CAPITOLO DODICESIMO. FRATELLI DI BATTAGLIE.

L’armata dei berseker si fece avanti, sostenuta dal violento cosmo di Ares, mentre i fulmini di Zeus squarciavano l’aria, schiantandosi periodicamente su qualche Guerriero Scarlatto.

"Non arretrate, pavidi!" –Gridarono Phobos e Deimos, incitando i guerrieri ad avanzare.

Castore e Polluce, i Dioscuri, si buttarono nella mischia, iniziando violenti corpo a corpo contro i berseker di Ares. Frecce volarono nell’aria, dirette verso i due figli di Zeus, ma non raggiunsero il bersaglio, venendo ogni volta fermate da una barriera misteriosa. Anche le lance e le spade che venivano lanciate contro di loro non riuscivano a ferirli, e questo fece insospettire i berseker.

"Pugno di Zeus!" –Gridò Castore, concentrando il cosmo sul pugno destro. La sagoma di uno scintillante pugno celeste apparve davanti ai berseker, proprio mentre il Cavaliere Celeste spingeva il braccio avanti per colpirli. Una decina furono i guerrieri travolti, ed un’altra decina si avventò su di loro, brandendo armi, ma tutti furono respinti. Non soltanto, quella volta le stesse armi si rivoltarono contro i loro padroni. Frecce tornarono indietro, piantandosi nei petti dei malvagi arcieri, mentre lance e spade tagliavano le braccia dei loro possessori.

Fate attenzione, amici! Commentò Giasone, in piedi sul muro di cinta, impegnato a respingere gli assalti dei berseker di Ares. Polluce si accasciò improvvisamente a terra, stanco per aver fatto eccessivo uso dei suoi poteri mentali e per le ferite riportate giorni prima contro Andromeda.

"Polluce!" –Esclamò preoccupandosi il fratello.

"Non curarti di me, Castore!" –Lo rimproverò Polluce, tentando di rialzarsi.

Enomao approfittò di quel momento per travolgere i due Cavalieri Celesti, passando in mezzo a loro con il suo scintillante carro.

"Chi sei, tu?" –Esclamò Polluce, rialzandosi.

Davanti a loro, su un rifinitissimo carro dal colore scarlatto e dorato, c’era un uomo di mezza età, dal volto bianco e i capelli grigi, consumato dall’odio e dal dolore che ne avevano fatto uno scheletro inorridente. Guidava un carro dotato di mirabolanti poteri, grazie ai cavalli alati che lo conducevano, di cui Ares gli aveva fatto dono.

"Enomao del Carro Furioso è il mio nome, figlio di Ares e di Arpinna, nonché Re di Pisa, nell’Elide!" –Esclamò l’uomo, caricando i propri cavalli.

"Cavalli eh?!" –Mormorò Polluce tra sé, mentre Enomao caricava contro di loro.

Il figlio di Zeus concentrò i propri sensi, sfruttando il potere di domatore che gli era proprio dai tempi del mito, potere con il quale poteva controllare tutti gli esseri inanimati e animali, soprattutto i cavalli, da lui tanto amati. Ma con somma sorpresa, e dispiacere, Polluce realizzò di non essere in grado di fermare i cavalli di Enomao, che lo travolsero violentemente, mentre il figlio di Ares, brandendo un’affilata lancia, ferì il Cavaliere Celeste ad una spalla.

"Polluce!" –Urlò Castore, vedendo il fratello in difficoltà. Ma non poté correre in suo aiuto, circondato come si ritrovava da decine di berseker accaniti.

"Muori!" –Urlò Enomao, lanciandosi nuovamente alla carica.

"Fermati!" –Gridò Polluce, portando il braccio destro avanti di colpo. –"Carica dei Cento Cavalli!" – E lanciò il suo colpo segreto. Ma la Carica dei Cavalli Celesti si scontrò con quella dei Cavalli di Ares, la quale, in virtù del divino cosmo che la sorreggeva, risultò vittoriosa, travolgendo nuovamente il Cavaliere Celeste e scaraventandolo lontano.

