Capitolo VII

FULMINE E LUCE

Mediterraneo nordorientale, ottobre 1062

"No, ti prego, non uccidermi", implorò la guardia. "Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere!", concluse, con la paura stampata sul volto e le membra tremanti. Con un ghigno malevolo, lo strano essere che stava disseminando il terrore a Bisanzio lasciò la presa e con sguardo penetrante e sinistro lo interrogò: "Dov'è il vostro imperatore? Parla in fretta o lascerai questo mondo fra atroci sofferenze!"

D'improvviso, miriadi di frecce sibilarono nel cielo. L'essere diede una rapida occhiata e il suo volto s'illuminò di un sorriso divertito. "Che armi puerili!", esclamò, prima di intercettarle e distruggerle tutte insieme con una scarica d'energia lanciata a mano aperta. Poi si voltò ed avvolse il bracciale dell'armatura di fulmini, incassò il braccio nel fianco e scagliò il colpo in direzione degli arcieri. Questi ultimi, visto il pericolo, tentarono di ripararsi dietro i muri delle case o di fuggire, ma d'improvviso le saette svanirono, come inghiottite dal nulla. Il demone rimase stupito e si girò completamente in direzione di quello strano fenomeno, permettendo alla guardia che stava interrogando di scappare. "Che significa?", pensò fra sé, quando una voce giovane ma salda riecheggiò nell'aria.

"Prenditela con qualcuno che può starti a fronte e lascia stare queste persone innocenti, demone!", risuonò la voce e nel punto dove i fulmini del servo d'Irkalla erano spariti apparve un ragazzo dalla scintillante armatura dorata, dalle cui spalle pendeva un mantello bianco agitato dal vento ed il cui elmo rappresentava due volti contrapposti. A quella visione, alcuni arcieri ebbero timore e indietreggiarono ancora di più.

Il demone accennò un sorriso ed i suoi occhi rosso rubino si accesero di curiosità: "Un Cavaliere d'Oro di Atene! Ora sì che si ragiona!"

Il Cavaliere lo osservò con attenzione: aveva più o meno la sua altezza e l'armatura che indossava era quasi completamente nera. Aveva un elmo a maschera che gli proteggeva parte della testa, ma lasciava scoperta la nuca, fitta di capelli lunghi fino alle spalle di un arancione spento. Dalle tempie partivano due piccole antenne, unite nel primo tratto all'elmo e svettanti verso l'alto nell'ultimo. Il pettorale, squadrato, aveva un bavero che circondava l'intero collo e si chiudeva in un piccolo triangolo rovesciato e aggettante. Era adornato da triangoli di colore grigio. I coprispalla terminavano a forbice, in cui s'innestava una lamina grigia appuntita rivolta verso il basso. All'altezza dello sterno un'altra lamina grigia dalle forme arrotondate e circondata da sette triangoli si allungava fino al cinturino. Quest'ultimo era formato da due spesse placche sovrapposte che coprivano i fianchi. Al centro era adornato da un piccolo stemma a forma di rombo. I bracciali partivano dal gomito e coprivano persino le dita. Erano ornati da tre lame di colore grigio. Anche gli schinieri, lunghi fino al ginocchio, presentavano due lame, ma avevano forma cilindrica.

"Hai indovinato, sono un Cavaliere d'Oro! Il mio nome è Calx di Gemini; qual è il tuo, demone?" L'essere infernale lo guardò con interesse e rispose con tono minaccioso: "Mi chiamo Yarla, sono il sesto demone del fulmine e oggi vendicherò la morte dei miei compagni!" Queste ultime parole furono pronunciate con un palese compiacimento. Attorno a lui si accese un cosmo emeraldino e si preparò ad attaccare, ma d'improvviso Calx lo guardò con aria seria e disse: "Sarà un piacere affrontarti, ma lontano dalla città. Questo scontro riguarda soltanto noi due! Se vincerai, potrai tornare a completare il tuo lavoro!"

Yarla scoppiò a ridere. "Vorresti dettare le condizioni della battaglia? Perché dovrei assecondare il tuo volere? Che gli uomini si rendano conto di essere soltanto pulviscolo nella galassia, un mero capriccio divino destinato all'oblio!", sbottò con voce ferma e cruda. A quelle parole, notò che molti soldati si ritrassero o sbiancarono. Un'espressione fiera gli illuminò il volto. Tuttavia, si accorse che Calx non era affatto turbato, ma continuava ad osservarlo con la stessa fermezza di prima.

Un accenno di cosmo circondò il Cavaliere, che non aveva ribattuto nulla alle affermazioni del Sabitta. Yarla si preparò allo scontro, ma d'improvviso si ritrovò in un luogo buio, privo di qualsiasi luce o rumore, e percorso da strani piani d'energia. Confusione e sconcerto lo colsero, mentre si guardava intorno, in cerca di punti di riferimento e di spiegazioni.

Una delle guardie che aveva visto sparire il demone si avvicinò a Calx tremante, gli prese la mano protetta dall'armatura e tentò di baciarla. Il Cavaliere si ritrasse infastidito. "Non sono un dio! Sono un essere umano come te! Pensa piuttosto a dare una mano ai feriti assieme ai tuoi compagni!" Il tono irritato di Gemini terrorizzò la guardia che, a capo chino, si ritirò e corse verso i propri camerati.

