Capitolo II

IL DEMONE DEL VENTO

"Demone del vento, hai detto?", chiese Jorkell, incuriosito dall'inconsueto titolo usato dal nemico.

"Credevo che i Cavalieri di Atena fossero guerrieri coraggiosi e capaci, ma sembra che il tuo solo talento sia sfinire il nemico con vane domande!", disse l'ombra con un cenno di fastidio nella voce.

Poi finalmente si mostrò. Era un ragazzo alto quasi quanto Jorkell, robusto e dalla carnagione pallida. Indossava un elmo rosso a casco dalle forme di uccello che gli copriva gli occhi e il naso, e sotto cui scendeva una folta chioma grigia che arrivava alle ginocchia. Il pettorale era anch'esso di colore rosso, con al centro un triangolo di colore nero. Copriva la cassa toracica ed evidenziava la linea dei muscoli pettorali. Sotto indossava una tunica grigia, forse di panno. I coprispalla superavano di poco la spalla, terminavano ad uncino ricurvo verso il basso ed erano neri e cilindrici. Aveva due grossi braccialetti neri, ornati da triangoli rossi a rilievo, al posto dei copribicipiti. I bracciali, invece, partivano dal gomito e coprivano anche le dita formando artigli affilati. Il gonnellino era forse il pezzo più particolare: lungo fino a metà coscia davanti, dietro formava una coda che raggiungeva le caviglie. Era rosso con bordi neri ed al centro aveva un piccolo triangolo nero. Gli schinieri erano alti fino alle ginocchia, erano rossi con striature nere, coprivano anche i piedi, da qui partivano tre artigli: uno al centro e due ai lati. Infine, agganciate sulla schiena, aveva due imponenti ali d'averla ripiegate: i bordi esterni erano neri, mentre il resto era di un rosso vivo.

Jorkell non aveva mai visto un'armatura come quella. Sembrava davvero il manto di un uccello.

Lo guardò con un certo distacco, tenendo a freno ogni frase di rivalsa e disse soltanto: "Scoprirai presto quali sono i miei talenti, demone!"

Detto questo, fece scattare il pugno destro verso il nemico, lanciandogli contro gelidi cristalli di ghiaccio avvolti di cosmo.

Umma non si scompose. Aprì le ali e creò una poderosa raffica di vento che rimandò al mittente l'attacco di ghiaccio. Jorkell si gettò di lato per evitare l'assalto del suo stesso colpo.

"Sei un degno avversario!", disse poi, fissandolo con aria di sfida.

Il demone rise e con tono perentorio affermò: "Sei un illuso se credi che le tue tecniche di ghiaccio ti salveranno dalla morte. Dovresti eguagliare l'abilità e la potenza del sommo Agga per avere ragione di me. Ma il tuo cosmo non sembra così minaccioso e potente!"

Tenendo le ali spiegate, bruciò il suo cosmo rosso sangue e creò un vento intensissimo. Le barche e i pontili del porto più vicini furono letteralmente spazzati via, alcune file di alberi divelte e la sabbia si levò al cielo oscurando la vista di Jorkell, che cercava in tutti i modi di tenere i piedi saldi a terra, benché la natura scivolosa del suolo glielo impedisse.

Il Cavaliere bruciò il proprio cosmo nel tentativo di opporsi alla furia del vento, ma la preoccupazione per gli effetti che quell'attacco poteva avere sulla vicina città lo fece esitare. Fu un errore, perché il vento lo sbalzò via e lo fece precipitare in mare.

Dalla nave il porto si vedeva ancora. Laurion, sportosi dal parapetto di poppa, assistette all'intera scena. Voleva correre ad aiutare il compagno; stava per saltare, quando una mano lo trattenne.

"Non farlo!", disse una voce. Era Midra. "Dobbiamo aver fiducia in Jorkell e portare a compimento la nostra missione. Un nemico come quello non è all'altezza di un Cavaliere d'Oro come lui. Sta' calmo, presto ci raggiungerà!", continuò, poggiandogli una mano sulla spalla.

Laurion annuì, anche se l'inquietudine e l'ansia continuavano ad attanagliargli il cuore.

Umma, visto il nemico precipitare in mare, accennò un sorriso, puntò gli occhi sulla nave in lontananza e si apprestò a raggiungerla. Fece appena qualche passo prima di librare le ali, quando un cosmo minaccioso ed intenso s'infiammò alle sue spalle.

"Vedo che sei ancora vivo, Cavaliere. C'era da aspettarselo da un umano ostinato come te. Tuttavia, la tua cocciutaggine a rialzarti ed a voler affrontare un avverso destino presto ti perderà", esclamò il demone con una punta di fastidio nella voce e senza voltarsi.

"Spiacente, ma noi Cavalieri di Atena non ci arrendiamo mai, combattiamo per un ideale troppo alto e nobile, un ideale che esseri della tua risma non capiranno mai!", ribatté Jorkell con convinzione e trasporto.

"E ora ti farò assaggiare il colpo di un paladino della giustizia e della libertà! Sta' in guardia, demone!", continuò incassando il braccio destro e avvolgendolo di un cosmo dorato.

"Che la potenza dei ghiacci del nord faccia trionfare la giustizia! Diamántōn Konía [Polvere di Diamanti]", urlò il Cavaliere rilasciando una potente corrente gelida che si diresse verso il demone, ancora immobile e di spalle.

Prima di raggiungere l'obiettivo, però, la corrente si fermò, come ostacolata da un muro.

Jorkell impresse ancora più forza nel colpo, ma nulla sembrava abbattere la barriera che divideva la Polvere di Diamanti dalla sua meta.

D'un tratto, la corrente fu inghiottita da un vento impetuoso e dispersa. Jorkell saltò all'indietro di un paio di metri per non essere investito dalla furia della contromossa nemica.

"Ha solide difese questo guerriero; devo trovare il modo di distruggerle o mi ucciderà", pensò il Cavaliere dell'undicesimo tempio, un po' in affanno.

"Allora? Dov'è finito il trionfo della giustizia di cui parli tanto? Te lo ripeto: non hai speranze contro di me, il tuo gelo è poca cosa in confronto a quello del sommo Agga! Se ti arrendi adesso, potrei anche essere clemente e risparmiarti, ma se intendi ancora porti sulla mia strada non esiterò ad ucciderti!", disse con tono minaccioso Umma, avanzando di qualche passo e bruciando il suo cosmo rosso sangue.

"Non so chi sia questo Agga di cui continui a tessere le lodi, ma finora non ti ho mostrato che solo una piccola parte del mio potere. Lo scontro non è ancora finito, non credere che la forza dei Cavalieri d'Oro sia così misera! Preparati: Diamántōn Konía!", disse il signore delle energie fredde scagliando di nuovo il suo colpo segreto.

Umma eresse di nuovo la sua barriera di vento, ostentando noia e fastidio. "Non vuoi proprio capire...", disse con disprezzo e ironia. Bruciando ancor più intensamente il suo cosmo e ripiegando le ali a coprirgli il corpo, il demone fece esplodere la barriera che si trasformò in un uragano e si abbatté violentemente contro Jorkell, ancora impegnato a mantenere attivo il proprio colpo.

"Shedu Umulak [Anima di Umul]", gridò il demone, mentre il vento sempre più intenso e violento scaraventava in aria il Cavaliere assieme a sabbia, alberi e rottami di navi.

All'interno del mulinello, Jorkell si accorse che quello non era un vento normale: una sostanza verdognola e appiccicosa vorticava all'interno di esso e si dissolveva ogni volta che entrava a contatto con l'armatura. Una parte di essa, però, gli penetrò nella parte alta delle braccia, non protetta dall'armatura. Un dolore lancinante s'impossessò per un attimo del corpo del Cavaliere che emise un tremendo grido.