Subito un plotone di berseker fu su di lui, brandendo lance e asce, pronti per ucciderlo. Polluce rotolò sul terreno, si dimenò come un matto, per evitare gli assalti dei nemici, numericamente superiori a lui, incapace di comprendere per quale motivo il suo maggiore potere avesse fallito. Una lama incandescente lo ferì ad uno stinco, costringendolo ad accasciarsi al suolo, mentre un’oscura ascia calava su di lui. Ma prima che la scure sfiorasse il corpo di Polluce, uno scudo robusto si interpose tra loro, respingendo l’orrida arma. Lo scudo rotante continuò la sua corsa, travolgendo altri berseker, prima di tornare nelle mani del suo padrone: Giasone, Cavaliere Celeste di Zeus.

"Polluce?! Tutto bene? Riesci a camminare?" –Domandò l’argonauta, raggiungendo l’amico.

"Sì, non preoccuparti, attento!" –Urlò Polluce, indicando un nuovo assalto dei berseker. Ma Giasone fu abile a roteare lo scudo, evitando un nugolo di frecce che erano dirette contro di loro.

"Scudo della Colchide!" –Espanse nuovamente il proprio cosmo, travolgendo una decina di berseker intorno a loro, prima di aiutare Polluce a rimettersi in piedi.

Castore era in evidente difficoltà contro altri berseker e per salvare Polluce Giasone aveva dovuto abbandonare la guardia del Cancello, lasciando soltanto un paio di Cavalieri Celesti inferiori, che furono facilmente sopraffatti.

Le immonde grida di Kampe risuonarono nello spiazzo, prima che l’orrida bestia dalle cinquanta teste facesse la sua comparsa. Giasone, Polluce e Castore inorridirono, nel vedere il suo mostruoso aspetto, e realizzarono che non avrebbero potuto fermarla. La coda serpentiforme di Kampe afferrò Castore, stringendolo con forza, prima di sbatterlo violentemente a terra, come un peso morto.

"Castore!" –Gridò Polluce, spaventato.

Il Dioscuro raccolse tutte le sue forze, concentrando i propri sensi, e riuscì a scagliare contro l’orrida bestia tutte le armi che aveva intorno, persino quelle ancora in mano ai berseker. Con astuzia, Polluce puntò contro le facce della mostruosa creatura, mirando agli occhi, e riuscendo in parte nel suo intento, ferendo parecchie bestie. Giasone imitò l’amico, impugnando la sua spada e balzando avanti, sopra il corpo squamoso della bestia, per quanto disgustoso fosse. Il Cavaliere Celeste iniziò a dare colpi robusti di spada alla pelle di Kampe, che inizialmente parve non accorgersi neppure del suo ospite, intenta com’era a difendersi dall’assalto delle armi di Polluce.

"Aaaah!!! Che l’antico potere della Colchide venga a me!" –Gridò Giasone, espandendo al massimo il proprio cosmo.

La lama celeste entrò nella pelle di Kampe, che emise decine di gridi diversi, tremando e sguisciando all’impazzata. Castore fu liberato dalla presa stritolante e lasciato precipitare a terra, mentre anche Giasone fu sbalzato via, riuscendo comunque a ricadere in piedi.

L’infernale bestia accusò il colpo, sentendo il freddo metallo della celeste lama, e tutta la sua pura energia, entrare dentro di lei, e questo la fece impazzire ulteriormente, dimenandosi come una forsennata. La sua coda serpentiforme strisciò convulsamente sul terreno, travolgendo alberi e persino berseker, prima di afferrare il Bianco Cancello con forza.

Il potere di Zeus e quello di Ares erano ancora impegnati a scontrarsi tra loro nei cieli dell’Olimpo, mentre Kampe abbatté il Bianco Cancello, sbattendolo con forza a terra e poi contro le mura. Freneticamente, la sua coda iniziò a distruggere tutto il muro circostante, aprendo la via alla conquista dell’Olimpo da parte dei berseker di Ares.

Enomao, sul suo Carro Furioso, si lanciò avanti, seguito da centinaia di Guerrieri Scarlatti. Phobos e Deimos erano tra questi, seppure leggermente più indietro rispetto a prima. I due fratelli avevano infatti qualche timore che la scalata olimpica si sarebbe rivelata più difficile del previsto e preferivano rimanere nelle retrovie, per meglio controllare l’avanzata.

"Dobbiamo… fermarli!" –Esclamò Castore, rimettendosi in piedi. Ma sia lui che il fratello erano molto deboli e feriti. Castore aveva un braccio rotto, stritolato dalla coda mortifera di Kampe, mentre Polluce era pieno di tagli su tutto il corpo, e camminava a fatica.

"Zeus, Padre... li fermeremo…" –Mormorò Polluce, trascinandosi con difficoltà.