Fin da quando aveva cominciato l'addestramento da Cavaliere, attorno a lui si era creata un'aura di leggenda: la sua forza e la sua naturale predisposizione a manipolare il cosmo gli avevano attirato addosso occhi stupiti ed indiscreti. I suoi stessi parigrado a volte sembravano temere e ad un tempo invidiare le sue capacità. Aveva cercato di non farci caso o di attribuire gli elogi alla modestia dei lodatori. Col tempo, però, si era accorto che il suo corpo ed il suo spirito trasudavano una forza ed un cosmo inimmaginabili e questa scoperta lo aveva messo a disagio. La sua indole umile e altruista tentava di sconfessare i meriti e le lodi che gli venivano elargiti, ma spesso temeva di risultare ipocrita o affettato.

Scacciò questi pensieri dalla mente e, dopo aver dato altre disposizioni a guardie e soldati, si recò sull'altra sponda del Bosforo e si fermò su un colle disseminato qua e là da abeti bianchi e faggi e di ampie zone brulle. Bruciò il cosmo e il paesaggio si aprì davanti a lui, facendo riapparire il demone, furioso per l'umiliazione subita.

"Mi hai imprigionato in un'altra dimensione per portarmi qui, non è vero?", chiese, col volto livido di rabbia. "L'hai notato, vedo! Ora possiamo combattere senza indugi!", rispose il Cavaliere senza scomporsi.

Il cielo era cupo, nuvole grigie ammantavano l'aria di tristezza. Una pioggia fine e silenziosa cominciò a cadere, facendo risuonare le armature ogni volta che vi impattava. Yarla fece avvampare il suo cosmo emeraldino ed i bracciali della sua corazza si circondarono di fulmini. Una potente scarica elettrica saettò verso Calx, che chiuse gli occhi, bruciò il proprio cosmo ed allargò le braccia davanti a sé. Si aprì un varco dimensionale che risucchiò il colpo e lo disperse. Il demone strinse i pugni in preda all'ira e gli rivolse un'occhiata spregiosa. "Il tuo cosmo rivaleggia con quello degli dei, ma è mio dovere portare a termine la missione affidatami! Non posso lasciarmi sconfiggere!"

"Sono stanco di sentirmi dire sempre le solite parole! Io combatto da uomo e a difesa dell'umanità! Della forza degli dei non so che farmene!", fu la risposta del Cavaliere, i cui occhi azzurro cielo si erano velati di una muta insofferenza. Yarla lo guardò con sdegno e derisione, poi disse: "Vedo che l'uomo vive ancora sull'orlo di un precipizio. Nonostante i secoli, nonostante gli insegnamenti della storia, continuate ad ergervi al di sopra dei numi celesti! E' questo il risultato delle guerre intraprese da Atena? A tale empietà e miscredenza vi ha condotto la sua guida? Che delusione! Se questo è il mondo di pace cui la progenie del Cronide tanto anelava, direi che ha fallito!"

Le parole del demone non sembrarono irritare Calx. "Non ho avuto il piacere di conoscere Atena, per cui le tue affermazioni non mi tangono! Ho però conosciuto uomini che hanno sacrificato le loro stesse vite per salvaguardare l'incolumità degli innocenti e questo mi basta per spingermi a combattere!", affermò con spontanea convinzione.

"Allora sarà una battaglia eterna, priva di vincitori, ma satura di vittime! La pace non prevarrà mai, perché il cuore umano nasconde tenebre più fitte di qualsiasi regno infernale! Sei pronto a rinunciare a tutto, alla tua stessa giovane vita, per raggiungere il tuo scopo?", provocò il demone del fulmine, scorgendo negli occhi dell'avversario una rinnovata luce di speranza.

"Chi non conosce l'umanità non può giudicarla. Non tutti gli esseri umani sono come li descrivi tu. Ci sono uomini e donne che con coraggio e sacrificio si battono ogni giorno per creare un futuro migliore e radioso. Se il mio contributo servirà a raggiungere lo scopo, sarò ben felice di darlo!", rispose senza mezzi termini il discepolo di Alexer, facendo ardere il suo cosmo dorato.

"Che animo nobile! Sono colpito dalla convinzione che traspare dalle tue parole, anche se non durerà per sempre! Un giorno, i tuoi sentimenti prevarranno sulla tua abnegazione e la giustizia ti sembrerà soltanto uno spettro irraggiungibile, un'utopia troppo cara! Allora l'egoismo ed il disinteresse verso l'altro avranno la meglio e tutta la tua nobiltà d'animo diverrà cenere!", ribadì Yarla, avvolgendosi del suo cosmo e circondando le braccia di scariche elettriche.

"Hai una visione troppo ristretta degli uomini. Io non ho progetti per il domani e forse un giorno mi stancherò di lottare, ma l'amore per la giustizia resterà inciso nel mio cuore per sempre! Non so cosa il destino mi riserverà, ma, fintanto che lo aspetto, ho scelto di donare la mia forza ai deboli", affermò il custode della terza casa, il cui cosmo ardeva splendente e limpido.

Yarla era visibilmente stupito: aveva di fronte a sé poco più di un ragazzino, ma da lui spirava una genuina sincerità ed un'umiltà disarmante che mal si addicevano al suo immenso potenziale cosmico. "Da questo ragazzo proviene un cosmo tremendo, forse persino superiore a quello dei Sette Guardiani, eppure non avverto superbia o alterigia in lui. La sua calma e la sua schiettezza mi confondono: come può un umano possedere la nobiltà dei numi celesti?", pensò fra sé, preparandosi alla battaglia. D'improvviso avvertì il cosmo di due dei suoi compagni spegnersi: la situazione non era delle più rosee, i Cavalieri erano venuti a conoscenza di molti dettagli e soprattutto del nome del sovrano di Irkalla. Yarla si accigliò, maledicendo Iltasadum che aveva incautamente svelato l'identità del loro signore.

