Capitolo 1: Il Risveglio

Passò un giorno senza che nessuno, oltre al proprietario di un hotel iracheno, si chiedesse quale fine avessero fatto i quattro inglesi giunti dall’Europa per studiare le grotte del territorio circostante, mentre i loro corpi piuttosto che diventare freddi, mutavano lentamente d’aspetto.

All’alba del secondo giorno successivo alle quattro stelle di sangue, delle voci si sentirono nella caverna.

"Era tanto tempo che non mi rialzavo in piedi", esclamò quello che un tempo era stato un giornalista, i cui capelli da biondi erano diventati neri ed a cui era cresciuta una folta barba intorno alle labbra e sul mento. I capelli stessi, inoltre, erano caduti dai lati del capo, allungandosi a forma di cresta e lasciando il posto a dei tatuaggi tribali intorno alle orecchie. I lineamenti non erano più quelli di un inglese, ma piuttosto di un ungherese, o transilvano.

"Vero, fratello, era da tanto che sognavo questo momento, noi quattro di nuovo insieme che cavalchiamo", esclamò un secondo, quello che un tempo era l’esile e giovane studente aveva ora una corporatura incredibilmente robusta e superava i due metri d’altezza. I capelli erano biondi ed appena distinti in quel capo quasi rasato, mentre gli occhi di un azzurro accesso, i lineamenti erano diventati quelli di uno scandinavo.

"Si, Silas, torneremo a cavalcare ed a distruggere", esclamò allora quello che un tempo fu uno dei due archeologi. Ora non dimostrava più i suoi sessant’anni, ma appena trenta. I capelli erano di un rosso accesso e lunghi quasi fino alle spalle, gli occhi verdi ed una profonda cicatrice ne apriva in due il sopracciglio destro, per poi scendere oltre l’occhio, segnando tutta la guancia. I lineamenti erano propri di uno spagnolo, o comunque dei paesi mediterranei, "Tu, cosa ne pensi, Adam? A che giorno saremo?", incalzò poi quest’ultimo.

"Non so, Kronos, ma credo che, per rialzarci dopo aver preso possesso di corpi umani, dovremmo essere ancora al secondo giorno successivo al nostro nuovo avvento", rispose allora l’altro professore, il cui volto era anch’esso ringiovanito, riacquistando corti capelli neri ed occhi del medesimo colore, ma anche una carnagione spaventosamente pallida, oltre a lineamenti apparentemente egizi.

"In ogni caso, ora siamo qui, Kaspian, Adam e Silas, fratelli miei, adesso potremo di nuovo cavalcare nel mondo distruggendolo, perché, da ciò che dicono le menti dei nostri ospiti, niente è rimasto degli antichi ordini guerrieri", esordì l’essere chiamato Kronos.

"Si!", urlarono i primi due che si erano rialzati, ma l’ultimo, quello con il volto più pallido, si guardò intorno piuttosto che manifestare la propria felicità, "Non credo sia così facile, Kronos", osservò poi, "Che vuoi dire, fratello?", domandò perplesso il gigante dai capelli biondi.

"Che, se scruti la mente del tuo corpo attuale, scoprirai che considerava gli dei olimpici, egizi e scandinavi come semplici miti, il che mi porta a credere che in quest’era in cui siamo rinati i cavalieri si nascondano agli uomini, quindi è ancora possibile che ritroviamo i Runouni sul nostro cammino ed insieme a loro anche tutti gli alleati che ebbero nella passata battaglia, millenni fa", spiegò colui che veniva chiamato Adam.

"Bene, fratello, se questa è la tua preoccupazione, vuol dire che, non appena riavremo le nostre armature, ci muoveremo, gli Horsemen compieranno la loro prima cavalcata per raggiungere vecchi e nuovi alleati sparsi in tutto il mondo, tanto sappiamo dove cercarli", replicò Kronos, sedendosi su una pietra.

Un giorno passò, poi, la parete di roccia, sui cui erano stati dipinti i diversi gruppi di guerrieri nemici dei Cavalieri dell’Apocalisse, si frantumò, mostrando quattro immani armature e delle briglie per cavalli.

"Bianca, l’armatura della Morte, Nera, quella della Guerra, Rossa, la Bestia, Verde marcio, la Pestilenza", ricordò con un sorriso sul volto Kronos, mentre le vestigia si congiungevano ai loro corpi e, fuori della grotta, dei nitriti risuonavano potenti.

"Andiamo fratelli", esclamò il gigantesco Silas, dopo aver indossato la propria armatura e scomparendo insieme ai compagni.