"Fate attenzione…" –Urlò Giasone, raggiungendo i due fratelli, mentre un nuovo assalto dei berseker piombava su di loro.

"Non temere per noi! E corri avanti a salvare il nostro Signore!" –Lo incitarono i Dioscuri.

"Non senza di voi!" –Rispose Giasone, eliminando, con la sua spada, un paio di Guerrieri Scarlatti.

Le grida immonde di Kampe fecero rabbrividire nuovamente i tre Cavalieri Celesti, mentre la creatura scendeva su di loro. Delle cinquanta bestie ne rimaneva una quarantina, ma continuavano ad essere orribili, quasi demoniache.

"Maledettaaaa!!!" –Urlò Castore, scagliando il suo Pugno di Zeus contro una delle sue teste.

La bestia fu colpita in pieno e la testa esplose, ma il Cavaliere venne afferrato dalle zanne di un altro animale, dalle sembianze simili ad un licaone, obbligando Giasone a saltare nuovamente avanti per liberarlo. La spada lucente del Cavaliere Celeste affondò nella testa dell’orrida bestia, ma Kampe quella volta reagì, punendo colui che aveva usato colpirla due volte, afferrandolo con la sua coda squamata. Giasone fu stretto dalla coda serpentiforme, perdendo la presa della sua spada, e sollevato fino a portarlo di fronte alle teste della creatura, tutte con i denti digrignati, sporchi di bava e di sangue, e pronti ad affondare nel suo corpo.

"Dobbiamo aiutarlo!" –Esclamò Polluce, raccogliendo il suo potere. Usò numerose armi che erano intorno a lui, lanciandole contro le fauci aperte della bestia, ferendone molteplici, mentre Castore balzava in alto, caricando il pugno destro di energia cosmica.

"Pugno di Zeus!" –Gridò, sbattendolo con forza contro la coda della bestia. Ma per quanto Kampe accusasse il colpo, e perdesse molte delle sue teste, non mollò minimamente la presa, obbligando i Dioscuri ad un maggiore sforzo.

"Giasone, amico mio, non temere, ti salveremo!" –Mormorò Castore, raccogliendo il proprio cosmo, allo stesso modo di Polluce. I due fratelli si guardarono per un momento prima di unire un proprio braccio al braccio dell’altro, preparando il loro colpo congiunto.

"Illusione dei Dioscuri!" –Esclamarono insieme, mentre le sagome dei loro corpi iniziarono a moltiplicarsi a dismisura, invadendo tutto lo spazio intorno a Kampe.

La mitologica bestia inizialmente non si accorse del trucco dei due fratelli, continuando a stritolare Giasone, pronta per azzannarlo con i suoi multiformi denti. Ma i Dioscuri le diedero un buon motivo di considerazione, attaccandola congiuntamente da ogni direzione. Decine e decine di Pugni di Zeus e di Cariche dei Cento Cavalli piombarono sulle bestie che componevano Kampe, massacrando i loro volti deformi con tutta la forza che avevano in corpo.

Kampe si agitò, strillò emettendo orridi suoni, mosse la coda all’impazzata cercando di colpire i due fratelli, ma i suoi colpi andarono a vuoto, incontrando soltanto evanescenti immagini create dall’Illusione dei Dioscuri. Kampe non era Andromeda, e non disponeva dell’utilissimo mezzo che era la sua catena, capace di discernere tra le varie illusioni e trovare i veri Castore e Polluce.

"Pugno di Zeus!" –Urlò ancora Castore, seguito dal fratello. E quella volta puntarono contro la coda, liberando Giasone dalla putrida prigionia e facendolo crollare a terra. In quella, stanchi per il lungo assalto, i due fermarono il loro attacco, correndo a sincerarsi delle condizioni del compagno.

Le illusioni scomparvero e così pure i molteplici attacchi che Kampe stava subendo, permettendo all’orrida bestia di focalizzare nuovamente i propri nemici: tre moscerini ai suoi piedi, pronti per essere schiacciati. Ma prima che la bestia riuscisse a muovere la sua coda, si ritrovò immobilizzata a terra, stretta in una morsa robusta che difficilmente riuscì a comprendere.