"Sembra che alcuni dei miei compagni abbiano fallito la loro missione, ma tu non rivedrai mai più il tuo suolo natio!", sbottò il demone, lanciando contro Calx l'energia che aveva accumulato attorno ai bracciali dell'armatura. Il Cavaliere rimase immobile e con un gesto della mano aprì un varco dimensionale che risucchiò il colpo. "Ho avvertito anch'io lo spegnersi dei cosmi dei tuoi amici, ma, se fossi in te, aspetterei prima di dichiararmi vincitore. Finora non sei riuscito neppure a sfiorarmi!", lo provocò, guardandolo fisso negli occhi con aria serena e curiosa.

Yarla rise, divertito dall'improvvisa ironia del Cavaliere. Tuttavia, il ragazzo aveva ragione: nonostante i suoi sforzi finora non aveva raggiunto nessun risultato. L'abilità e la velocità con cui Calx manipolava le dimensioni erano straordinarie ed impossibili da superare per un demone del suo livello. In tanti secoli non gli era mai capitato un nemico così ostico: forse l'unico modo per avere ragione di lui era usare la tecnica che da tempo immemore non adoperava più. Doveva concentrare buona parte del suo cosmo per poterle dare il massimo potere ed aveva bisogno di risparmiare le forze per accumularlo.

"Devo ammetterlo, sei un avversario di tutto rispetto. Sei un tipo insolito, profondamente diverso da qualsiasi altro uomo abbia mai incontrato. Sarà un piacere prendermi la mia vendetta su di te! Preparati a calcare le desolate terre degli Inferi!", disse il demone del fulmine, lanciandosi contro Calx coi pugni avvolti di scariche elettriche.

Il Cavaliere schivò i primi colpi, poi assestò un poderoso pugno allo stomaco del demone, facendogli sputare l'aria dai polmoni e scaraventandolo a qualche metro di distanza. Yarla si rialzò subito e tentò un nuovo assalto. Proprio nel momento in cui stava per attaccare, sentì un acuto dolore al braccio destro e vide il bracciale esplodere in frantumi fra schegge e schizzi di sangue. Guardò stupito l'arto nudo, ustionato e dolorante. "Come hai fatto? Non ti ho visto sferrare il colpo!", domandò incredulo, gli occhi dilatati e intrisi di un vago terrore.

"Non è difficile difendersi ed attaccare simultaneamente quando si è padroni della velocità della luce. E poi, la tua virtù guerriera sembra inferiore persino a quella di un Cavaliere di Bronzo. Ora capisco perché vi divertite a torturare coloro che non possono difendersi. Mi rende triste constatare che gli dei, dipinti dagli uomini come saggi e clementi, abbiano di tali trastulli. A che scopo creare degli esseri viventi? Solo per giocarci? Forse non lo capirò mai, ma se il destino mi ha donato questa forza, la metterò al servizio dei miei simili! Non amo combattere, ma le grida degli innocenti m'impongono di sradicare il male che serpeggia nel mondo!", commentò Calx, lo sguardo perso nel vuoto e la voce amareggiata.

Le parole di Gemini lasciarono il demone indifferente. Sapeva di essere soltanto un guerriero di bassa casta, ma le sue azioni non erano mai state volte a trarre soddisfazione dalle vite che aveva stroncato. Uccideva perché era questo il suo compito nell'universo. "Un demone infernale non può che seguire il cammino tracciato per lui dagli dei", si diceva spesso, ogni volta che il viso implorante di qualche innocente incrociava il suo sguardo. Fin dalla notte dei tempi, il fato aveva decretato che luce e tenebre si scontrassero in un conflitto eterno; un conflitto che aveva visto prevalere ora una fazione ora l'altra. A lui toccava far trionfare i desideri di Nergal senza obiettare, profondendo ogni fibra del suo essere per conseguire lo scopo.

"Il bene e il male non sono altro che due facce della stessa moneta. Voi esseri umani siete il simbolo di questa dicotomia: sapete ergervi a difesa della creatura più infima e un attimo dopo togliete la vita al vostro prossimo senza scrupoli solo per interesse e avidità. A me non interessa la gloria in battaglia, né bramo il sangue degli innocenti. Io sono soltanto un umile servitore, pronto ad adempiere il compito affidatomi dal fato", affermò Yarla con ritrovata freddezza e lucidità.

"Combatti per decreto del fato? E' questo che ti conduce in battaglia? Che assurdità!", esclamò con aria delusa il discepolo di Alexer, suscitando nel demone un misto di rabbia e collera. "Lottare dovrebbe essere una scelta, non un'imposizione dettata dal destino o da chicchessia! Ti darò una dimostrazione di ciò che vado affermando: sfodera il tuo colpo migliore, non userò le dimensioni per difendermi, ma soltanto la forza del mio cosmo. Se è realmente il destino a manovrarci come burattini, tu avrai la tua vendetta ed io lascerò questo mondo, ma se così non fosse... preparati a raggiungere i tuoi compagni nell'eterno oblio!", propose infine, assumendo un tono grave che, per un attimo, impaurì Yarla.

"Come vuoi, ma sappi che te ne pentirai!", rispose il demone, celando nel fondo del cuore un profondo turbamento. Avvicinò le mani alla piastra circolare attorniata dai sette triangoli che aveva sull'armatura e fece bruciare il proprio cosmo. "Avrai l'onore di morire per mezzo della tecnica donatami dal sommo Etana, il Guardiano del Fulmine! Preparati: Ilu Inim Diĝirenek [Canto dei Sette Dei]!" Attorno a lui apparvero sette frecce di cosmo, di colore diverso, puntate in direzione di Calx.

