CAPITOLO TRENTACINQUESIMO: SETTIMO INTERLUDIO.

NATURA.

(by Iribel)

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: presente.

Un’immensa nebbia.

È questa la prima immagine che ebbi dell’isola. Una coltre di nebbia che sembrava non avere fine, un cielo che pareva estendersi ovunque, al punto da entrarmi nell’anima. Eppure, per quanto poco potessi vedere, per quanto molto dovessi affidarmi ai sensi, per percepire le presenze che mi attorniavano, non mi sentii affatto a disagio. Tutt’altro. Mi invase una sensazione familiare, che in questi quindici anni non mi ha mai lasciato. La sensazione di esservi già stato prima di allora, in un passato lontano e indefinito. In una di quelle che il mio Maestro e il Primo Saggio di cui è stato discepolo avrebbero definito le mie vite precedenti.

Sorrido, e carezzo la croce celtica che porto al collo. L’unico oggetto che mi porto appresso da sempre. Placida reliquia della mia infanzia.

In uno sfuocato ricordo d’autunno, rivedo mio padre farmene dono. Ma non riesco a focalizzarmi su di lui, non riesco a vedere i tratti del suo volto, né quello di mia madre e mio fratello. Sono sagome, niente di più. Sbiaditi ricordi di una vita che non ho mai vissuto. O forse di una delle tante cui sono passato attraverso.

Avevo sei anni, così mi pare di ricordare, quando sentii parlare per la prima volta di Cavalieri e Divinità. Affascinato, come tutti i bambini a cui si raccontano favole e leggende, fantasticavo sulle imprese mitiche che uomini simili avevano affrontato. Immaginavo Eracle, con la possente clava, lottare a mani nude contro il Leone di Nemea e l’Idra di Lerna. E Dioniso, ebbro di orgia e follia, sollazzarsi con le driadi nei meandri del suo vigneto. E Giasone, veleggiare verso la Colchide alla ricerca del Vello dell’Ariete d’Oro. E Zeus il Sommo, l’apoteosi.

Non ricordo neppure come, ma un giorno presi la decisione di trasformare questi sogni in realtà. Di cacciar via i fantasmi della mia infanzia per rincorrere la verità che vi si celava dietro. Così lasciai la natia Australia, nascondendomi in un cargo diretto in Indocina. Avevo sentito parlare di monaci che vivevano in eremi nascosti, nelle grandi catene dell’Himalaya e del Karakoram, e di asceti che praticavano forme di meditazione in grado di accrescere il loro potere interiore. Ma in realtà non avevo la minima idea di dove sarei andato. Né di cosa stessi cercando. La sola cosa che sapevo, e che era importante, era che dovevo andare. Me lo sentivo nell’animo.

Che fosse il richiamo di un antenato che confidava in me per restaurare i gloriosi fasti di un’obliata dinastia, o il volere di un Dio di cui ancora non ero a conoscenza, o l’infantile capriccio di un bambino di nove anni, era comunque ciò che accadde. E che mi allontanò dalla mia famiglia.

Non rividi più nessuno di loro. Né mio padre, marinaio su uno dei tanti pescherecci che battevano l’Oceano Pacifico, morto in mare durante una tempesta. Né mia madre, il cui cuore, già straziato dalla perdita dei figli, non resse a così tanto dolore. Né mio fratello, che, venni a sapere in seguito, si era diretto in Grecia per diventare Cavaliere di Atena. O forse per ritrovare il fratello da cui il destino l’aveva separato.

Il destino o semplicemente la volontà di un uomo che ha deciso di sfidarlo?

Dopo tanti anni, lo ammetto, non sono ancora riuscito a trovare la differenza.

Un tempo, nella prima fase della mia vita, quei due anni trascorsi in Cina, ad allenarmi di fronte all’attento sguardo di un vecchio dalla pelle viola e dal volto coperto da un cappello di paglia, avrei negato l’esistenza del fato. Ma crescendo, e venendo iniziato ai misteri dell’Isola Sacra, ho imparato cose ritenute in precedenza irraggiungibili, e sondato universi con la sola forza della mente, comprendendo infine che niente avviene per caso. Che tutto fa parte di un piano superiore, di un destino universale che unisce gli uomini e tutti gli esseri viventi, consapevoli o meno di vivere in un eterno presente. Un eterno ora.

Chi ne sia il tessitore soltanto gli Dei possono saperlo. E so per certo che persino molti di loro preferirebbero non esserne a conoscenza.