Quando il vortice si esaurì, Jorkell precipitò fragorosamente a terra, coperto di sabbia, rami e detriti di legno.

Intanto, in città, la gente scappata dal porto all'avvento della battaglia aveva sparso la voce che due creature celesti stavano combattendo nei pressi della radura. Argiro, saputa la nuova, era salito sulla torre sinistra del palazzo e guardava in direzione del porto. Aveva visto il vortice di vento spazzare via alberi, sabbia e navi e, preso dall'ansia per sua nipote, ordinò che gli venisse portata l'armatura e che si preparasse una schiera di soldati scelti.

"Che diavoleria è mai questa? Come possono degli uomini avere poteri del genere? Irene, nipote mia, ora vengo a salvarti!", pensò fra sé mentre ridiscendeva le scale della torre, accompagnato da alcune guardie.

Umma si avvicinò a Jorkell, ancora riverso a terra. Lo guardò con un misto di disprezzo e di scherno e disse: "Ben misera cosa era il potere dei Cavalieri d'Oro! Addio, Jorkell di Aquarius!" Si chinò su di lui, alzò la mano, su cui brillavano gli artigli dell'armatura, e stava per dargli il colpo di grazia, quando una voce dalle mura della città gli intimò di fermarsi.

Il demone si rialzò in piedi e volse lo sguardo alle mura, da cui era provenuto l'ordine. Accennò un sorriso e disse con tono carico di disprezzo: "Chi sei tu, misero mortale? Come osi rivolgerti a me, Umma, secondo demone del vento e portatore di distruzione, in tal modo?"

Il titolo di demone per un attimo impaurì l'uomo che, però, non lasciando trasparire i suoi veri sentimenti, replicò con volto duro: "Io mi chiamo Argiro e governo su questi luoghi in nome e per conto dell'Imperatore di Bisanzio, il sommo Costantino IX. Cosa cerchi in queste terre? E perché hai attaccato un messo imperiale?"

Scoppiando a ridere, Umma, avvolse il braccio sinistro del suo cosmo scarlatto e lanciò un colpo verso le mura. I soldati di scorta al duca si posero a difesa coi loro scudi. A pochi metri dall'obiettivo, però, esso si infranse su una barriera invisibile.

Argiro, fatto capolino dal muro di scudi, si accorse che non era successo niente. Si avvicinò di nuovo ai merli delle mura e notò qualcosa di strano: non sentiva il fruscio del vento e la luce del sole sembrava riflessa da una superficie trasparente. Appoggiò timidamente la mano e sentì al tatto una lastra gelida e solida.

"U-Una parete di ghiaccio? Com'è possibile? Chi l'ha eretta?", disse il catapano, incredulo ai suoi occhi.

"Io!", esclamò una voce proveniente dalle spalle di Umma. Era Jorkell. Pochi attimi dopo, la barriera trasparente si tramutò in acqua e si sciolse fra il panico dei soldati e lo stupore del duca.

"Duca, vi prego, allontanatevi assieme ai vostri uomini. Mi occuperò io di quest'essere. Abbiamo un conto in sospeso", disse il Cavaliere facendo esplodere il suo cosmo.

A malincuore, il catapano annuì e con un gesto intimò ai suoi uomini di allontanarsi.

"Interessante quella tua tecnica di vento, ma come puoi vedere non è bastata a sconfiggermi", disse poi Jorkell, rivolgendosi al demone.

"Se fossi in te, non ne sarei così sicuro. Lo Shedu Umulak può sembrarti un colpo innocuo perché non lascia segni sul corpo, ma il suo potere è letale per chiunque. Una persona comune sarebbe morta in pochi secondi; è solo grazie al cosmo che sei ancora in piedi, anche se non durerai a lungo", rispose il demone con una punta di soddisfazione nella voce.

"Che vuoi dire?", interrogò il Cavaliere d'Aquarius, infastidito dal tono di sufficienza del nemico.

"Conosci la storia di Umul? O a voi miseri Cavalieri non insegnano i misteri degli antichi dei?", disse con sarcasmo Umma.

"Non ne ho mai sentito parlare, ma cosa c'entra col tuo colpo segreto?", rispose un po' spazientito il Cavaliere.

"Lo immaginavo", commentò il demone. "Bene, prima di cancellarti da questo mondo, ti rivelerò l'origine del potere della mia tecnica. Consideralo un ultimo atto di clemenza!"

Dopo una breve pausa, riprese: "Agli albori del creato, gli dei Enki e Ninmah cercarono di creare un essere perfetto. Fecero molti tentativi, ma si rivelarono tutti un fallimento. L'ultimo di essi fu una creatura chiamata Umul, nata dal seno di Ninmah, che, però, al pari delle altre, non soddisfaceva le aspettative delle due divinità. Enki, che aveva provveduto a tessere un destino appropriato per le altre creature imperfette, chiese a Ninmah di occuparsi di Umul, ma quest'ultima, delusa che dal suo ventre fosse nato un essere menomato e privo di perfezione, lo esiliò e lo costrinse a vivere nelle viscere del mondo, dove ben presto trovò la morte fra disperazione e delusione.

I due dei, alla fine, riuscirono a creare un essere che li soddisfacesse, seppure non rispecchiasse appieno il loro ideale di perfezione: l'uomo. Col tempo, però, anche gli uomini manifestarono la loro natura vana ed impura, deludendo i loro creatori che ne presero sempre di più le distanze.

Quando l'universo venne costituito e gli dei si spartirono il dominio, la signora dell'abisso, Ereshkigal, annetté la valle dove aveva vissuto Umul al suo regno e la chiamò Piana del Vento Silente. Tutti coloro che finivano lì divenivano preda della dimenticanza e tenevano perennemente gli occhi spalancati e la bocca aperta, incapace di emettere gemiti, rivolti verso l'alto.

Dagli angoli delle loro bocche cadeva una bava verdognola, intrisa di odio, rancore, disperazione, rimorso, agonia. Essa rivelò avere un potere incredibile: era in grado di infettare e distruggere l'anima di ogni creatura vivente.

In pratica, quella bava, di cui la mia tecnica si fregia, fa ammalare l'anima fino ad annientarla. E non esiste rimedio umano o divino per annullare questo fato ineluttabile".

Jorkell aveva ascoltato il racconto di Umma con attenzione, ma anche con un certo disprezzo. Ora era più che mai convinto di dover concludere quello scontro ed eliminare un essere tanto pericoloso.

"Tsk, non credere di spaventarmi con l'idea della morte. Un Cavaliere di Atena vive perennemente accanto alla nera signora, il suo alito soffia continuamente sul nostro collo. Siamo abituati a convivere con lei. Se il mio destino è questo, lo accetterò nel solo modo che conosco: combattendo. Ora preparati, Umma!", disse Jorkell, bruciando ancora più intensamente il suo cosmo. Sentiva che qualcosa, dentro di lui, veniva meno; era una senso di impotenza e di rassegnazione, ma strinse i denti e scacciò lo sconforto dalla sua mente, concentrandosi sullo scontro.

"Diamántōn Konía!", gridò con quanto fiato aveva in gola, mentre una potente raffica di aria gelida e neve si abbatteva sul demone.

Umma, a sua volta, approntò la difesa di vento che inghiottì e ribatté il colpo di Jorkell. Poi fece esplodere di nuovo la barriera per creare il vortice dello Shedu Umulak che avvolse il Cavaliere sollevandolo al cielo e scaraventandolo, poi, malamente a terra.

All'interno del turbine, Jorkell cominciò a sentire il sapore del sangue in bocca, il suo cuore sembrava battere all'impazzata e il respiro diventare affannoso e pesante. Poi si ritrovò di nuovo a terra, coperto di sabbia, rami e assi di legno.