In India, presso una piccola pagoda induista, arrivò il primo degli Horsemen, trovando, però, una sorpresa dinanzi a se.

"Chi sei, cavaliere, rivelati?", urlò una voce, mentre decine di guerrieri dalle armature bianche, d’acciaio, si mostrarono a lui, "Dovreste essere voi i primi a parlare, a meno che non vogliate morire in silenzio", replicò il nemico con un ghigno malvagio.

"Io sono Idom, comandante dell’esercito Vaisavrana delle Indu Army", si presentò colui con cui i cavalieri olimpici avevano affrontato Janus, più di un anno prima.

"Io sono Ghaian, comandante dei Viridhaka", aggiunse un secondo individuo, basso e muscoloso, "Ed io, Emily dei Vimpaska, e questi sono tutti i soldati sopravvissuti alla guerra contro Urano ed alla rivolta dei Runouni", concluse infine una fanciulla con delle fruste in mano.

"La rivolta dei Runouni?", ripeté il guerriero a cavallo, "Questa è una notizia interessante e per ripagarvi, vi dirò chi sono", continuò divertito, "Mi chiamo Kaspian, la Pestilenza", concluse, impugnando una specie di frusta fatta a squame congiunte.

"Cosa vuoi qui, cavaliere?", incalzò allora Idom, "Prima di tutto, prenderò le vostre vite, poi libererò coloro che sono nascosti in quel sigillo", spiegò l’Horseman, indicando l’interno della pagoda, "Tu non sai chi siano gli esseri che vuoi liberare, sarebbe una pazzia", lo avviso Emily, "Davvero?", domandò divertito il nemico.

"Attaccatelo, soldati", urlò in quello stesso momento Ghaian, mentre il terrore percorreva il suo corpo.

Kaspian schioccò una sola volta la frusta, producendo un tuono e poi una saetta verde che volò fra i guerrieri induisti, per spegnersi, quindi, oltre loro. Un alone del medesimo colore circondò la zona, mentre tutti i soldati di quel particolare esercito indiano si fermarono, come appesantiti e pieni di malori, "Non preoccupati, non sarà un male che vi torturerà per molto. Vi ho semplicemente fatto contrarre una forma molto avanzata d’ebola, così da uccidervi in pochi attimi, anziché nel periodo normale in cui si svilupperebbe il virus", spiegò Kaspian, passando fra i corpi che lentamente cadevano a terra morti.

Dopo averli oltrepassati, il Cavaliere osservò uno strano sigillo, posto sulla porta della pagoda e quindi lo spezzò con la propria frusta, lasciando liberarsi sei cosmi di natura divina.

"Chi osa risvegliarmi?", tuonò un’entità divina, sollevandosi in cielo insieme ad altre cinque, "Io oso, Kaspian, uno dei quattro Horsemen", si presentò la Pestilenza, "Che cosa vuoi da noi, figlio del Caos?", replicò la divinità.

"Proporvi un’alleanza, poiché nemmeno voi gradite come è andato a svilupparsi il mondo, giusto? Immagino che vogliate ripulirlo, quindi, unendovi agli Horsemen ed ai loro alleati, potrete", spiegò allora Kaspian, "Mi sembra strano che voi parliate di ricostruzione dopo la distruzione, comunque, dato che ci offrite dei corpi nuovi per ripossedere le armature e purificare l’umanità, non potremo far altro che accettare", replicò il dio indiano, avvicinandosi ad uno dei corpi senza vita.

"Ho usato un virus debole, sapendo che vi sarebbero serviti dei corpi", spiegò il Cavaliere, mentre le porte della pagoda si aprivano, mostrando sei armature.

"Le armature Indù, che rappresentano i vostri destrieri da battaglia", esclamò sorpreso Kaspian, "L’Ape, il Bufalo, la Tigre, il Cobra, il Pavone e l’Elefante", si enumerò.

"Esatto", disse una voce umana, prima che le armature si ricongiungessero con i loro padroni.

"Possente Indra", salutò Kaspian, rivolgendosi a colui che aveva le vestigia dell’Elefante, "andiamo", concluse l’Horseman, facendo strada ai propri alleati.

"Sommo Indra, ci possiamo fidare di costoro?", domandò la divinità con le vestigia del Pavone, "Kumara, figlio di Shiva, devi capire che nemmeno loro si fidano di noi, quindi il nostro non sarà un rapporto sulla fiducia, bensì sul comune tornaconto, quando costoro non saranno più utili per la purificazione del mondo, lasciando sopravvivere pochi eletti, noi li batteremo", spiegò Indra, prima di seguire, con i propri dei servitori, Kaspian.

