlo per poterlo vincere in battaglia.

Il suo cuore, saturo di tenebre, esplose. Aveva finalmente posto fine a quel rumore infernale. Si rialzò, lo sguardo infuriato e il cosmo espanso al massimo delle sue potenzialità, negando a viva voce le parole del cavaliere di Atena. La catena di Andromeda iniziò ad agitarsi forsennatamente accanto al suo proprietario. L’odio aveva preso il sopravvento. Ma di questo il guerriero del nord non si curava affatto. Ora doveva solo vincere il suo avversario.

***

Il cavaliere dell’Isola della Regina Nera era stato in balia della Melodia delle Tenebre fino ad un momento prima. Ora lo osservava dall’alto di una colonna, con uno sguardo sprezzante, soddisfatto di essere riuscito a sfuggire al suo colpo segreto, pur avendo dovuto sacrificare l’armatura. Come vi era riuscito? Non riusciva a capacitarsene, non poteva lasciarsi sconfiggere così. La rabbia era ancora forte in lui e questo fallimento non faceva altro che accrescerla. Phoenix lanciò il suo colpo segreto più potente e lui non esitò a gettarsi disperatamente contro di esso, forse per dimostrare di essere in grado anch’egli di affrontare l’attacco più potente dell’avversario, forse per via di un puro e non ragionato scatto d’ira, non lo sapeva.

Il colpo lo centrò in pieno, facendolo crollare al suolo sanguinante, la cetra completamente distrutta ed inutilizzabile. Era stato veramente vinto. Ma si era trattato solo di una sconfitta in battaglia? O c’era dell’altro? Nonostante avesse perso il combattimento, sentiva il rancore lasciare a poco a poco il suo cuore. Già, il suo cuore, sembrava strano a dirsi, ma forse era la spiegazione più logica, anche se non voleva ancora accettarla pienamente. Le parole del cavaliere di Atena dovevano aver vinto lì la loro battaglia, mentre le Ali della Fenice terminavano lo scontro sul piano fisico.

Chiese spiegazioni al suo avversario, per cercare una sicurezza, un appiglio cui aggrapparsi, qualcosa di cui si potesse fidare. La risposta era la fede nella giustizia, la fede che muoveva le azioni dei cavalieri di Lady Isabel e che aveva permesso a Phoenix di vincerlo. "Giustizia", questa parola ora aveva un gusto diverso per il giovane, che aveva riscoperto la propria nobiltà d’animo grazie all’aiuto dei suoi nemici.

Ripensò a quello che aveva fatto, chiedendo scusa a suo padre Folken, riconoscendo tutto l’affetto che aveva provato per lui in quegli anni e quello che aveva ricevuto dall’uomo. Riconoscendo che ad uccidere i suoi genitori non era stato lui, ma la guerra, la guerra che tutto travolge. E con questa ritrovata consapevolezza nel cuore, sostenuta anche dai cavalieri di Atena, il velo di tenebra veniva finalmente strappato via. Si era liberato di un peso, di ciò che gli aveva impedito di riconoscere prima quello che realmente provava. La notizia della morte dei suoi genitori per mano di un impostore aveva offuscato la sua mente e il suo cuore, impedendogli di ragionare lucidamente e permettendo all’oscurità di radicarsi dentro di lui. Ma era finita.

Si rimise in piedi a fatica, ancora dolorante per il colpo ricevuto e scosso dai tremiti per aver vinto la battaglia contro se stesso. Il cuore gli batteva forte, ma non gli faceva più male, non lo disturbava. Si sentiva bene, in pace. Prese in mano lo zaffiro di Odino e si spogliò dell’armatura di fronte agli sguardi attoniti, ma soddisfatti, dei cavalieri, affermando a gran voce di essersi finalmente convinto anche lui della verità. Ora combatteva per dovere di difensore, doveva comunque confrontarsi con loro per svolgere il suo compito di cavaliere di Asgard.

Lui e Phoenix espansero il proprio cosmo e si lanciarono l’uno contro l’altro, in un ultimo attacco. Il guerriero della Fenice era ferito. Per lui, invece, non c’era niente da fare. Rivolse ad Andromeda e suo fratello la supplica di salvare Atena e Hilda, poi crollò al suolo. Invocò il nome di Folken un’ultima volta, chiedendogli perdono per non essere riuscito a difendere Asgard come lui avrebbe voluto ed affidandola ai cavalieri di Atena.

E così cadde Mime, cavaliere di Asgard, figlio di Folken, ma prima di tutto un uomo che era riuscito a vincere il male dopo che questo aveva preso il sopravvento. Che egli possa riposare in pace nel paradiso dei cavalieri, insieme al padre ritrovato.