"Si narra che questa tecnica sia stata descritta in un antico poema sumerico ormai perduto. In esso veniva raccontato come i sette mali primigeni del mondo presero vita e si diffusero. Ognuna di queste frecce rappresenta uno di quei mali: essi ti tortureranno e ti strapperanno via la tua giovane esistenza! Ilu, il pianto, il lamento della miseria umana, primo a palesare angosce e tristezza, sta per abbattersi su di te! Prendi!", spiegò il demone, lanciando contro Gemini una freccia quasi trasparente, che superò le difese dell'armatura e si conficcò al centro del torace, scomparendo. Il Cavaliere chiuse gli occhi ed il suo cuore fu invaso da un senso di inquietudine.

Yarla sorrise e si accinse a scagliare il secondo dardo: "Dulum, il dolore, figlio delle delusioni, è il secondo male che sta per avvolgerti! A te!", disse ed una freccia scarlatta trapassò la spalla destra del Cavaliere, il cui viso si contrasse in una smorfia di sofferenza. Fiducioso nella propria arma, il demone del fulmine continuò, senza dare tregua al nemico che, dal suo punto di vista, aveva deciso di subire passivamente i colpi solo per una dimostrazione d'orgoglio.

"E dopo il dolore, la fedele compagna di ogni umana creatura: Ni, la paura, il terrore delle debolezze!", a queste parole un dardo verde penetrò il fianco sinistro di Calx, suscitando nel Cavaliere uno spavento ingiustificato che lo fece tremare. "Uri, il sangue, versato per brama o per diletto, linfa vitale delle umane genti! Sgorga!", un'altra freccia, di colore rosso rubino, affondò all'altezza del cuore del giovane custode della terza casa. Calx fu costretto in ginocchio ed iniziò a sputare sangue.

Nell'osservare quella scena, un moto di compiacimento si disegnò sul volto del demone: "La tua ingenuità decreterà la mia vittoria. Gli ultimi tre colpi della mia tecnica ti attendono. Preparati! Shum, il massacro, che sazia ogni desiderio di dominio!", ricominciò e stavolta fu una freccia blu a saettare verso il Cavaliere ed a trafiggergli il capo. Calx sentì ogni cellula del proprio corpo ribollire ed esplodere. "Le fatali strofe del mio canto stanno per concludersi! Namtar, il destino, a cui ogni creatura è suo malgrado soggetta!", uno strale arancione si conficcò nel braccio sinistro, il respiro divenne affannoso e irregolare. "Ultimo fra i dardi del mio turcasso ed ultima meta d'ogni vivente, Ush, la morte!", l'ultima quadrella, di colore nero, penetrò lo stomaco di Calx, che cadde a terra supino.

Yarla si avvicinò al corpo immobile dell'allievo di Alexer e commentò deluso: "Forse ti ho sopravvalutato. In fondo ti sei rivelato un nemico tutt'altro che ostico. Ora posso tornare alla mia missione!" S'incamminò per tornare a Bisanzio, ma d'improvviso avvertì di nuovo il cosmo di Calx. Si voltò di scatto e vide che il corpo del Cavaliere non c'era più. "Ti facevo più furbo, Yarla!", risuonò una voce proveniente da un gruppetto di alberi. Il demone si girò verso l'origine di quelle parole e scorse Gemini che si avvicinava.

"Com'è possibile? Come hai fatto a sopravvivere?", domandò incredulo, sopraffatto dal turbamento che lo aveva colto poco prima di scagliare il suo colpo segreto.

"Non è me che hai colpito, ma il fantasma di Gemini, una mia copia illusoria. Nel momento in cui stavi per lanciare la tua tecnica, ho lasciato l'armatura e mi sono teletrasportato dietro gli alberi. Non te ne sei accorto perché eri troppo occupato a concentrare il tuo cosmo. Così ho potuto controllarla a distanza. Sono state le tue parole all'inizio dello scontro a convincermi che nascondessi qualcosa: mi reputavi simile ad un dio, eppure i tuoi assalti continuavano ad essere blandi e inconcludenti. Ho notato che tentavi di risparmiare le forze e di non impegnarti troppo: solo chi ha un asso nella manica azzarderebbe una mossa del genere! Così ho solleticato il tuo orgoglio e tu sei caduto nella trappola!", spiegò Calx, sul cui volto splendeva un sorriso soddisfatto.

"Che tu sia maledetto! Mi hai ingannato! Pagherai per questo affronto!", rispose furente il demone, contrariato dallo smacco subito. Si lanciò di nuovo contro Calx, che lo respinse con la sola emanazione cosmica. "Sei troppo debole! Per sferrare il tuo attacco migliore hai consumato gran parte della tua energia. Ti avevo avvertito che combattere per assecondare il fato è una sciocchezza ed ora questo errore ti costerà la vita", affermò il giovane guerriero, agitando le braccia e avvicinando le mani davanti al torace. Attorno a Yarla apparve un'intera galassia. Il servo d'Irkalla tentò di reagire, ma la forza di attrazione dei pianeti e la stanchezza gli impedivano qualsiasi movimento. "Osserva la tecnica di Gemini, capace di frantumare persino le stelle: Galaxíou Ékrēxis [Esplosione Galattica]!" I pianeti esplosero all'unisono investendo Yarla e dilaniandone le carni.

"Ho sbagliato! Avrei dovuto usare... fin dall'inizio... tutto il mio potere! Mi... sono lasciato... ingannare... dalla tua giovane età...", disse con un filo di voce il demone prima di dissolversi fra la pioggia. Calx si sedette all'ombra di un albero: aveva vinto la sua prima battaglia, ma si domandava quanto a lungo sarebbe ancora durata quella guerra. Alzò gli occhi verso il cielo grigio, li chiuse e tese i sensi: alcuni dei suoi compagni combattevano ancora. "Vi aspetto al Grande Tempio, amici miei!"