"Come faccio a vincerlo?", pensò, mentre i sensi cominciavano ad abbandonarlo. Scosse la testa, come per riprendere il controllo del suo corpo, ed aprì gli occhi, sporchi di sabbia e terriccio.

Si rialzò a fatica, la vista appannata, la testa che girava, le orecchie ovattate.

"Sei più resistente di quanto mi aspettassi!", commentò Umma. "Hai subito per due volte l'impeto del mio colpo segreto e sei ancora in piedi, seppure tu sia allo stremo, ormai", continuò con un sorriso beffardo.

Jorkell sentì a stento quelle parole, gli effetti della bava penetrata nella sua carne cominciavano a farsi sentire, ma il Cavaliere teneva duro e continuava a fissare il suo avversario, in cerca di un punto debole.

Umma aveva alzato il braccio, attorno al quale vorticava un accenno di vento, e lo stava puntando verso il custode dell'undicesima casa, quando, d'un tratto, la brezza proveniente dal mare si arrestò, facendo impallidire il demone. Attorno all'arto il vento svanì ed Umma fece una smorfia di disappunto.

Abbassò il braccio e, fingendo calma, si avvicinò al Cavaliere puntandogli gli artigli alla gola. "Ti ucciderò a mani nude, senza utilizzare i miei poteri", disse minaccioso, pronto a colpire e con la speranza che Jorkell non si fosse accorto di nulla.

Il Cavaliere accennò un sorriso, mentre gli artigli di Umma si conficcavano in una barriera trasparente che, al loro tocco, andò in frantumi. Dietro, però, non c'era nessuno: Jorkell sembrava sparito.

"Ma che succede?", disse il demone, confuso dall'accaduto. Poi avvertì un cosmo provenire dalle sue spalle ed un brivido gli attraversò la schiena.

Si voltò di scatto e vide Jorkell bruciare intensamente il suo cosmo e pronto a colpire.

"Perché non ti abbandoni all'abbraccio della morte? Perché ti ostini a combattere? Non hai né la forza, né i mezzi per sconfiggermi! Rinuncia ai tuoi propositi, ormai sei agli sgoccioli!", propose Umma, con un tono seccato e rabbioso.

"Chi ha detto che non ho mezzi per sconfiggerti? Ho trovato un modo, Umma. Credevi che il gesto che hai fatto prima mi fosse sfuggito? Ho capito qual è il tuo punto debole: da solo non riesci a generare il vento, puoi solo alimentarlo col tuo cosmo.

Il vento si è fermato e tu non puoi più usarlo in battaglia. Ora tocca a me contrattaccare!", disse Jorkell, avvolto da un intenso cosmo dorato.

Mentre si preparava a colpire, il vento riprese a soffiare e Umma accennò un sorriso divertito, preparandosi a sferrare per la terza volta la sua tremenda tecnica.

Il Cavaliere si accorse del pericolo ed iniziò ad innalzare pareti di ghiaccio attorno a sé e ad Umma. Il demone sentì di nuovo il vento sparire, avvertì un'aria gelida e capì che Jorkell aveva creato una barriera in grado di isolarli dall'ambiente circostante.

"Non credere che queste pareti trasparenti mi tratterranno", disse con tono convinto. Poi spiegò le ali dell'armatura e cominciò a librarsi verso l'alto, in cerca di una brezza di vento da poter utilizzare in battaglia.

"Non così in fretta...", disse fra sé Jorkell, mentre il nemico tentava di uscire da quella gabbia di ghiaccio. Concentrò ancora di più il cosmo e l'aria si riempì di cristalli di neve.

"Págou Lepídes [Lame di Ghiaccio]", gridò il signore delle energie fredde. Al suo comando, i cristalli di neve si solidificarono e formarono lame affilatissime che si conficcarono nelle ali dell'armatura di Umma.

"Credi che questi trucchetti mi fermeranno?", commentò il demone, ma le parole gli morirono in bocca. Il gelo delle lame stava sbriciolando le ali che non ressero più il peso di Umma e lo fecero precipitare.

Adirato per l'affronto subito, il demone del vento si rialzò, non riuscendo a capire come facesse Jorkell ad avere ancora tanta energia.

"Come ha potuto il tuo misero gelo frantumare le mie ali? Dovresti essere finito: anche con un cosmo potente, lo Shedu Umulak non lascia scampo, da dove scaturisce la fonte di tanta forza?", chiese, confuso dalla tenacia del Cavaliere.

"Il mio gelo ha il potere dello zero assoluto, cioè della temperatura più bassa esistente che corrisponde a -273°. Nulla a questo mondo può sottrarsi alla sua forza distruttiva, forse solo le armature degli dei maggiori resisterebbero.

Tuttavia, per distruggere le tue ali è bastata una temperatura di appena -200°, vale a dire che la loro resistenza non è paragonabile neppure ad un'armatura d'argento", disse il Cavaliere, rispondendo al primo dei due quesiti.

A quelle parole, Umma fece una smorfia di disappunto e si rese conto, per la prima volta, di aver sottovalutato l'avversario.

"Atena e la difesa del mondo sono la mia fonte di forza: è a loro che ho votato la mia vita tanti anni fa ed è per loro che indosso queste vestigia", continuò Jorkell, ripensando al giorno in cui decise di diventare un paladino della giustizia.

Umma fu stupito dalla convinzione con cui Jorkell palesava i suoi ideali. Aveva trascorso secoli sulla Terra, ma mai aveva incontrato qualcuno con tanta abnegazione e tanta forza di volontà.

"Vedo che non tutti gli esseri umani sono pavidi ed egoisti. Se tutti i Cavalieri di Atena sono come te, sarà una guerra difficile da gestire", commentò il demone, con un sorriso tirato.

"Guerra? Chi ti ha mandato, Umma?", chiese Jorkell, intenzionato a scoprire qualcosa di più sul suo misterioso nemico, prima che lo scontro terminasse.

"Credi davvero che te lo direi? Sei un ingenuo, se lo pensi. Comunque sia, quando il mio Signore verrà, tu sarai solo un ricordo!", rispose Umma, senza aggiungere altro.

Il Cavaliere di Aquarius si rese conto che l'essere che aveva di fronte non gli avrebbe mai rivelato nulla e si preparò a concludere lo scontro. Il suo fisico risentiva degli effetti della tecnica di Umma ed il suo cosmo iniziava a cedere.

Unì i pugni ed alzò le braccia al cielo. Il demone vide apparire dietro di lui una fanciulla che teneva in spalla un'anfora colma di energia cosmica puntata verso di lui. Umma era inerme, senza l'ausilio del vento o delle ali non avrebbe mai potuto evitare di essere colpito. Incrociò, come ultima difesa, le braccia davanti al volto, bruciò il proprio cosmo e si preparò ad incassare il colpo.

"Preparati a ricevere la tecnica più potente di Aquarius, essa ti accompagnerà nell'oblio, dove un giorno, forse, ci rivedremo. Héō Ekteléiōsis [Sacro Aquarius]!", disse Jorkell abbassando di colpo i pugni uniti e scatenando contro Umma tutta la potenza dello zero assoluto.

Impotente di fronte a quell'esplosione di energia cosmica, il demone del vento venne spazzato via, l'armatura completamente distrutta, mentre le pareti di ghiaccio cadevano.

Umma precipitò all'interno della radura portandosi dietro alcuni alberi. Jorkell cadde in ginocchio, spossato dalla battaglia. Gli doleva in ogni parte del corpo, il respiro era affannoso, la testa gli scoppiava.