Castore, Polluce e Giasone, rimessosi in piedi, osservarono straniati l’inaspettata prigionia della bestia. Gli alberi intorno si erano destati dal loro antico sonno, sollevandosi per fermare l’avanzata della putrefatta bestia. Tigli e lauri, e possenti querce, che avevano sempre circondato la base dell’Olimpo mossero in guerra contro Kampe, afferrando la sua coda con i loro rami frondosi, piantandosi saldamente nel terreno e stringendo la creatura in una stretta resistente e mortale.

La bestia risvegliata da Flegias urlò disperata, guaendo a più non posso, davanti agli occhi attoniti dei tre Cavalieri, prima che una figura, avvolta da un mantello marrone, apparisse in mezzo a loro.

"Adesso Cavalieri! Presto! Non riuscirò a trattenerla per lungo!" –Esclamò una voce di donna.

"Demetra!" –La riconobbero i Cavalieri Celesti.

"Colpitela, presto!" –Li incitò la Dea delle Coltivazioni, mentre con il suo potere guidava gli alberi nella dura lotta.

Kampe si dimenava come una pazza, muovendo follemente la coda e spazzando via molti alberi, ma Demetra usò tutto il suo cosmo per opporsi a lei, fermando i suoi movimenti, per permettere a Giasone e ai Dioscuri di ucciderla. I tre Cavalieri Celesti unirono i loro cosmi, espandendoli al massimo, forti dell’aiuto divino ricevuto.

"Pugno di Zeus!" –Gridò Castore, mentre Polluce gli fece eco con la Carica dei Cento Cavalli.

Giasone balzò in alto, mentre i lucenti attacchi dei Dioscuri stordivano le teste della bestia, brandendo la sua lucente spada, caricandola del proprio cosmo, e colpì il punto giusto: il corpo di Kampe, quel gracile tronco dalle sembianze umane, che sembrava così piccolo e insignificante rispetto all’immonda massa della sua coda e alle orribili forme della sua testa. Piccolo, ma vitale, in quanto in esso si trovava il cuore del mostro.

La lama della Colchide affondò nel petto della bestia, trapassandola da parte a parte, lacerandola in orripilanti grida di dolore. Kampe si attorcigliò su se stessa, mentre litri di linfa vitale, nera come la pece, sgorgavano dalla sua ferita, urlando disperatamente, sollevandosi un’ultima volta, con tutta se stessa, verso il cielo. Un attimo dopo crollò a terra, orribile gigante di malvagità, schiacciando, nel crollare, Castore e Polluce, che per colpirla si erano troppo avvicinati a lei.

Demetra ordinò subito agli alberi di sollevare l’orrida carcassa, per permettere a Giasone di liberare i corpi dei due Cavalieri Celesti, e portarli fuori. Castore e Polluce erano molto deboli e tossivano violentemente, sputando sangue e il liquido nerastro che era entrato loro in gola.

"Coraggio, amici!" –Li esortò Giasone, osservando gli sforzi dei due fratelli di rimettersi in piedi.

L’oscura linfa vitale di Kampe aveva ricoperto i loro corpi, entrando a contatto con le ferite aperte dei due Cavalieri, inquinando il loro sangue. Giasone rivolse un’aria preoccupata a Demetra, temendo per l’intossicazione dei due Cavalieri Celesti, ma la Dea non seppe offrirgli altro che un mesto sorriso di consolazione. Demetra giunse le mani e si inginocchiò, pregando, mentre il suo cosmo, dai colori verdi come la natura, cresceva intorno a lei, raggiungendo i Cavalieri poco distanti. Per qualche momento a Castore e Polluce parve di sentire il loro corpo risanarsi, toccato dalla purezza naturale del cosmo della Dea delle Coltivazioni.

Improvvisamente, intorno ai tre Cavalieri iniziarono a spuntare piante arbustive, evocate dal cosmo di Demetra; piante di una ventina di centimetri di altezza, dalle foglie biancastre e pelose, e dai fiori rosacei, che spuntarono immediatamente.

"Ecco, è l’unico modo che conosco per essere utile!" –Sorrise la Dea, cogliendo qualche foglia di timo. –"Il timo comune, intriso del cosmo della Dea delle Coltivazioni, libererà la vostra pelle, stimolando la circolazione sanguigna e purificandovi e depurandovi dall’oscura linfa della bestia!"

"Grazie, Dea delle Messi…" –Sorrise Castore.