In una grotta celtica, due individui sembravano fare la Guardia a qualcosa di molto importante, finché un nitrito non rubò la loro attenzione, "Chi è là?", domandò uno dei due, ma non ricevette risposta, se non un forte galoppare che si avvicinava.

La guardia sulla destra non ebbe il tempo di parlare che un singolo colpo d’ascia lo troncò il corpo in due, lasciando il suo compagno sbalordito, "Sono Silas, la Bestia", si presentò l’Horseman, sollevando l’ascia sopra il capo.

"Che cosa vuoi?", chiese un secondo guerriero, armato di due lame, "Liberarle", rispose con semplicità lui, "ma spero che non mi lascerai passare così facilmente", domandò il Cavaliere, invitando il nemico a farsi avanti.

Subito la guardia si lanciò contro l’avversario con le proprie armi, delle spade, ma l’Horseman le fermò con facilità, spezzandone le lame, per poi decapitare l’avversario con un singolo colpo d’ascia.

"Quanto sono diventati deboli gli umani dopo tanti millenni", osservò dispiaciuto Silas, entrando con il cavallo nella grotta e spaccando una gigantesca pietra che si trovava sul fondo della stessa.

Quattro figure su neri cavalli uscirono dal foro appena creatosi, tre di queste erano donne, l’ultimo, un uomo abbastanza possente.

"I Cavalieri del mio amico Kronos si sono ricordati di me e delle mie sorelle, finalmente. Erano secoli che aspettavano di tornare sui campi di battaglia", esultò la prima di queste divinità, "Lui chi è?", domandò Silas, senza curarsi di rispondere, "Lui è Tethra, lo sposo di Nemain. Dopo la vostra scomparsa, abbiamo avuto anche il tempo perché una di noi si sistemasse", ridacchiò l’unica che parlava, "Bene, Morrigan, allora seguiteci", replicò semplicemente l’Horseman, spronando il proprio cavallo, seguito dagli altri quattro.

Nelle calde terre d’Egitto, due individui dalle vestigia di nero granito osservavano il cielo, due dei Pharaons.

"Knosus, secondo te, come andrà a finire questa battaglia? Riusciremo questa volta a prendervi parte più attivamente?", domandò un giovane guerriero egizio, che maneggiava un sistro, "Certo Ihi, cosa pensi che possa succedere stavolta per impedircelo?", replicò con tono distaccato colui che un anno prima aveva affrontato Noa dell’Otre nella Nera Piramide.

"Non lo so, Pharaon di Uptat, ma tante cose sono accadute da quando abbiamo incontrato i cavalieri, se ci pensi. Sekhmet ed Anhur si sono aperti ad un mondo che prima non li interessava per niente, Sed, Bes e Knuhum sono morti combattendo contro nemici che non ho mai avuto la possibilità d’incontrare ed io stesso sono stato ferito dal veleno di un avversario invisibile, che mi hanno raccontato essere uno dei famosi Runouni cinesi, eppure, malgrado questo, quando si trattava di scendere sul campo di battaglia, io e te, siamo rimasti qui, a controllare e difendere la Piramide, il Sommo Ra e gli altri dei", rifletté il giovane musico, "Non ho potuto nemmeno rivedere Awyn, chissà come starà ormai", concluse, mentre un cosmo potentissimo riempiva l’intero deserto egiziano.

"Lo hai sentito anche tu, Knosus?", domandò il giovane guerriero, "Ihi, vai dentro la piramide ed avvisa il sommo Ra, oltre a Sekhmet ed Anhur, mi occuperò io di controllare cosa sia stato", ordinò il giudice egiziano, avanzando nella sabbia.

"Ma…", balbettò il giovane Pharaon di Khepri, "Ragazzino, niente ma, fai come ti ho detto", replicò seccamente l’egiziano guerriero di Uptat, correndo verso un luogo a lui noto, di cui il suo maestro, il divino Thot, gli aveva parlato anni or sono. La Piramide dal cono tronco, un luogo nascosto nella sabbia, dove erano stati rilegati i sette nemici del sommo Ra.

"Mi dispiace di averti trattato così, giovane Ihi, ma sei ancora un bambino e non vedo perché tu debba morire ancora prima che la guerra sia veramente iniziata", pensò fra se Knosus, arrivando davanti alle ampie porte di granito, già spalancate.

"Chi è là?", domandò il Pharaon, intravedendo una figura dalle vestigia bianche.

"Vattene, mortale, non è ancora tempo che io scenda sul campo di battaglia, se ti allontanerai subito ti risparmierò la vita", sussurrò una gelida voce all’interno della nera costruzione.

