RITROVARSI

La Nature est un temple où de vivannts piliers

Laissent perfois sortir de confuses paroles;

L’homme y passe à travers des forets de symbols

Qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs èchos qui de loin se confondet

Dans une tènèbreuse ed profonde unitè

Vasta comme la muit et comme la clartè,

Les profums, les couleurs et les sons se rèpondet.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants

Doux les hautbois, verts comme les prairies,

- Et d’autres, corrompus, riches et triumphants,

Ayant l’expansion des choses infiniens,

Comme l’ambre, le music, le benjoin et l’encens.

Qui chantent les transports de l’esprit et des sens

É un tempio la natura, dove a volte parole

Escono confuse da viventi pilastri;

e l’uoma l’attraversa fra foreste di simboli

che gli lanciano occhiate familiari.

Come echi che a lungo e da lontano

Tendono a un’unità profonda e oscura,

vasta come le tenebre o la luce,

i profum, i colori e i suoni si rispondono.

Profumi freschi come la carne d’un bambino,

dolci come l’oboe, verdi come i prati

- e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,

Con tutta l’espansione delle cose infinite:

L’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino,

che cantano i trasporti della mente e dei sensi.

Corrispondences, da "Les fleurs du mal", C. Baudelaire

 

Era stato un invito inaspettato.

Nulla di programmato. Un evento fortuito, inaspettato, ma utile per smuovere la monotonia di quel viaggio. Di quel vagare continuo alla ricerca di occupazioni, anche le più disparate; pur di tener impegnata la mente, che di continuo vibrava come alla ricerca di qualcosa che non capiva.

Un grigiore profondo l’avvolgeva, offuscando, velando agli occhi della ragione la porta d’accesso a quella zona remota della memoria.

Il suo corpo aveva macinato chilometri in quei mesi; lo aveva sottoposto a ritmi massacranti, fustigato con maratone lavorative estenuanti. Sempre e solo lavoro. Per evitare di pensare. Per riempire un vuoto incolmabile.

La consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo era irrotta nel suo animo con la violenza di una mareggiata. Non lo turbava il pensiero dell’avvenire, quasi lo nauseava. Lo spaventava di più l’oscurità del passato. Un abisso in cui la sua coscienza precipitava, ogni volta che un barlume di subconscio riusciva a far presa sulla sua volontà, o forse sarebbe stato meglio chiamarlo desiderio, di conoscere.

Non era il buio però a spaventarlo. Aspettava la notte, l’oscurità; vi si immergeva con tutto l’animo trepidante, lasciandosi cullare dall’incertezza dei contorni e dai riverberi lunari. Affogava in un manto vellutato di sfuggevolezza.

Non temeva il buio, ma la luce che intravedeva oltre la tenebra.

Era un richiamo flebile come lo squittio di un topolino, ma era insistente, assordante nel suo sussurro continuo. La sua mente si contorceva, imprigionata fra le rocce di un viscerale tentativo di autoprotezione; ansimava, trepidava, e guardava adorante verso quel sole lontano, quel lumicino sicuro in una notte priva di stelle..

La certezza della vita, di una vita ricominciata non lo soddisfaceva. Cos’era successo in "quell’altra" vita?.

Prima che il suo ego risalisse da un baratro buio in cui non ricordava di non essere mai disceso, quando ancora il fastidioso torpore del corpo non lo aveva ancora sorpreso. Prima di quel limbo in cui fluttuavano immagini sbiadite di volti muti e risuonava l’eco di voci prive di origine.

Forse non era quello il luogo indicato a riunire i frammenti di quel mosaico. Rischiava di nuovo di essere colto da una di quelle crisi che colpiscono ormai sempre più in modo inaspettato. E ogni volta lasciava dietro a sé un residuo di mestizia, di dolore.

Ogni volta era come se una zolla della sua mente fosse stata smossa con forza, ed un raggio più forte di quel sole interiore avesse potuto irrompere nel suo io cosciente, trascinandosi dietro la sua carica si mutevoli arabeschi mnemonici. E lui sprofondava in uno strano stato catatonico.

D’altro canto, però, il concerto lo annoiava.