"Tu vai!" –Si rivolse quindi Demetra a Giasone. –"Zeus avrà bisogno di tutti i suoi Cavalieri, adesso che i guerrieri di Ares hanno varcato il Bianco Cancello! Vai, e non temere, curerò io le ferite dei tuoi compagni!" –Aggiunse, notando la reticenza di Giasone ad abbandonare i Dioscuri.

"Sì!" –Esclamò infine il Cavaliere Celeste, stringendo i pugni.

Rivolse un ultimo sguardo a Castore e Polluce, seduti malamente a terra, con i corpi feriti e grondanti sangue scuro, e si augurò che l’influsso benefico di Demetra servisse per medicarli. Quindi scattò avanti, lanciandosi in una folle corsa all’inseguimento dell’esercito di Ares, lungo la Via Principale che conduceva alla Reggia di Zeus.

I berseker avevano varcato disordinatamente il Bianco Cancello, entrando nel Regno di Zeus, procedendo lungo la Via Principale. Qualcuno di loro si era inoltrato all’interno del bosco circostante ma era scomparso molto presto dalla vista dei compagni, che non avevano perso tempo nell’andarlo a ricercare. Pochi minuti dopo una fitta nebbia calò su di loro, avvolgendo la strada principale e rendendo difficoltosa l’avanzata dei Guerrieri Scarlatti.

"Non vi fermate!" –Urlarono Phobos e Deimos, incitando i guerrieri a proseguire. –"È solo un trucco per fermarci, ma non ci riusciranno!" –E nel dir questo, Phobos ordinò di accendere fiaccole e tizzoni per illuminare la via. –"E se questo non bastasse…" –Aggiunse, liberando la propria Spada Infuocata. Lanciò un fendente avanti a sé, che corse sul terreno, scavando un profondo solco, fino a perdersi nelle nebbie di fronte a loro.

Improvvisamente una fitta pioggia di frecce iniziò a cadere sopra i berseker di Ares. Molti furono colpiti, feriti al collo o nelle parti lasciate scoperte dalle corazze, ma subito reagirono, imbracciando gli scudi e difendendosi, per quanto non riuscissero a comprendere da dove provenissero gli attacchi. Phobos si volse verso il fratello, con sguardo sornione, e sibilò qualcosa nel suo orecchio.

"I Cacciatori di Artemide!" –Mormorò Deimos, con aria sogghignante. Quindi si voltò verso i berseker, impartendo loro l’ordine definitivo. –"Continuate ad avanzare, fino alla Reggia di Zeus, qualunque cosa accada avanzate sempre!" –Quindi fece un cenno al fratello e insieme a lui uscì dall’ammassata marmaglia di Guerrieri Scarlatti, scattando velocemente all’interno della Foresta. Avevano un conto in sospeso con la Divina Artemide, e l’avrebbero chiuso molto presto.

In quel momento il Sommo Zeus giocò la sua carta migliore, la difesa estrema dell’Olimpo. Insieme ad Asclepio, Era ed Atena, il Padre degli Dei raggiunse il giardino retrostante la propria reggia, dove esisteva un pozzo. Un piccolo pozzo dalla forma circolare, costruito con rozze pietre, che Era aveva sempre ritenuto poco adatto alla magnificenza dei Giardini Olimpici, ma Zeus, ogni qualvolta la sua sposa gli aveva chiesto di abbatterlo, si era sempre opposto, intimando lei, e chiunque altro ne avesse avuto intenzione, di non osare neppure sfiorare il sacro pozzo.

"Perché siamo qua?" –Domandò Era, osservando il serio volto dell’amato.

"Un antico rito sta per compiersi, e per farlo necessito del tuo aiuto, mia sposa, e di quello di mia figlia!" –Spiegò il Dio.

"Un rito?!" –Ripeté Era, non comprendendo.

"Millenni or sono, quando il mondo era ancora giovane, combattemmo una violenta guerra contro mio padre, Crono, e i suoi fratelli, i Titani! Ma i Titani, figli di Gea la Terra, non erano le uniche Creature primordiali! No, al loro fianco, nella Prima Generazione Cosmica, esistevano altri esseri che combatterono al nostro fianco, al mio fianco, contro Crono che li aveva privati della libertà!"

"Intendi dire…?!" –Balbettò Era, il cui ricordo di quelle creature non sembrava essere così sereno come quello dell’amato.

"Gli Ecatonchiri! I Distruttori per eccellenza!" –Chiarì Zeus.

"Gli Ecatonchiri!!!" –Ripeté confusamente Atena. –"Esseri così grandi da sfiorare il cielo, con un corpo umano ma immenso, dotato di cento braccia e di cinquanta testa!"