Si rialzò a fatica e si trascinò verso la radura, dove giaceva Umma. Quest'ultimo era riverso a terra, in una pozza di sangue bluastro. Per la prima volta, il Cavaliere poté vederne il volto: era impossibile stabilire quanti anni avesse; le labbra della bocca semichiusa, attraversata da un rivolo di sangue, erano pallide e gli occhi, chiusi per metà, non presentavano iridi, ma erano completamente neri.

"Sei stato un avversario difficile da superare. La tua tecnica è davvero terribile, ora... comincio a sentirne... il peso", disse Jorkell, cadendo in ginocchio davanti al corpo di Umma, che cominciava a dissolversi in una nuvola di fumo bluastra.

"Hai vinto... perché... ti ho sottovalutato... e grazie... alla tua immensa... forza di volontà", rispose con un filo di voce il demone del vento, girando lentamente la testa verso Jorkell.

"No," ribatté il Cavaliere d'Oro, "è stata solo fortuna. Se non mi fossi accorto... che non eri... in grado di creare... il vento dal nulla... avrei perso".

"Già... la maledizione... degli Utukki... ti ha favorito", disse Umma, annuendo leggermente con la testa e spegnendosi. Il corpo del demone si dissolse completamente, lasciando solo la pozza di sangue bluastro e la sagoma del cadavere.

"La maledizione... degli Utukki?", ripeté Jorkell fra sé. Non aveva capito cosa intendesse il demone e ormai non poteva più chiederglielo, anche se in cuor suo sapeva che l'orgoglio di Umma non gli avrebbe mai permesso di rivelare i dettagli della faccenda.

Si rimise in piedi, in qualche modo. Doveva raggiungere la nave e i suoi amici, che lo stavano aspettando. Rimase immobile per qualche secondo, come per riprendere il controllo sul suo corpo che, dopo la battaglia, sembrava non rispondere nemmeno ai comandi più elementari.

Attorno a lui c'era solo silenzio, interrotto, di tanto in tanto, dal ritmo delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia e dal leggero fruscio del vento. Jorkell si concentrò per evitare di perdere i sensi e cadere, poi aprì gli occhi appannati dalle sue precarie condizioni ed iniziò ad incamminarsi verso lo scrigno, che aveva lasciato sulla battigia all'inizio dello scontro.

Mentre camminava, sentì una voce chiamarlo, sebbene gli sembrasse quasi un'eco o uno scherzo della mente. Si voltò verso l'origine della voce e vide Argiro venirgli incontro con una dozzina di guardie.

"Cavaliere! Cavaliere! State bene?", gli domandò il catapano d'Italia, guardandosi intorno e vedendo la devastazione provocata dallo scontro. Jorkell annuì.

Argiro si accorse che non c'era né Irene, né i Cavalieri che lo avevano accompagnato e, preso dalla preoccupazione, iniziò ad incalzare il Cavaliere con altre domande:

"Dov'è mia nipote? Quell'essere l'ha forse uccisa? Ditemelo, vi prego!"

"No, state tranquillo, vostra nipote è al sicuro. I miei compagni la stanno scortando in Grecia", lo rassicurò il custode dell'undicesima casa.

Rincuorato dal sapere sua nipote incolume e già diretta verso Atene, il duca tirò un sospiro di sollievo. Poi si soffermò per un attimo a guardare l'uomo in armatura che aveva davanti: sembrava illeso, eppure il suo volto pallido, gli occhi privi di vitalità, il respiro affannoso e le gambe che a stento lo reggevano, gli diedero un senso d'inquietudine.

"Cos'era quell'essere, Cavaliere? Ha detto di essere un demone, ma com'è possibile una cosa del genere?"

"Il mondo è pieno di esseri soprannaturali: dei, demoni, creature mitologiche, non sono soltanto leggende o miti, ma una realtà che agli occhi dei comuni mortali viene celata", rispose Jorkell, sedendosi sulla spiaggia, accanto allo scrigno.

"Celata?", chiese un po' confuso il duca.

"Per il vostro bene. Noi combattiamo gli dei e le creature che vorrebbero annientare il genere umano. Atena, la nostra dea, fin dalla notte dei tempi si è assunta l'incarico di preservare e proteggere la vita umana, perché ne ha rispetto e crede nelle potenzialità degli uomini", spiegò il dorato custode, lasciando il duca senza parole.

"Capisco", disse soltanto. Poi Jorkell si rialzò, appoggiandosi sullo scrigno. Con un colpo deciso, lo sollevò e se lo mise in spalla. Sembrava star bene, anche se gli si leggeva in volto un certo sforzo.

"Abbiate cura di voi, duca e non temete per vostra nipote, con noi starà bene", disse, prima di svanire come un fantasma, lasciando tutti a bocca aperta.

"L'Imperatore si sbaglia sul conto di questi uomini", pensò il duca, guardando verso l'orizzonte.

Midra e Laurion erano sul ponte della nave, guardavano i remi fendere le onde e la sterminata distesa azzurra che avevano davanti, persi nei loro pensieri. Si chiedevano quando e se sarebbe ritornato il loro compagno. Laurion, in particolare, era inquieto e continuava a percorrere il ponte in lungo e in largo.

D'improvviso, una luce dorata li distolse dalle loro ansie. Era Jorkell, che crollò a terra svenuto. I due Cavalieri si precipitarono a soccorrerlo.

"Dev'essere stato uno scontro tremendo", affermò Laurion, poggiandogli una mano sulla fronte ed accorgendosi che aveva la febbre alta.

"Portiamolo sottocoperta, ha bisogno di riposare", continuò il Cavaliere di Leo Minor. Lo prese in braccio e si avviò, mentre Midra si caricava in spalla lo scrigno.

Laurion adagiò il compagno su un pagliericcio, su cui era distesa una coperta di lana grezza, usò il mantello dell'armatura del Cavaliere per coprirlo e mandò Midra a cercare un bacile con dell'acqua e delle pezzuole.

Jorkell aveva il respiro affannoso, era sudato ed il suo sonno sembrava turbato da incubi del passato.

Il rumore ritmico del martello sulla lama incandescente spezzava il silenzio di quell'afoso giorno. L'uomo si passò una mano sulla fronte madida di sudore e riprese il suo lavoro di forgiatura.

"Padre, tieni! Rinfrescati un po'!", disse un bambino di circa tre anni dalla chioma bionda e riccioluta e dagli occhi blu, porgendo una brocca d'acqua fresca all'uomo.

"Grazie, Jorkell", disse l'uomo, accarezzando la testa del bambino ed accettando il dono ristoratore.

Il bambino sorrise, felice di aver potuto contribuire a dare un po' di ristoro al suo amato genitore. Lo osservava, mentre beveva. Erano molto diversi: lui biondo con occhi blu, il padre castano scuro, occhi marroni ed una barba incolta, impreziosita da fili argentei.

Dicevano tutti che fosse l'esatta replica di sua madre, la bella Gudrun, che ora stava per dargli un fratellino o una sorellina.

"Non dovevi andare dal frate? Non ti sta insegnando a leggere e scrivere? Su, sbrigati, pelandrone, o farai tardi!", disse l'uomo, che aveva ripreso a lavorare.

"Ci vado subito, padre", rispose il bambino con un sorriso innocente. Poi salutò il genitore e di corsa percorse l'acciottolato che dalla bottega di famiglia portava alla chiesa, dove Frate Rolf, due volte a settimana, spendeva qualche oretta ad istruire i bambini del villaggio.

Mentre correva, incontrò la signora Malin, la vecchia vicina di casa, la salutò, ma la donna non gli rispose; sembrava angosciata da qualcosa e si stava dirigendo a passo svelto verso la bottega di suo padre.