Venezia era in subbuglio. Il doge, l'anziano Domenico Contarini, aveva disposto una sacca di resistenza nella piazza principale della città, dove si ergeva la chiesa di San Marco, riedificata per volontà di Pietro Orseolo circa un centinaio di anni prima. Tuttavia, le difese si stavano rivelando inefficaci contro l'essere che stava attaccando la città. Le barricate di fortuna, messe su adoperando sacchi e carretti, erano state in parte spazzate via ed il corpo centrale della chiesa era stato parzialmente distrutto. Il doge, assieme al consiglio, aveva valutato altre opzioni di difesa, ma, alla fine, la resa incondizionata all'aggressore si era imposta su tutte le proposte suggerite. Il Contarini si era recato in piazza con le mani alzate ed aveva intimato ai soldati di abbassare le armi. Si era avvicinato all'essere dall'armatura bianca e celeste e si era prostrato ai suoi piedi in segno di resa, quando una voce gli ordinò di non farlo.

L'anziano governatore di Venezia sollevò il capo e vide alle spalle dell'essere un ragazzo dall'armatura dorata, impreziosita da imponenti ali. Lo osservò avvicinarsi, mentre il demone si voltava per guardare in volto il nuovo arrivato.

"Un Cavaliere di Atena! Il custode delle vestigia di Sagittarius, a quanto vedo", parlò l'essere, con voce suadente, ma fredda e crudele. "Hai buon occhio, sono Pelag di Sagittarius, custode della nona casa del Grande Tempio!", rispose il guerriero di Atene. Il servo di Nergal lo fissò con interesse, poi s'inchinò leggermente e si presentò: "Io sono Ilku, quarto demone della luce, piacere di fare la tua conoscenza!"

Indossava una corazza prevalentemente bianca. L'elmo era a casco, con al centro quattro antenne ed un triangolo all'altezza della fronte, tutti di colore celeste. Aveva occhi di colore verde intenso e capelli di un grigio cenere. Il pettorale copriva buona parte del torace, ma lasciava scoperta la zona fra lo sterno ed il ventre, riparata da una camiciola di lino grezzo. I coprispalla trasbordavano la spalla, andando a ripiegarsi sulle braccia. Erano lisci col bordo celeste, ornati di un piccolo corno al centro. Il cinturino presentava due larghe placche davanti e a tergo, e due più strette e tondeggianti sui fianchi. Sulla piastra centrale erano incisi tre triangoli di colore celeste. I bracciali, lunghi fino al gomito, erano formati da due piastre sovrapposte: una che avvolgeva l'arto e l'altra incastrata sopra a creare alette taglienti. Gli schinieri erano in tutto uguali, fatta eccezione per i triangoli che li adornavano.

"Doge, andate via e fate evacuare la zona. Penserò io al demone", ordinò l'arciere dorato. Domenico Contarini annuì, fece cenno a guardie e soldati di eseguire l'ordine e iniziò a indietreggiare. Il demone sorrise, fece schioccare le dita e, dalla terra, sorsero colonne di luce che intrappolarono tutti coloro che stavano tentando di scappare. Pelag assunse un'espressione preoccupata e fissò lo sguardo su Ilku, che sembrava molto sicuro di sé. "Allora, Cavaliere, ti va di giocare con me?", chiese l'essere infernale, osservandolo con curiosità e cruda ironia.

"Non sono venuto fin qui per giocare, ma per annientarti!", rispose secco il Sagittario, circondandosi di un alone di cosmo dorato e suscitando una grassa risata nel demone, che aveva sempre inteso la battaglia come un'immensa fonte di studio. Analizzare sentimenti, emozioni e comportamenti era da sempre stato un gradevole svago per lui. L'espressione del viso di Pelag lo incuriosiva oltremodo: la fama che da sempre circondava la casta più alta dell'esercito di Atena aveva stimolato in lui un profondo interesse e trovarsi di fronte ad uno dei rappresentanti di quella leggenda lo eccitava e lo spingeva a scandagliare ogni dettaglio.

"Libera immediatamente questa gente!", ordinò con malcelata collera il Cavaliere, sparando verso il demone un fascio d'energia. Ilku bruciò il suo cosmo bianco e due figure di luce gli si posero davanti. Il colpo di Pelag le centrò in pieno ed esse esplosero in pezzi come vetro infranto. "Temi che possano morire? Ogni creatura di questo mondo è destinata ad incontrare la nera signora, prima o poi!", commentò il sicario infernale, muovendo qualche passo verso l'avversario.

"E' vero, la morte è ultima compagna di ogni essere vivente, ma le tue azioni le daranno in pasto molte più vittime di quante il fato ne abbia decretate!", ribatté il dorato arciere, guardandolo torvo. "Tu credi? Quando il mio signore verrà, di questo mondo non resterà che cenere e vaghe memorie! Perché rimandare un destino già scritto? Eliminandoli oggi eviterò loro sofferenze maggiori! E' un puro atto di misericordia!", disse Ilku con naturalezza, scrutando ogni minimo cambiamento nell'espressione del Cavaliere.