In quel momento, un brivido circondò il corpo del giudice egizio, ma, subito fu soffocato da un ricordo, quello del nemico che nemmeno dinanzi alla sua forza si era arreso, quello di Noa, che anche sacrificandosi era pronto a compiere il suo dovere, vendicare tutti gli ebri uccisi da Miranda, la titana che aveva attaccato la Nera Piramide.

"No, chiunque tu sia, io non mi allontanerò da qui se prima non te ne sarai andato", minacciò allora Knosus, facendosi coraggio, "Bene, giovane mortale, hai scelto tu di perdere la vita, ma sappi che io sono uno degli Horsemen, sono Adam, la Morte", si presentò il Cavaliere, sollevando una grande Falce bianca.

Knosus impugnò subito il suo Menat e lo sollevò verso l’avversario, "Eternal Judge", invocò poi, scatenando la propria energia, in un attacco che si rivelò inutile.

"Forse questo tipo di colpi può punire un’anima mortale, ma per te io sono come un dio, non puoi certo essere tu a sancire le colpe a mio carico", osservò gelidamente la bianca figura, avvicinandosi silenziosa.

"Se l’energia del Menat non serve, allora proverò con qualcosa di più drastico", minacciò in tutta risposta il Pharaon, espandendo il proprio cosmo, "Desert wolves attack", tuonò poi.

Centinaia di lupi d’energia si lanciarono contro Adam, centrandolo in pieno, ma, con somma sorpresa di Knosus, le bianche vestigia che lo difendevano si rimarginarono automaticamente dalle ferite, come un corpo in cui le cicatrici si ricomponevano ad una velocità innaturale.

"Tu vorresti uccidere la Morte stessa?", domandò l’Horseman con la propria gelida voce, prima di muovere la falce.

Un’ondata d’energia grigia fuoriuscì da quel fendente, correndo verso Knosus ed assorbendo la sua anima, che volò via dal corpo, lasciandolo a terra, senza vita.

"Sei stato coraggioso, Pharaon, ma anche stupido nell’attaccarmi da solo, senza nemmeno sapere che poteri io avessi", osservò il Cavaliere, prima di rompere una statua rappresentante il sole, dietro le sue spalle.

In quel momento la sala fu riempita di luce, così da lasciar vedere le sette bare che vi erano riposte e le armature che troneggiavano sopra ogni bara.

Armature con forma di diversi animali: un avvoltoio, un toro, un coccodrillo, un volatile fiammeggiante, un cane, un leone a due teste ed un Serpente.

"Rialzatevi, dei nemici di Ra, sollevate i vostri corpi dal sonno di millenni e indossate le vostre armature, così da combattere insieme a noi, Horsemen", invocò Adam.

Un tuono scosse la piramide, poi, un pugno spaccò la bara centrale. Il corpo di un bellissimo uomo egizio si alzò in piedi e le vestigia del Serpente lo ricoprirono, "Apophis, bentornato alla vita", lo salutò il Cavaliere, "Grazie, figlio del Caos", sussurrò la divinità maligna, mentre anche i suoi seguaci si rialzavano, indossando le loro armature ed uscendo dalle bare.

Il gruppo osservò il cadavere senza vita di Knosus, "Il guerriero di Uptat, quale lieta notizia, mi hai eliminato un nemico dai dintorni, per questo ti ringrazio", esclamò Apophis con tono divertito, prima di allontanarsi da quel posto con i propri compagni.

Pochi secondi dopo, Anhur, Sekmhet ed Ihi, trovarono il cadavere del loro compagno e le bare distrutte, "I Got-ra sono tornati", fu l’unica cosa che il Pharaon di Selkit riuscì a dire.

In un tempio sulle montagne della Beozia, i passi del quarto Cavaliere risuonavano come tuoni. L’ultimo Horseman rimasto, aveva lasciato il proprio destriero dinanzi alle porte del Tempio ed era entrato, trovando subito ciò che cercava: un vaso con il simbolo di Era sul sigillo, ma, nel momento stesso in cui stava per aprirlo, il Cavaliere si voltò, osservando l’ombra di una colonna.

"Gigante che sei nascosto lì dietro, mostrati, se non vuoi essere diviso con la tua copertura", tuonò l’Horseman.

"Sei abile, Cavaliere, non speravo di ingannarti a sufficienza, ma almeno mi auguravo di riuscire a colpirti con il Martello di Titanio prima che ti voltassi verso di me", si congratulò una figura dalle bianche vestigia.