Aveva accettato solo per buona creanza, per rendere felice il suo segretario, quell’omino inglese alto e asciutto, che lo seguiva ovunque e lo osservava di continuo con quei suoi occhietti azzurri socchiusi, quasi vitrei, così diversi dalle sue iridi blu cobalto, profonde come il mare, pregne di uno sguardo magnetico, ancestrale.

La musica che veniva eseguita gli era fin troppo nota, era quella con cui aveva riempito le ore della sua giovinezza. Musica classica. Che per altro non disdegnava. Ma il suo amato e geniale Mozart, la passione di Beethowen, la dolcezza di Choin non riuscivano a farlo distogliere da quel suo errare metafisico, amaro ed infruttuoso.

Un trillo più acuto degli altri gli penetrò nella mente, facendogli riavvertire, per inconsueta analogia, il lieve pizzicore di un ago, e il lento fluire nelle vene di un liquido freddo, unito alla gradevolissima sensazione di un’arsura bruciante, che gli divorava gola, bocca e labbra, secche e screpolate, ardenti come se la salsedine che le copriva fosse acido versato su piaghe fresche.

Il ricordo di quel sapore ridestò in lui il senso di nausea che era seguito, prodotto dall’odore penetrante di disinfettante e medicinali. Non aveva più resistito, e aveva aperto gli occhi. Era stato uno sforzo immenso sollevare quelle palpebre che non sapeva quando aveva chiuso e di cui avvertì per la prima volta l’opprimente consistenza.

Lo aveva accolto una stanza d’ospedale, spartana e quasi buia. Tutto il suo essere si riassumeva in poche sensazioni: il formicolio ad un braccio, il senso di vertigine, un fastidioso ronzio nelle orecchie e le labbra riarse.

Dalla finestra entrava una luce talmente fievole, a causa della tapparella abbassata a metà, da esser appena sufficiente a illuminare un mazzo bianco di gigli. Mancava il biglietto.

Il silenzio attorno a lui lo sorprese, facendogli temere che tutto fosse finito e di essere rimasto solo nella grande sala del Conservatorio.

Lo spettacolo era invece arrivato al suo momento clou, e un suono vibrante e argentino catturò i suoi sensi, facendo volare i suoi pensieri lontano dalle rimembranze, per concentrarli sul centro della scena.

Un giovane in una posa elegante, le gambe unite e un piede leggermente avanti all’altro, gli occhi socchiusi e alle labbra un flauto, tesseva nell’aria melodie di ammaliante armoniosità. Note argentine che stringevano la mente di chi le ascoltava, paralizzandola, per poi guidarla su linee sottili di corrispondenze arcane, spuma liliale di un mare di sensazioni sconfinate.

Quella figura, snella e sinuosa, eretta in lontananza era tutto quello che sopravviveva per lui della platea, della sala, del mondo. Era distante, eppure gli sembrava vicinissima, e confortante.

Aveva la sensazione, inspiegabile, che un filo di seta fosse teso fra loro, al quale non si può sfuggire. E quando, al termine dell’esecuzione, applaudì anche lui, per la prima volta quella sera, si sentì perduto nell’accorgersi che l’inchino, il sorriso e gli sguardi del giovane musico, in apparenza di studiata eleganza per un uditorio qualsiasi, erano invece ringraziamenti diretti a lui solo.

 

 

Il sole tiepido sulla pelle, un vento leggero profumato di pino, le foglie secche che crepitavano lievi sotto i suoi passi.

E la nebbia leggera di un crepuscolo inesistente a velargli gli occhi, confondendo suoni ed immagini, carrellate incomplete che si avvicendavano in quell’aria di vetro.

Aveva saputo poco di quel ragazzo… di buona famiglia, studente dotato ed ottima promessa della musica, era sparito improvvisamente per riapparire dal nulla dopo cinque anni… si chiamava…

Sbatté le palpebre, le schiuse appena, unico moto di coscienza in un volto che si ostinava a restare inespressivo: non lo aveva chiesto.

Sarebbe ripartito presto, nel giro di poche ore. Lì il suo lavoro era concluso. Tornava a casa, a quella grande villa a precipizio sul mare turchese.