Pelag strinse i pugni, tentando di dominare la rabbia che quelle parole avevano generato dentro di lui. Fin da bambino, lo aveva guidato un innato istinto di protezione e di responsabilità nei confronti degli altri. Sua madre, Jobeth, era rimasta vedova pochi mesi dopo la sua nascita ed aveva faticato per allevarlo. Già a quattro anni si alzava di buon ora ed aiutava i contadini delle tranquille campagne del Wessex in cambio di un tozzo di pane, di un cesto di frutta o di un sacchetto di farina. Aveva dieci anni quando sua madre si ammalò e morì, lasciandolo con un lontano parente, un certo Amias, che viveva d'imbrogli e di espedienti. Quest'ultimo si era subito installato in casa e costringeva il ragazzo a procacciarsi denaro per soddisfare i suoi innumerevoli vizi. Era un uomo estremamente avido ed insaziabile, ed ogni volta che Pelag rincasava senza aver guadagnato quanto richiesto o addirittura senza soldi lo bastonava e lo costringeva a dormire sul freddo pavimento. Il ragazzo aveva resistito qualche mese a quella tortura. Una notte, raccolte le sue poche cose, fuggì via. Girovagò per i villaggi, offrendo i propri servigi in cambio di ospitalità. Era diretto a Dorchester il giorno in cui un evento straordinario gli aveva cambiato la vita e lo aveva condotto alla corte di Atena.

La strada che portava in città attraversava un fitto bosco di querce. Era il sentiero più breve, ma anche il più pericoloso. La vegetazione compatta e profonda che si dispiegava ai lati della via era rifugio non solo di animali selvaggi, ma anche di malviventi e sbandati in fuga dalle autorità. I carri che la percorrevano erano quasi sempre scortati ed anche i viandanti preferivano attraversarla in gruppo. Molti erano scomparsi fra quegli alberi o vi avevano trovato la loro fine, ma Pelag non aveva paura. Era giunto a metà del percorso quando udì un pianto sommesso provenire dall'incavo di una quercia secolare. Si avvicinò circospetto, si affacciò e notò due figure rannicchiate e tremanti. Guardò meglio e vide una donna ed una ragazzina di poco più piccola di lui.

"Cosa vi è successo?", chiese con voce accorata. La bambina gridò, spaventata da quell'improvvisa presenza e si strinse ancora di più alla donna. Pelag si scusò e domandò se poteva essere d'aiuto. La giovane ragazza lo fissò per qualche attimo: il volto tondeggiante, gli occhi marroni colmi di sincera disponibilità e le buffe lentiggini sparse sulle guance la rasserenarono. Accennò un sorriso e parole quasi sussurrate, ma pregne di un dolore vivo, le si affacciarono alle labbra di un rosso spento: "Mi chiamo Merideth e questa è mia figlia Twyla. Mentre eravamo in viaggio per Dorchester siamo stati attaccati da un balordo. Mio marito è riuscito a farci scappare, ma...", s'interruppe e i suoi occhi neri si riempirono di calde lacrime.

Senza pensarci due volte, Pelag si offrì di accompagnarle. Dorchester era anche la sua meta. Merideth gliene fu grata, ma l'idea di affidarsi alla protezione di un ragazzo poco più grande di sua figlia non la rassicurava. Se suo marito non era riuscito a prevalere sulla furia di uno sbandato, cos'avrebbe mai potuto fare un ragazzino di quell'età? Il futuro Cavaliere del nono segno dovette faticare parecchio per convincerla, ma alla fine si rimisero in cammino. La piccola Twyla procedeva attaccata all'ampia veste della madre e tremava al minimo stormire delle foglie. Merideth, dal canto suo, le carezzava la folta chioma fulva e tentava di rassicurarla. Sperava di trovare un gruppo a cui accodarsi, ma quel giorno il sentiero sembrava particolarmente deserto e silenzioso. D'improvviso, dal folto degli alberi si udì un sinistro fruscio: Pelag pensò ad un cervo o a qualche coniglio; Twyla vide un'ombra, le gambe cominciarono a vacillarle ed un grido acuto squarciò l'aria. Un omone ben piantato, dai capelli ispidi e neri, con una lunga cicatrice che gli solcava la fronte ed armato di un bastone nodoso, sbarrò loro la strada. Merideth si strinse alla figlia, spaurita e in lacrime, riconoscendo il furfante che aveva loro teso l'imboscata.

Pelag si pose a difesa delle due donne. Sfilò il fagotto dall'asticciola che aveva sulle spalle e la usò a mo' di spada. Il malnato accennò un sorriso e vibrò un poderoso fendente verso il ragazzo, che riuscì incredibilmente a schivare. La prontezza di riflessi di Pelag lo irritò e stavolta diresse il colpo verso l'asticciola. L'impatto fu devastante: la forza con cui era stata sferrata la stoccata aveva mandato in pezzi l'asticciola e scaraventato a terra il giovane. Un po' frastornato, Pelag vide l'uomo avvicinarsi a Merideth e alla figlia. Le donne indietreggiarono ancora di più. Un piede in fallo della madre la fece cadere, trascinandosi dietro anche la figlia, vinta dal terrore. Con una risata sguaiata e gli occhi iniettati di sangue, il criminale si preparò ad ucciderle a bastonate.

Quella scena provocò in Pelag una reazione inaspettata: si alzò, chiuse la mano a pugno e dentro di lui sentì sprigionarsi un fuoco, una forza incredibile che attendeva solo di esplodere. Notò attorno al pugno uno strano alone di un dorato pallido, fissò l'uomo che si apprestava ad abbattere i suoi colpi sulle inermi vittime che aveva davanti, spiccò un salto e si lanciò contro di lui con tutta la forza che aveva in corpo. Il bandito si voltò, sicuro di poter spazzare via quel ragazzino irritante, ma i movimenti di Pelag sembravano improvvisamente più veloci. Schivò il colpo di bastone e gli assestò al volto un potente pugno, che gli fracassò la mascella e lo scaraventò contro una quercia, mandandola in frantumi. Appena tornò a terra, tutta l'energia che gli ardeva dentro sembrò esaurirsi d'un tratto, costringendolo in ginocchio ed in affanno. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma un senso di pace e di serenità lo pervase: era riuscito a salvare la vita di due persone innocenti.