Il bambino si fermò, un po' confuso dal comportamento dell'anziana donna. Era sempre stata una signora dolce e premurosa, ma ora sembrava presa da gravi pensieri. Decise di seguirla, senza farsi vedere, e di farle uno scherzo per farla tornare a sorridere.

Giunta all'ingresso della bottega, la donna cominciò a gridare: "Trym! Trym! Corri, presto! Gudrun sta male!"

"Cos'è successo, Malin?", le chiese l'uomo, impallidendo.

"Il bambino... il bambino, Trym!", rispose la donna con le lacrime agli occhi.

Trym si precipitò a casa col cuore in gola. Jorkell aveva assistito alla scena da dietro un albero. Non capiva cosa stesse succedendo, ma la felicità che fino a poco prima l'aveva inondato, stava scemando vertiginosamente.

Si avvicinò alla vecchia Malin e con aria triste le chiese: "La mia mamma sta bene? E il mio fratellino?" Aveva la voce rotta, le lacrime iniziarono a rigargli il bel viso, mentre l'anziana lo stringeva a sé nel tentativo di rassicurarlo. Ma anche lei piangeva, anche lei sentiva una profonda tristezza nel cuore.

Trym spalancò la porta della modesta casa, grondante sudore ed in evidente affanno. Entrò in camera da letto, dove trovò la moglie distesa, accudita da Synne, figlia di Malin e levatrice del villaggio.

Appena lo vide, Gudrun gli sorrise e lo invitò ad avvicinarsi: "Amore mio, mi dispiace, il nostro bambino...", iniziò a parlare, prima di scoppiare in un pianto dirotto.

"Cos'è successo al bambino?", chiese l'uomo, guardando verso Synne.

"E' nato morto", rispose la donna, tenendo gli occhi bassi.

Trym aveva capito che la levatrice gli nascondeva dell'altro. Qualcosa che Gudrun non doveva sapere.

Si avvicinò ancor di più alla moglie, l'abbracciò delicatamente, baciandole ripetutamente la fronte e sussurrandole parole di conforto. Trattenne le lacrime ed il dolore seppellendoli nel fondo dell'anima, per non aggravare la sofferenza della sua adorata sposa.

Nel frattempo erano sopraggiunti anche Malin ed il piccolo Jorkell. La donna aveva convinto il bambino a seguirla a casa sua, con la scusa di avergli preparato il suo dolce preferito, il pasticcio di fragole e lamponi.

Coccolata dalle carezze e dalle parole del marito, Gudrun si era addormentata. Trym ne approfittò per interrogare Synne, che sembrava a disagio.

"Dimmi la verità, Synne! Cos'è successo?", le si rivolse con tono duro ed una malcelata inquietudine.

La donna esitò per qualche secondo, come per cercare le parole adatte a rivelare una terribile verità.

Poi, sospirando profondamente, parlò: "Gudrun ha avuto un parto difficile e la bambina è stata soffocata dal cordone ombelicale. Ho cercato di salvarla, ma era già troppo tardi. Inoltre, tua moglie ha avuto un'emorragia che non sono riuscita ad arrestare. Ho mandato mio figlio a chiamare il medico del villaggio vicino, ma non so se riuscirà ad arrivare in tempo".

"Dov'è la bambina? Voglio vederla!", proruppe improvvisamente Trym, versando calde lacrime.

Synne si diresse verso un tavolino di legno grezzo nell'angolo della stanza e prese fra le braccia un piccolo fagotto avvolto in un panno intriso di sangue. Si avvicinò a Trym e glielo porse.

L'uomo prese delicatamente quell'involto, con mani tremanti, lo guardò e qualcosa dentro di lui si spezzò. Vide quel visino tenero, coperto di sangue e dai capelli scuri, umidi e imbrattati.

La tenne solo pochi istanti, poi la riconsegnò a Synne. Il dolore e la rabbia che finora aveva trattenuto in corpo esplosero in tutta la loro veemenza. Fiumi di lacrime sgorgarono dai suoi occhi, mentre il suo mondo sembrava sgretolarglisi fra le mani.

Quella stessa sera, Gudrun morì. Il medico arrivò due ore dopo e dovette affrontare l'ira di Trym che lo incolpava, assieme a Synne, della prematura morte della sua sposa e della sua bambina.

I funerali celebrati da Frate Rolf il giorno successivo gettarono un alone di sconforto e di tristezza su tutto il villaggio. Trym era diventato un altro uomo. In un solo giorno sembrava aver perso tutta la sua umanità: era diventato scontroso, distante, sprezzante. Anche Jorkell non sorrideva più. I suoi occhi blu che, fino al giorno prima, sembravano gioire di ogni piccolo gesto quotidiano, ora erano spenti e assenti.

Si sentiva sempre più solo. Suo padre aveva iniziato a frequentare l'osteria ed a giocare a dadi. Tornava la sera sbronzo e senza un soldo. Aveva accumulato parecchi debiti e spesso era stato picchiato per invogliarlo a saldarli. Lavorava poco e la qualità dei suoi prodotti, un tempo rinomata anche nei villaggi vicini, era divenuta scadente, tanto da fargli perdere molti clienti.

Un giorno, Trym si fece prestare una grossa somma da Gunnar, figlio di Oddvar lo Spietato, vassallo del re Olaf II e conte di Notodden, che, assieme ad altri nobili, stavano tramando contro il sovrano.

Gli scagnozzi di Gunnar si recavano al villaggio quasi ogni settimana per riscuotere il debito, ma Trym, che ormai lavorava sempre meno, li rimandava ora con una scusa, ora con una promessa.

Jorkell trascorreva i giorni dalla vecchia Malin, che tentava di non fargli pesare troppo la mancanza della madre. Il bambino aveva perso tutta la sua allegria, la sua spensieratezza era svanita ed aveva preso ad odiare suo padre. Lo vedeva ubriacarsi e scommettere nella locanda del paese in compagnia di loschi figuri e poi tornare a casa senza curarsi minimamente di lui.

L'anziana signora si era accorta di quel brusco cambiamento e, a volte, aveva tentato di parlarne con Trym, che si limitava a consigliarle di non impicciarsi in faccende non sue.

Il bambino cresceva, ma si sentiva sempre più solo, benché accudito e amato da Malin. Aveva sette anni quando, una sera che si era trattenuto a dormire dalla vicina, vide un intenso bagliore provenire da casa sua. Si affacciò alla finestrella della stanza e si accorse che la casa stava bruciando. Si alzò di scatto, andò a svegliare Malin e poi si gettò in strada per chiedere soccorso.

Le grida del bambino svegliarono alcuni vicini. Tutti accorsero al pozzo per prendere acqua con cui spegnere il rogo, ma la casa, fatta di legno e paglia, bruciò in poco tempo. Quando le fiamme si placarono, Jorkell cercò fra le ceneri tracce di suo padre: non ce n'erano.

D'istinto, corse verso la bottega di famiglia. Era ancora lì, alla fine della strada. Il bambino entrò e vide uno spettacolo raccapricciante: suo padre era riverso in una pozza di sangue, la gola recisa.

Jorkell emise un urlo terribile e svenne. Si risvegliò poco tempo dopo in casa di Malin. La donna era seduta accanto a lui, in lacrime.

Passò qualche settimana, si scoprì che l'incendio e l'assassinio di Trym erano stati perpetrati dagli sgherri del conte, stanchi delle continue menzogne dell'uomo.

Il bambino decise di andarsene, l'aria di quel villaggio non gli piaceva più. Chiese a Frate Rolf di portarlo con lui in città la prossima volta che avrebbe fatto visita al vescovo. Il religioso accettò, anche se a malincuore. Lasciare un bambino di quell'età in un posto che non conosceva lo spaventava. Aveva così deciso di affidarlo al vescovo che avrebbe saputo trovargli una sistemazione.