"Proprio loro! Io li liberai dalla prigionia cui Crono, loro fratello, li aveva condannati, ed essi mi promisero, quel lontano giorno, di rimanere al mio fianco e combattere per me ogni volta in cui ne avessi avuto bisogno! Ed io li nominai Guardiani del Tartaro, affidando loro la custodia dei Titani!"

"E adesso vorresti risvegliarli?!" –Esclamò Era, con grande preoccupazione. –"Ma sono dei distruttori! È rischioso, mio adorato! Potrebbero sfuggire al tuo controllo, potrebbero ribellarsi!"

"Non sono più pericolosi di una moglie gelosa, mia sposa!" –Commentò Zeus, zittendo in fretta Era. –"Non ho dimenticato il tuo tentativo di detronizzarmi, cara, anche se sono passati millenni! E anche in quell’occasione Briareo intervenne per aiutarmi! No, non si ribelleranno a me!" –Concluse Zeus, prima di muovere velocemente la mano destra e tagliarsi lievemente il polso sinistro. Sollevò il braccio sinistro sopra il pozzo, lasciando cadere una goccia di sangue al suo interno.

"Tre gocce di sangue!" –Spiegò il Dio. –"Di questo ho bisogno per farli rinascere!"

"Ho capito!" –Sospirò Atena, avvicinandosi al pozzo.

Zeus la osservò e inizialmente le parve titubante, forse memore di quel lontano giorno in cui la stessa Dea della Giustizia, affiancando Era e Nettuno, aveva tentato di detronizzare il Padre. Forse sensi di colpa o una mai sopita paura per l’ignoto la stavano frenando. Ma alla fine Atena cedette, offrendo una goccia del proprio sangue per far rinascere anche il secondo Ecatonchiro.

Quindi Zeus si voltò verso Era, rimasta tremante in disparte, avvolta nella sua veste color porpora. Indispettita per il tono con cui Zeus le si era rivolto, rimembrando errori della sua gioventù, la Regina degli Dei fu quasi tentata di rifiutare, ma poi, ascoltando il vento, e le grida di dolore che gli eserciti di Ares stavano portando sul Sacro Monte, accettò la richiesta del marito, tagliando a sua volta il proprio polso destro, lasciando cadere una terza goccia di sangue nel sacro pozzo.

Immediatamente un boato immenso scosse l’intero Olimpo, un boato proveniente dalle profondità del Tartaro.

"Briareo ha accolto la mia richiesta! Presto sarà qua per difendere ancora una volta l’Olimpo!" –Esclamò Zeus, allontanandosi dal pozzo sacro.

Era, Atena ed Asclepio lo seguirono, fino all’ingresso della Reggia, desolatamente vuota. Pochi secondi dopo, sentirono la terra tremare sotto i loro piedi, scuotersi fino alle fondamenta del Sacro Monte, segno inequivocabile che gli Ecatonchiri si erano risvegliati e messi in marcia.

Gli stessi boati furono uditi dai guerrieri di Ares, che tremarono come conigli lungo la Via Principale, proprio davanti all’abbandonato Tempio di Ares. Il primo infatti, dei Tempi che sorgevano sulla Via che conduceva alla Reggia, era proprio il Tempio della Guerra, dedicato ad Ares, e da lui abitato millenni prima, quando viveva sull’Olimpo insieme ai suoi fratelli. Là, pochi metri a monte rispetto al luogo in cui Ilda, Mizar e Alcor avevano affrontato Issione qualche giorno prima, la terra si aprì improvvisamente.

Un’immensa voragine spaccò il terreno, facendovi precipitare all’interno roccia e piante, alcuni berseker e parte del Tempio della Guerra, le cui fondamenta furono scosse così tanto da crollare poco dopo. Tra la polvere e i detriti, i berseker di Ares riuscirono però a riconoscere tre immense figure che torreggiavano sopra di loro: i loro corpi, per quanto alti e robusti, erano umani, ma avevano cento braccia ciascuno e cinquanta teste, ricoperti da scintillante corazze, offerte loro da Efesto ai tempi del mito.

Cotto, Gige e Briareo, i tre Ecatonchiri, figli di Gea e di Urano, imprigionati da Crono, loro fratello, erano stati risvegliati da Zeus, per combattere nuovamente al suo fianco, difendendo l’Olimpo.