Il giorno successivo aveva incontrato Laurion, che gli aveva parlato del Grande Tempio e della missione di Atena e gli aveva anche spiegato lo strano fenomeno che gli era capitato il giorno prima. Da allora, diventare Cavaliere era diventato il suo obiettivo primario ed ora che si trovava ad affrontare una battaglia con in gioco tante vite doveva dimostrare che i suoi ideali erano più forti della malvagità e dei capricci divini.

Ilku gli ricordava in parte sia suo zio Amias che il balordo di quel giorno. Dai suoi occhi verdi affiorava una cruda efferatezza, unita ad una fredda calma, come se uccidere innocenti fosse il più naturale dei mestieri. "Sei troppo sicuro di te, demone! Finché ci sarà chi si batte per la giustizia il male non prevarrà mai! Il tuo signore, chiunque egli sia, è solo una delle tante divinità che si arrogano il diritto di prevaricare sui deboli senza meritare alcun rispetto!", ribatté il Cavaliere, fissando dritto negli occhi il nemico.

"La tracotanza non ti fa difetto! Ma se credi che i nemici affrontati fino ad ora siano solo lontanamente paragonabili a quello che vi aspetta, ti sbagli di grosso! Anche se riuscissi a sconfiggermi non salveresti comunque queste persone!", commentò Ilku, notando che le sue ultime parole avevano insinuato nell'avversario un'opprimente inquietudine.

Riprese la parola, indicando la colonna di luce dove era intrappolato il doge: "La luce di Irkalla ha un fascino ammaliante! Chiunque vi rimane imprigionato perde ogni volontà di vivere! E più debole è la sua volontà più la morte sopraggiunge lesta! Anche se mi sconfiggessi e distruggessi le colonne di luce, gli effetti non cesserebbero. Come vedi, questa città è comunque destinata a soccombere! Sarà il mio regalo di benvenuto al signore delle oscure lande!"

Pelag si calmò, per impedire che la collera lo pervadesse e gli facesse commettere errori. Essere lucidi in battaglia, anche nella situazione più disperata, era stata la prima lezione che aveva ricevuto. Il demone della luce restò stupito dal repentino cambiamento d'umore dell'avversario e tentò di stuzzicarlo nuovamente: "Vedo che ti sei rassegnato all'ineluttabilità del fato! A quanto pare, le voci del vostro spirito di sacrificio e della vostra testarda fede nella giustizia erano pura leggenda! Mi fai pena, Cavaliere! Quell'armatura si è scelta un indegno custode!"

Il Sagittario rise, guardando il demone con aria di sfida. "Ormai ho capito il tuo gioco, Ilku! Credi che le tue provocazioni mi faranno perdere di vista l'obiettivo della mia missione? Non m'interessano le tue parole, so solo che Atena non permetterà l'assassinio di tutte queste persone innocenti! Io ho fede in questo e nessuno potrà convincermi del contrario!", affermò con decisione, facendo ardere il suo cosmo dorato.

Ilku era meravigliato: nessun uomo, per quanto potente, aveva mai dimostrato di possedere una tempra così adamantina. Nell'osservare il ragazzo che aveva di fronte ed il suo cosmo luminoso e puro, provò un senso di disprezzo e decise di mettere in campo tutto il suo potere, pur di spazzare via un essere umano tanto singolare.

"Come vuoi, Cavaliere! Proverai sulla tua carne la malia della luce d'Irkalla! Addio!", rispose il demone, schioccando le dita e imprigionandolo in una colonna di luce. Soddisfatto, si voltò per lasciare la piazza e continuare la conquista della città. D'improvviso, un boato risuonò d'intorno sovrastando il monotono rumore del mare. Un brivido percorse la schiena del demone, che si fermò di colpo e tornò sui suoi passi. "Non è possibile! Come hai fatto a liberarti?", chiese incredulo, osservando il Cavaliere incolume e padrone delle sue forze.

"L'hai detto tu che sono le volontà deboli a farsi sopraffare! E per tua sfortuna io sono testardo, non mi arrendo mai!", rispose con una punta d'ironia l'arciere dorato. Ilku chiuse gli occhi e fece ardere il suo cosmo candido come neve. "Sei stato bravo a sfuggire all'oblio, per questa volta. Ma non credere che ti concederò altre possibilità! Avrei voluto usare la mia tecnica segreta in un altro momento, ma tu non mi lasci scelta! Venite a me, anime dei guerrieri di Sumer! Biluda Kieĝik [Gesta di Sumer]!" Al suo comando, sorsero dalla terra figure smunte e vacue armate di lance, spade e fionde che si avventarono contro il Cavaliere.

Pelag ne abbatté alcuni con fasci di energia, ma altri riuscirono ad avvicinarsi ed a colpirlo. Le loro armi non provocavano ferite e, subito dopo aver centrato l'obiettivo, sparivano assieme al guerriero che le brandiva, ma il dolore che il Cavaliere avvertiva era reale. Un rivolo di sangue gli si affacciò all'angolo della bocca. Concentrò al massimo le sue forze, ignorando l'indicibile sofferenza che gli devastava il corpo, fece esplodere il proprio cosmo ed annientò il gruppetto che tentava di circondarlo. Ne arrivavano altri, a passo cadenzato; Pelag ebbe un capogiro, ma rimase vigile e continuò ad attaccare gli spettri che si avvicinavano. D'improvviso una lancia gli sfiorò la guancia ed il proiettile di un fromboliere lo colpì al collo. C'era qualcosa di strano in quei dardi privi di sostanza, ma carichi di un'oscura energia cosmica che riusciva a superare persino le difese dell'armatura. Se voleva vincere, doveva eliminare le pedine messe in campo dal demone.