Partirono una domenica mattina. Il viaggio sarebbe stato lungo e difficile in quella stagione. Jorkell abbracciò Malin che aveva il volto rigato di lacrime. Era l'unica persona di cui avrebbe sentito la mancanza. Si guardò un'ultima volta intorno e poi salì sul carro. Il frate diede un colpo di briglia e il cavallo si avviò lentamente.

Percorsero un fitto bosco, costeggiarono la riva di un fiume e s'inoltrarono in una foresta di querce e faggi. Al di là di essa vi era la città.

Il sole era calato ed il frate aveva deciso che avrebbero passato la notte lì, in quella foresta, visto che non c'erano locande lungo il percorso. Sarebbero ripartiti alle prime luci dell'alba.

Accesero un fuoco per cuocere i conigli che il frate si era portato dietro e per scaldarsi un po'. Fu un pasto silenzioso, proprio come lo era stato il viaggio. Poi si accucciarono attorno alla tenue fiamma per riposare. Il frate si addormentò quasi subito, ma Jorkell non riusciva a prendere sonno.

Da quando aveva visto il padre sgozzato gli riusciva difficile abbandonarsi alle braccia di Morfeo e ogniqualvolta i suoi occhi cedevano alla stanchezza, rivedeva quella scena raccapricciante.

Il silenzio di quel luogo era interrotto dal lugubre canto dei gufi e dal russare del frate. D'improvviso, però, Jorkell sentì un fruscio dai cespugli che li attorniavano. Con un gesto rapido, afferrò un grosso ramo dal fuoco e si alzò con circospezione.

Si avvicinò lentamente al frate, guardandosi intorno, lo scosse, ma l'uomo dormiva profondamente. Riprovò ancora e ancora, e finalmente Rolf si svegliò, anche se un po' confuso.

Dal fitto dei cespugli si udirono dei latrati: erano lupi. Li avevano circondati. Il frate, compresa la situazione, si armò anche lui di un bastone e si pose a protezione del bambino.

Il capobranco ululò ed i lupi si gettarono all'attacco. Rolf faceva roteare il bastone a destra e a sinistra e riuscì a colpirne e ad allontanarne un paio. Anche Jorkell tentava di tenerli lontani puntandogli contro tizzoni ardenti.

Uno dei lupi più esperti saltò da un cespuglio alle spalle del frate e gli azzannò una spalla, gettandolo a terra. Subito gli altri compagni gli si fecero dappresso e cominciarono a morderlo ed a strappargli brandelli di carne.

L'uomo fece appena in tempo a dire a Jorkell di fuggire che le zanne di uno dei lupi più giovani gli squarciarono la gola.

Il bambino annuì e scappò, tenendo in mano uno dei tizzoni su cui ardeva un'intensa fiamma. Tre lupi si gettarono all'inseguimento.

Jorkell correva con tutte le forze, ma i lupi erano sempre più vicini. Cambiò sentieri un paio di volte, in cerca di qualche posto dove ripararsi. La fiaccola che aveva in mano stava per spegnersi e il buio pesto della notte gli impediva di orientarsi.

Giunse sul ciglio di un crepaccio, dove si affacciava un'imponente quercia. Vi si arrampicò a fatica, mentre i lupi, raggruppatisi sotto l'albero, mostravano i denti e latravano. Uno di loro cercò di tirarlo giù, saltando e sferrando artigliate. Jorkell, a sua volta, aggrappandosi ai robusti rami, tirava calci. Riuscì a colpirlo al muso; l'animale, perso l'equilibrio, precipitò nel burrone, lanciando un prolungato ululato che si disperse nella notte.

I due lupi rimasti, alla vista del compagno caduto, affondarono gli artigli nella corteccia dell'albero e tentarono di arrampicarsi. Jorkell aveva le braccia doloranti, non ce la faceva più a sferrare calci. Lasciò la presa e si accoccolò sul ramo, in attesa della fine.

D'improvviso, i lupi smisero l'arrampicata e si ammansirono. Il bambino rimase attonito, non capiva quello strano prodigio.

Poi sentì dei passi e vide un uomo rivestito d'oro con un lungo mantello bianco che gli pendeva dalle spalle.

"Kanaad...", esclamò Jorkell, svegliandosi e guardandosi intorno.

Accanto a lui trovò Irene, che gli poggiava una pezzuola zuppa d'acqua gelida sulla fronte.

"Dove sono? Cosa state facendo, donna Irene?", chiese il Cavaliere con voce stanca.

La donna sorrise e rispose con tono dolce e cortese: "Siete sulla nave diretta in Grecia. Non appena siete arrivato, avete perso i sensi. I vostri compagni vi hanno portato qui e vi hanno adagiato su questo giaciglio. Quando l'ho saputo, sono corsa ad accudirvi, per ringraziarvi di avermi salvata. Avevate la febbre alta ed avete delirato finché non vi siete svegliato".

"Quanto sono rimasto incosciente?", domandò ancora il paladino di Atena.

"Circa quattro ore", rispose Irene, controllando se la febbre fosse scesa. Purtroppo, la fronte scottava ancora e la donna, senza perdersi d'animo, prese un'altra pezzuola dal mucchietto che aveva accanto al piccolo sgabello su cui era seduta, la bagnò nel bacile di bronzo colmo d'acqua portato da Midra e la poggiò sul capo di Jorkell.

Poi, con un una buona dose di titubanza, Irene chiese delucidazioni al Cavaliere su una cosa che la incuriosiva: "Messere Jorkell... chi è Kanaad? Lo avete nominato poco prima di svegliarvi..."

Il custode dell'undicesima casa accennò un sorriso e, tirando le fila dei ricordi, rispose: "Kanaad di Virgo è l'uomo che mi ha salvato la vita e mi ha insegnato ad essere un Cavaliere di Atena. Grazie a lui ho riscoperto il valore dell'amore per gli altri, l'importanza di lottare per un ideale e la ricchezza dell'amicizia".

"E ora dov'è? E' morto?", continuò la donna, dando sfogo alla sua curiosità.

"No", rispose Jorkell, "vive ancora. Dopo avermi addestrato, però, tornò in India, il suo paese natio, e si rinchiuse in un monastero. E' un sopravvissuto dell'ultima guerra sacra, come il sommo Alexer. Sono ormai diciassette anni che non lo vedo, anche se lui e il Sacerdote si scambiano di continuo missive. Oggi dovrebbe avere all'incirca sessant'anni".

"Come mai si è chiuso in un convento? E' diventato cristiano?", domandò Irene, un po' confusa.

Jorkell la guardò con aria divertita e sorrise: "In realtà il maestro Kanaad è buddhista, non cristiano. Al Grande Tempio ognuno professa la religione tramandatagli dai propri avi. Io ed il Sommo Alexer, ad esempio, siamo cristiani; Midra segue la religione saracena e Laurion discende da una famiglia di monofisiti".

"Com'è possibile? Voi non adorate Atena?", esclamò incredula la nipote di Argiro.

"Atena ha a cuore il bene e la felicità degli uomini. Tutti noi le abbiamo giurato fedeltà per aiutarla in quest'ardua impresa, ma a nessuno è stato chiesto di rinnegare ciò in cui crede. Anche se assistere perennemente ad eventi straordinari ci ha fatto ridimensionare di molto il valore e la portata del nostro credo. Molte delle conoscenze che abbiamo acquisito non vengono insegnate nelle cattedrali o nelle moschee.