Non voleva…

Gli altri distacchi gli erano stati indifferenti; il lasciare Salisburgo, invece, lo terrorizzava. Se se ne fosse andato il legame sottile impalpabile che aveva sentito stringersi intorno a lui si sarebbe spezzato, ne era sicuro…lo avrebbe perso, per sempre.

Guardò il cielo; aveva il colore del mare… azzurra la volta celeste,azzurri gli abissi profondi e silenziosi…il cielo ed il mare… il cielo del mare…un cielo fatto di mare…

Fece scorrere le dita sottili fra i propri capelli; quella schegge di memoria non erano sue, non potevano esserlo; erano di quel "qualcosa" che era in lui, e che si nascondeva in quella luce pulsante racchiusa nel suo animo.

Tornò a guardare il cielo; le rondini migravano, erano libere. Si chiese chi avesse deciso che gli uccelli fossero liberi. Volavano liberi nel cielo. E anche senza una terra da raggiungere sapevano sempre trovare il modo di riposare le ali…

Rabbrividì, come un pulcino bagnato. Aveva freddo, tanto freddo; e avvertì la coscienza allontanarsi, rifugiarsi in quella specie di non vita di cui non conservava mai alcun ricordo.

Tentò di ribellarsi, di reagire… Lui però non aveva ali, non riusciva a librarsi in volo; forse aveva qualche piuma, retaggio ancestrale di una chiamata al cielo, ma non bastavano.

Si sentì precipitare, non riusciva più a distinguere nulla, come quando ci si addormenta… per un attimo temette di smettere di esistere.

Poi il mare, un richiamo lontano nella memoria, e la freschezza dell’acqua sulle mani, e sul viso. Percepì la sua vicinanza col liquido salmastro, una sorta di fusione in cui lui non annaspava. Il suo ego era saldo in quell’attimo ed era l’acqua a diventare parte di esso, a dargli forza.

Sentì di non appartenere al cielo, non lo desiderava; lui apparteneva al mare.

  

Alla fine sono tornato… mi ha chiamato… questo mare senza fondo di un blu intenso e scuro… l’ho sentito dentro di me, come se il mio corpo racchiudesse l’intero universo… un universo fatto di onde che si fanno trasportare, s’innalzano per poi precipitare… Non mi fa paura il mare; d’estate, quando il meltemi elettrizza l’aria, lo sento vigoroso e potente, lo sento correre nelle mie vene… mi sembra di essere un dio…

Ora è inverno; ma per me è uguale… Per gli altri perde d’attrattiva: tutto chiuso, un vento freddo gioca con alcune carte, sabbia bagnata… Per me resta un compagno silenzioso dei mie rimorsi e delle mie nostalgie; credo che mi capisca, perché null’altro esprime meglio ogni volta il turbinio che mi si agita dentro…

Prendo un po’ di sabbia; la sento sfuggire veloce fra le dita, come il tempo, che precipita, granello dopo granello, in una clessidra che non si può rovesciare…non i fa più paura il tempo, neanche il passato.

C’è un amico con me…non è venuto per portarmi via dal mare, ma per guardarlo con me…Ha gli occhi di un viola ribelle, e un sorriso sincero che mi rassicura sempre; parla in un modo strano, quasi ipnotico, con una voce dolce che rallenta su alcune parole, su cui sento l’accento d’origine. Ha un nome tipicamente austriaco, duro nelle cadenze; non gli è mai piaciuto. Vuole che lo chiami con un nome che sembra un armonia di flauto…Syria…

Mi ha seguito, da quando l’ho visto per caso ad un concerto; ha detto che mi aspettava, e che starà sempre al mio fianco, per aiutarmi a sopportare un passato che non c’è nella mia mente e un rimorso opprimente.

…Dice che è suo dovere…E che se io lo cacciassi lui ne morirebbe…

Io non lo so; ha il profumo del mare, come lo sento su di me…è strano, ma non voglio sapere il perché…

Ho trovato un amico, forse quello che ho sempre cercato…Gli ho detto che gireremo il mondo, per aiutare chi piange, per rallegrare ogni viso possibile…Ne è felice…

Dice di aver imparato una lezione importante in passato, e che finalmente l’ho imparata anch’io.

 

Julian Kedives