"Ti vedo provato, Cavaliere! Dov'è finita la tua caparbietà? Sono bastate poche anime di Irkalla a ridurti all'impotenza? Perirai assieme a questa città e la gloria della mia vittoria mi assicurerà un posto d'onore accanto al sommo Alulim!", lo derise Ilku, già assaporando gli allori e godendo dell'invidia che avrebbe suscitato nei suoi compagni. "La tua tecnica... è riuscita a superare le difese... di un'armatura d'oro... notevole...", disse Pelag con voce incerta e sofferente. Aveva un piano e doveva metterlo in atto subito, prima che il dolore avesse la meglio sul suo fisico e sul suo cosmo.

Dalla parte posteriore del cinturino trasse l'arco e dal coprispalla destro la freccia del Sagittario. La incoccò e si preparò a scagliarla, mentre le anime continuavano a bersagliarlo di colpi. Ilku lo guardò curioso e disse: "Sei giunto a tale disperazione da infrangere le regole imposte dalla tua dea? Assieme alla tua vita se ne va anche l'onore!"

"Ti sbagli, Ilku! Non sei tu il mio obiettivo", ribatté Pelag, scagliando la freccia verso uno spettro alla destra del demone e facendolo scomparire. Il dardo dorato si fermò per un attimo, rifulse di un intenso bagliore e cominciò a percorrere la piazza, annientando in poco tempo tutte le anime evocate dalla tecnica del quarto demone della luce. Poi riapparve in mano al Cavaliere e la vigorosa luce di cui era rivestita ne ravvivò il cosmo, affievolito dagli attacchi subiti. Ilku spalancò gli occhi: la freccia aveva assorbito l'energia infusa nelle anime e l'aveva donata al proprio custode. Un moto di paura lo fece indietreggiare inconsapevolmente di un passo.

"Maledetto! Sei un semplice essere umano, come puoi possedere un potere del genere?", chiese Ilku, in preda all'ira ed all'incredulità. "Nel corso dell'addestramento mi fu detto che l'armatura del Sagittario è stata da sempre indossata da coloro che hanno il più puro senso di giustizia! Il sommo Alexer mi raccontò che Himrar, il precedente custode di questa corazza, aveva elevato le proprie potenzialità cosmiche proprio in virtù di questa sua caratteristica. Proteggere le persone ed assicurare loro un futuro migliore è ciò che più desidero al mondo! Ho fatto tesoro di quest'insegnamento ed ho seguito le orme di chi mi ha preceduto. Forse ho rischiato, perché non sapevo se il mio piano avrebbe avuto successo. Ma d'altronde un antico detto recita: 'la fortuna aiuta gli audaci'!", replicò il custode della nona casa, circondandosi di un cosmo dalle intense tinte dorate. Alle sue spalle apparve la costellazione del centauro dall'arco teso.

Ilku innalzò attorno a sé colonne di luce per difendersi dall'attacco imminente. Pelag incassò il pugno destro, che si avvolse di una poderosa energia cosmica, e lo fece scattare in avanti, rilasciando migliaia di sfere di cosmo: "Átomōn Keraunós [Sacro Sagitter]!", gridò ed i globi si abbatterono sulle difese di Ilku, mandandole in pezzi. Il demone della luce fu investito da una miriade di colpi e la sua armatura esplose in frantumi. Strisciò a terra per lungo tratto, aprendo un profondo solco e tingendolo di un colore bluastro.

Il Sagittario gli si avvicinò e si accorse che il corpo del demone si dissolveva come polvere spazzata via dal vento. "Hai vinto... una battaglia... ma... questa guerra... è ancora... lontana dalla conclusione...", sibilò il sicario d'Irkalla, guardando il Cavaliere con disprezzo e odio. Poi i suoi occhi si spensero e scomparve.

Pelag alzò gli occhi verso le colonne di luce. Le vide sbiadire poco a poco e poi svanire completamente, lasciando liberi i prigionieri. Ringraziò Atena e corse verso il doge per accertarsi che fosse ancora in vita. Ben presto tutti cominciarono a rialzarsi, un po' confusi dagli eventi, ma felici di aver superato il grave momento.

Il Contarini si avvicinò al Cavaliere di Sagittarius un po' titubante e lo ringraziò per aver loro salvato la vita. Il ragazzo si schermì e con tono gentile disse: "Ho solo fatto il mio dovere. La giustizia è un ideale troppo prezioso che non può essere barattato con niente in questo mondo". Il doge lo guardò negli occhi e vi scorse una profonda convinzione. Abbassò il capo e con espressione sconsolata parlò: "Sono stato uno sciocco a cedere le armi, se magari avessimo opposto maggiore resistenza..."

"... Ora ci sarebbero più morti da piangere!", lo precedette Pelag. L'anziano governatore della Serenissima rialzò la testa e cercò parole per controbattere l'ultima frase del Cavaliere, ma non ne trovò. "Avete solo fatto ciò che più ritenevate giusto per preservare l'incolumità dei vostri concittadini. Non dovete rimproverarvi di questo! Se aveste agito d'impulso, a quest'ora non solo questa piazza, ma l'intera città sarebbe stata rasa al suolo! Abbiate cura di voi e dei vostri concittadini! Addio!", aggiunse infine il dorato arciere, congedandosi e spiccando il volo. Il doge lo vide allontanarsi nel cielo e benedisse Dio per la generosità e l'altruismo di quel giovane.