Tuttavia, l'ardente desiderio di difendere i deboli e di proteggere quanto di buono c'è nel mondo annulla le differenze e le barriere che possono allontanarci. Sono ideali che ci uniscono e ci rendono fratelli, anche se veniamo da luoghi ed esperienze diversi. So che può sembrare assurdo ed utopistico, ma questa realtà ha contraddistinto l'esercito di Atena nel corso dei secoli e gli ha concesso anche vittorie insperate", disse Jorkell con convinzione e passione.

Irene scorse negli occhi del Cavaliere risolutezza e decisione. Aveva sentito tante volte l'Imperatore inveire contro il Grande Tempio, definendo i suoi abitanti "empi", "pagani" e "sobillatori", ma le parole e le gesta di Jorkell e dei suoi compagni le avevano ora rivelato una realtà completamente diversa.

La donna si alzò e con un sorriso disse: "Vado a chiamare i vostri compagni. Erano preoccupati e saranno sollevati di vedervi sveglio".

Jorkell la ringraziò e la osservò allontanarsi. Fece un sospiro profondo e in cuor suo benedisse il maestro che lo aveva reso uomo e Cavaliere.

Il viaggio in nave fu lungo. Sbarcati a Patrasso, chiesero un passaggio ad un mercante diretto ad Atene. L'uomo accettò di buon grado, felice di avere un po' di compagnia.

Giunti ad Atene, raggiunsero in poco tempo Rodorio e da lì il Santuario di Atena.

Le condizioni di Jorkell non erano migliorate ed era costretto ad appoggiarsi a Laurion o a Midra per camminare.

Finalmente arrivarono al cospetto di Alexer, che li attendeva con trepidazione ed ansia.

Irene era rimasta meravigliata dalla bellezza di quei luoghi: il marmo bianco degli edifici, l'aspetto brullo del paesaggio, l'imponenza dell'Altura delle Stelle e della meridiana. Le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, in un'epoca di eroismo e sacrificio.

Il gruppo si presentò davanti ad Alexer, che li aspettava alla fine del corridoio. I Cavalieri s'inchinarono, Irene abbassò il capo in segno di saluto, mentre il Sacerdote le prendeva la mano e la baciava.

Il messo di Atena notò le condizioni di Jorkell, sorretto dai due Cavalieri di Bronzo ed il suo volto si fece cupo, per un attimo.

Fece loro segno di seguirlo: attraversarono il vestibolo, la sala dello scrittoio ed imboccarono il corridoio. Alexer aprì la porta che si trovava in fondo: era un'ampia sala, su cui si apriva una finestra chiusa da grate di ferro e ornata di vetri colorati che creavano giochi di luce. Al centro un tavolo rettangolare su cui era intagliata la figura dell'egida, lo scudo della dea della guerra. Attorno ad esso c'erano alti scranni in legno di pino.

"Prego, accomodatevi, nobile Irene. Attendevo con ansia il vostro arrivo", disse con garbo il Sacerdote.

La donna annuì e si sedette in disparte, lontano da Jorkell e dagli altri Cavalieri. Si sentiva a disagio in mezzo a tutti quegli uomini. Inoltre, Alexer le metteva soggezione: il suo portamento fiero, il tono sicuro e cortese, ma anche severo e autoritario, l'elmo dorato e la tunica bianca, che gli conferivano un non so che di sacro ed etereo, glielo facevano apparire come una creatura non terrena.

Il Sacerdote si volse verso Jorkell e i Cavalieri di Bronzo: "Cos'è successo?", chiese con tono paterno.

Un po' a fatica, il padrone delle energie fredde iniziò a raccontargli l'accaduto: "Siamo stati attaccati da un certo Umma, che si definiva demone del vento. Laurion e Midra si sono imbarcati con donna Irene ed io sono rimasto ad affrontarlo.

E' stato uno scontro duro, ma alla fine sono riuscito a sconfiggerlo. Purtroppo, non ho saputo molto di lui e dell'esercito a cui appartiene. Ha nominato dei di cui non conoscevo l'esistenza: ne ricordo solo uno, Enki. Ha affermato che presto il suo signore sarebbe arrivato e poco prima di morire ha parlato di una maledizione, la "maledizione degli Utukki". I suoi colpi sfruttavano il vento e il nome della sua tecnica era in una lingua a me ignota, anche se credo fosse molto antica".

Alexer ascoltò con attenzione le parole del Cavaliere e, guardando il suo stato, si rese conto di quanto si fosse rivelato ostico quel nemico. Rimase in silenzio, come per formulare un'ipotesi in base alle informazioni ricevute. Poi, alla mente riaffiorarono vaghi ricordi.

"Utukki, hai detto? Ho già sentito questo nome, ma non ricordo dove e quando", disse perplesso il Sacerdote, che ormai aveva avuto la conferma che i suoi sospetti sull'avvento di una nuova minaccia fossero fondati.

Jorkell cominciò a sentirsi di nuovo male e Alexer ordinò ai Cavalieri di Bronzo di portarlo all'undicesima casa. "Hai svolto la tua missione in modo egregio, Jorkell, il tuo maestro ne sarà contento quando glielo riferirò, ma ora va' a riposarti. Anche i Cavalieri sono esseri umani", gli disse mentre Midra e Laurion lo portavano via a spalla.

Irene si sentiva colpevole di quanto accaduto al Cavaliere: se non fosse stato inviato a prenderla, ora sarebbe stato bene. Abbassò il capo ed attese che uscisse.

Il Sacerdote si accorse del rimorso che le pesava sul cuore e, accennando un sorriso, la rassicurò: "Voi non siete responsabile di quanto è successo. Le ferite e la morte in battaglia sono fedeli compagne di ogni guerriero. Jorkell è un uomo forte e tenace, non si lascerà sopraffare così facilmente. Il suo cosmo e la sua determinazione lo aiuteranno a riprendersi, non temete!"

Poi cambiò discorso: "Ma ora ditemi, nobile Irene, cosa vi ha spinto a chiedere asilo al Santuario di Atena?"

La ragazza esitò un po' prima di parlare. Non si aspettava un così repentino cambio d'argomento. Fece un profondo respiro ed iniziò la sua storia:

"Sono stata sposata con mio marito, il generale Basilio, per dieci anni ed il mio unico e solo rammarico è stato di non avergli dato eredi. Circa due mesi fa, un uomo in tutto simile a mio marito entrò in camera mia. Chiesi spiegazioni di questa intrusione, ben sapendo che la persona che mi stava di fronte non poteva essere realmente il mio consorte, che in quei giorni era in missione diplomatica.

Mi disse che mi sbagliavo, che lui era davvero mio marito e che era tornato prima e non aveva detto nulla per farmi una sorpresa. La sua voce e i suoi gesti mi convinsero che fosse proprio lui, così, lasciato ogni dubbio, corsi ad abbracciarlo.

Passammo la notte insieme, ma poi, prima di andarsene, mi disse tre cose che mi lasciarono perplessa: che avrei avuto un figlio, che avrei dovuto chiedere asilo al Grande Tempio di Atena e che il bambino sarebbe dovuto diventare un Cavaliere.

Dopo aver detto queste cose, uscì dalla stanza, senza darmi il tempo di chiedere chiarimenti. Solo due giorni dopo mi resi conto che quell'uomo non era il mio sposo: Basilio tornò e disse che non vedeva l'ora di potermi riabbracciare.

Mi sentii morire, ma non dissi niente. La vergogna era troppo grande. Inoltre, da quella fatidica notte, il mio sonno cominciò ad essere turbato da uno strano incubo: una fitta oscurità squarciata da lamenti e grida, due fiumi che formavano una cascata di sangue, un bambino avvolto di luce e tenebre..."

"... Un'alta torre in mezzo ad una foresta ed una maschera in penombra, giusto?", concluse Alexer, sbalordendo Irene, che rimase interdetta.

"Come fate a saperlo?", chiese con voce tremante.