"Tu cosa saresti? Un titano?", domandò incuriosito l’Horseman, "No, sono Sial di Sterope, ultimo Fabbro di Efesto, che in un anno ha completato la propria missione, passando le proprie abilità di Grande Fabbro ad un nuovo giovane guerriero e dando lui ed i suoi fratelli a tre abili insegnanti, così che se ne occupino loro. Ora, dopo aver riparato le armature dei santi di Atena e dei loro alleati, sono qui, per combattere la mia ultima battaglia", si presentò l’ultimo rimasto dei fabbri.

"Fabbri di Efesto? Mai sentiti, e poi da quando i cavalieri di Atena hanno delle armature? Ai miei tempi combattevano con coperture piuttosto misere, in cuoio e bronzo", osservò stupito l’Horseman, "In diversi millenni le cose cambiano, Cavaliere", avvisò Sial, scattando in avanti con il Martello di Titanio.

L’arma stava per raggiungere l’avversario, quando questi si spostò inaspettatamente e con un singolo bagliore, la divise a metà, amputando il braccio destro del proprio avversario.

Sial cadde a terra e solo allora vide la grande spada dorata del proprio avversario, "Questa non l’avevi vista?", domandò divertito il Cavaliere, "Sono Kronos, la Guerra, non puoi sperare di battermi con tecniche così stupide", lo avvisò poi, preparandosi a riattaccare.

Pochi attimi prima di colpirlo, però, Kronos si fermò e, guardandolo negli occhi, attraverso l’elmo, abbassò l’arma, "Ti lascio qualche secondo di vita in più, dimmi qualcosa su questi santi di Atena moderni", ordinò, indietreggiando e voltando le spalle al nemico.

"Non dovresti voltarmi le spalle, Cavaliere", urlò Sial, lanciando in un disperato tentativo il colpo che già fu di Hyth di Sterope, "Pioggia di Lapilli", tuonò.

Kronos nemmeno tentò di evitare il colpo, ma lanciò la Spada in mezzo allo stesso, annullandolo e perforando lo stomaco del nemico e schiantandolo contro un muro.

"Te lo chiedo per l’ultima volta", esordì l’Horseman della Guerra con voce quieta, "Dimmi qualcosa dei Santi di Atena!", tuonò poi.

"Vuoi sapere qualcosa? Bene", sussurrò Sial, "Hanno sconfitto Urano, i suoi titani, i centimani ed i giganti, riunendo intorno a loro tutti i guerrieri delle diverse divinità olimpiche, oltre ai God warriors di Odino, ai Beast Keepers asiatici ed ai Pharaons egizi, poi, con i guerrieri di Asgard ed i Mariners hanno abbattuto Pontos ed i Tree Monks celtici, quindi, riunendo la vecchia alleanza, hanno superato in battaglia anche i Runouni ed i Cavalieri Neri", raccontò il Fabbro.

"I Greengold Runouni non esistono più?", domandò divertito Kronos, "Sono decimati, solo tre di loro, adesso alleati dei santi, sono rimasti", rispose Sial, "Grazie, fabbro, mi hai dato delle ottime notizie, ora puoi morire", ridacchiò il Cavaliere, estraendo la spada.

Il guerriero di Sterope cadde al suolo, ma prima ancora di potersi muovere, un bagliore proruppe dal suo stomaco, procurandogli dei forti dolori e lasciandolo strofinarsi al suolo.

Kronos non si curò di lui e prese il vaso, strappandovi il sigillo di Era.

Tre figure nere fuoriuscirono da quel contenitore, ridacchiando con forza, "Chi ci ha liberato?", domandò una di queste, "Io, Kronos, la Guerra", esclamò l’Horseman.

"Un figlio del Caos, quale piacevole sorpresa, come mai quest’onore?", domandò la voce di prima, "Perché, mia cara Alletto, ho bisogno di te e delle tue sorelle Furie", replicò il Cavaliere, prima che le tre divinità della Vendetta riprendessero forma umana.

L’Horseman si voltò verso Sial, "Sei ancora qui?", gli chiese, mentre il Fabbro urlava di dolore, poi, schioccò le dita e l’energia aumentò a dismisura il foro nel suo stomaco, fino ad esplodere, solo le vestigia di Sterope rimasero dell’ultimo Fabbro che aveva partecipato alla battaglia contro Urano.

"Ora andiamo, mia care Furie, anche se sta per tramontare il Terzo Giorno e dovrei aspettare, ho una gran curiosità di conoscere questi santi di Atena, quindi andremo subito al loro Grande Tempio", ordinò il Cavaliere, riprendendo il proprio cavallo.

"Adam si arrabbierà, ma non sa dirmi di no, il mio fratello", ridacchiò poi, scattando in avanti con il proprio cavallo, diretto verso Atene, verso una nuova battaglia.