"Il giorno in cui mi giunse la vostra richiesta d'asilo feci lo stesso sogno, ciò significa che l'essere che vi ha resa madre non era un mortale, bensì un nume celeste. Atena è assente al momento e potrebbe averci inviato un aiuto nella guerra che sembra avvicinarsi".

Irene non riusciva a credere alle sue orecchie. Istintivamente si accarezzò il ventre e cominciò a tremare.

"Perché mi è successo tutto questo? Perché proprio io?", disse la donna, scoppiando in lacrime.

"Non lo so. I disegni divini a volte ci sono oscuri, dovrò fare delle ricerche per trovare la soluzione a questo arcano. Il racconto di Jorkell mi ha dato motivo di credere che ci sia un'eminenza grigia dietro tutto questo", commentò il Sacerdote, cercando di analizzare e trovare un senso alle informazioni che gli erano state date.

"Vi sentite una peccatrice, nobile Irene? Non dovete! Anch'io sono cristiano, ma ho imparato a guardare la realtà con occhi diversi. Voi siete come le madri degli eroi del mito, benedetta dagli dei per preservare la vita umana", cercò poi di confortarla Alexer.

La ragazza non sembrava del tutto convinta dal discorso del Sacerdote. Tutti quegli avvenimenti prodigiosi e strani l'avevano confusa e impaurita. Ciononostante, si calmò, asciugandosi le lacrime col dorso della mano.

"Mi chiedo chi possa aver mandato un demone ad uccidervi. Costantino non sarebbe capace di controllare una forza a lui superiore. Qualcun altro conosce la storia che mi avete raccontato?", continuò Alexer, alzandosi ed avvicinandosi alla finestra con lo sguardo corrucciato.

"Siete l'unico a cui l'ho detto. Tutti credono che questo bambino sia il frutto delle preghiere che io e mio marito abbiamo levato alla Madonna", rispose Irene, la cui voce aveva riacquistato un barlume di serenità.

Alexer rimase un attimo pensieroso, poi riprese: "Voi siete stata alla corte di Bisanzio per lungo tempo, avete mai notato nulla di strano o di inconsueto? Qualcosa o qualcuno di sospetto?"

La nipote di Argiro sembrò riflettere un attimo, poi, scuotendo la testa, disse: "Non mi pare. L'Imperatore sbraitava spesso contro il Grande Tempio e minacciava di distruggerlo, benché la maggior parte dei suoi consiglieri cercasse di dissuaderlo da tale proposito. Alcuni furono anche rimossi dal Consiglio a causa di questa loro presa di posizione. Diceva di aver conosciuto la vostra meschinità e il vostro finto altruismo a Salonicco, ma non è mai sceso nei dettagli. Oltre questo non mi sovviene nulla".

Il Sacerdote ebbe un moto di sorpresa: "Salonicco, avete detto?" Immagini di un tempo passato tornarono ad affacciarsi alla sua memoria.

Irene lo guardò come a chiedergli spiegazioni di quell'improvviso cambio d'umore. Il messo di Atena tornò a sedersi e riavvolgendo il filo dei ricordi disse: "Adesso capisco da dove deriva l'odio dell'Imperatore nei nostri confronti. Trentasei anni fa, nel corso dell'ultima guerra sacra, alcuni Specter ed un folto esercito di Skeletons, i guerrieri di Ade, il dio dell'Oltretomba, occuparono Salonicco. Uccisero la maggior parte degli abitanti e resero schiavi le donne e i bambini. Eravamo in pochi e non sempre riuscivamo a seguire il nemico.

Comunque sia, io e Kanaad, Cavaliere di Virgo e maestro di Jorkell, giungemmo a Salonicco e in poco tempo sconfiggemmo Specter e Skeletons. Cercammo superstiti e ne trovammo un centinaio rinchiusi in un fienile. Erano perlopiù donne e bambini, ma c'era anche un gruppo di ragazzi più grandi.

Furono tutti felici e grati di essere liberati dal giogo di un nemico troppo potente, tranne un ragazzo, che ci trattò con asprezza e rabbia. Venimmo a sapere, poco dopo, che era un nobile a cui erano stati uccisi la madre, gli zii ed i cugini, rei di aver osato opporsi all'invasione. A quanto pare, quel ragazzo era Costantino, l'attuale Imperatore di Bisanzio".

Irene lo ascoltò con attenzione, poi, d'improvviso, le sovvenne un particolare: "Ora che ci penso, a corte qualche anno fa è giunto uno strano individuo che indossa sempre un cappuccio. Sembra un frate, ma nessuno lo ha mai visto in volto. Ha sostituito il barone Giovanni Bumbaca, espulso dal Consiglio per sospetta corruzione.

Da quando è arrivato, l'Imperatore sembra pendere dalle sue labbra: in qualsiasi decisione ha sempre l'ultima parola e si prodiga molto per compiacere il sovrano. Sono in molti ad odiarlo ed anche Costantino sta perdendo credibilità.

Io l'ho incrociato qualche volta nei corridoio del castello e ne ho sempre avuto paura. Sembra avvolto da un'inquietante aura negativa. Purtroppo, non ricordo come si chiama".

Alexer rimase pensoso per qualche minuto, poi prese la parola: "Finalmente la situazione mi è chiara: voi eravate l'esca che serviva all'Imperatore per dichiarare guerra al Grande Tempio, ma il suo piano è fallito. Questo consigliere di cui mi avete parlato deve aver convinto Costantino di avere i mezzi per abbattere il culto di Atena. Quando è giunta a corte la vostra richiesta ha trovato l'occasione perfetta: se voi fosse stata uccisa mentr'eravate sotto la nostra custodia, l'Imperatore avrebbe dimostrato la nostra malafede ed avrebbe unito sotto la bandiera del bene comune i sovrani con cui intrattiene rapporti per farci guerra. Era una mossa troppo astuta per essere stata concepita dalla mente malata di Costantino. Dobbiamo trovare questo consigliere e impedire una sanguinosa battaglia!"

Alla periferia di Bisanzio, vi era un'antica villa tardo-imperiale diroccata. Era attorniata da un vasto appezzamento di terra, ormai residenza di erbacce e cespugli. Dietro uno di essi, vi era un piccolo edificio circolare che immetteva in un sotterraneo umido e freddo. Era una stanza molto ampia, nelle cui pareti si aprivano nicchie chiuse da sbarre, o vi erano conficcate catene e ceppi. Vi era anche un piccolo pozzo, chiuso anch'esso con sbarre di ferro. Un tempo, doveva essere stata una prigione. Al centro della stanza c'era un ampio tavolo di legno grezzo, roso dai tarli, su cui era poggiato uno scrigno e dietro cui sedeva un uomo intento a leggere un grosso volume.

Lo scrigno era di giada ed aveva una forma rettangolare. Poggiava su quattro piedi di bronzo, finemente lavorati, che avevano la forma di zampe di leone. Sui lati lunghi era inciso a rilievo un volto di leone, su quelli brevi, invece, ali di corvo. Il coperchio aveva incise, ai lati, corna di toro ed al centro erano incastonate sette pietre in forma di piramide: un diamante, un'ametista, un diaspro, un eliodoro, un crisolito, un calcedonio ed un topazio, che emettevano un intenso bagliore.

Nel momento in cui Umma spirava, il bagliore dell'ametista si affievolì leggermente. L'uomo se ne accorse e con voce cavernosa disse: "Hai fallito, demone del vento! Poco male, ben presto questo mondo vedrà la sua fine e con esso i tirapiedi di Atena!"

Una cupa risata riecheggiò nell'aria tetra di quel sotterraneo, mentre il cielo s'incupiva e la pioggia s'abbatteva su tutto ciò che incontrava.