Rimasi in Cina per due anni, nella pagoda dell’uomo che mi salvò da morte certa, mentre giacevo, stanco, affamato e fradicio, nelle torbide acque di uno stagno, ai margini di una foresta di bambù. Avevo camminato per giorni, nelle terre interne dell’Asia, inseguendo la chimerica scia di un mistero che ero solo all’inizio dall’apprendere.

Mi avevano detto che millenni addietro, in una valle nascosta, una cometa a forma di drago si era schiantata sulla Terra, scavando il terreno fino a generare cinque aspri picchi. Dal sottosuolo smosso, torrenti d’acqua avevano iniziato a sgorgare creando fiumi e cascate, dai colori così vividi e luminosi che a molti parve che la cometa vivesse ancora. E che quelle fossero le sue lacrime. Le lacrime del drago.

Arrancai per giorni, forse per settimane, rubacchiando nei campi e nelle risaie per sopravvivere, finché non crollai. E i miei sogni crollarono accanto a me. Mi risvegliai in un letto di paglia, stordito e affamato, mentre i miei occhi stanchi mettevano a fuoco l’immagine di un giovane, di dieci anni o poco più, dal volto bianco, che mi sorrideva porgendomi una tazza fumante, piena di una corroborante zuppa.

"Tebaldo!" –Lo chiamò un’anziana voce, pregna di saggezza e forza. –"Come sta il nostro ospite quest’oggi?! Oh, si è svegliato, che fortuna!"

Era basso come un nano, e vecchio e rugoso come una quercia centenaria, ma i suoi occhi trasudavano epicità e memoria. Erano gli occhi di un uomo che aveva visto vari inverni corrergli di fronte, affannando disperatamente per afferrarli, senza però raggiungerli, costretto a rimanere inerte e a lasciarli passare. In attesa dell’ultimo.

"Do… dove sono?!" –Balbettai, cercando di sollevarmi. E subito il giovane chiamato Tebaldo si affrettò ad aiutarmi, essendo ancora debole per stare in piedi da solo.

"Ai Cinque Picchi!" –Commentò l’anziano, spostando lo sguardo verso la finestra, da cui filtrava copiosa l’abbacinante luce del sole di Cina. –"Non era qua che volevi arrivare?!" –Aggiunse, sornione, prima di uscire dalla pagoda.

A passi lenti, lo seguii oltre la soglia, accecato dal bagliore del panorama di luce che si apriva di fronte a me. E fu allora che la vidi, la Cascata del Drago.

Imponente e maestosa, scorreva alla mia destra, precipitando dall’alto di un picco di qualche centinaio di metri e spruzzando il viso e il cappello di paglia dell’anziano dalla pelle viola seduto in posizione meditava di fronte ad essa. C’era qualcosa, nella sua postura, nella pacata immobilità che lo contraddistingueva, che mi fece sospettare che non fosse un gesto inusuale. Ma il segno del lento trascorrere del suo tempo. E le parole di Tebaldo, poco dopo, confermarono le mie intuizioni.

"È il guardiano di quest’oasi di pace! Il Maestro dei Cinque Picchi, o semplicemente Vecchio Maestro! È così che lo chiamano i suoi allievi!"

"Non ha un nome?!"

"Se anche lo ha avuto, io non lo conosco! Né credo lui stesso lo ricordi…" –Mi sorrise Tebaldo, ponendomi un braccio sulle spalle, con una gentilezza onesta che, negli anni seguenti, non mancò mai di dimostrarmi, abbracciandomi e ridendo con me, come fossi un fratello. Suo fratello.

Ancora adesso, dopo quasi quindici anni, rimpiango di non aver mai potuto ringraziarlo, per l’affetto con cui mi ha riempito il cuore. Ancora adesso rimpiango di non avergli potuto dire addio.

Né a lui, né a Dohko.

Ma se quel giorno, sotto il sole di Grecia, non avessi accettato l’offerta del solerte Ermes, non sarei giunto dove sono adesso. Non sarei stato iniziato ai misteri. E la mia vita non sarebbe cambiata. Sarei rimasto là, a masticare le foglie di un destino amaro, che nient’altro mi avrebbe riservato se non la stessa morte anonima, sotto cumuli di macerie insanguinate, cui Tebaldo era incorso senza che io avessi potuto aiutarlo. Né modificare il fato per lui.

Crescendo, sono diventato forte e maturo. E ho capito che in questo mondo in continua mutazione non esiste niente che duri davvero per sempre. Che ciò che vediamo oggi nient’altro è che la polvere di domani. Quella stessa che darà luce ad una nuova vita, in un circolo di morte e rinascita. In un perpetuo ciclo di trasformazione che mai avrà fine.

Fu il mio mentore a parlarmene, la prima volta, sulla cima dell’Isola Sacra.

Sedevamo sull’erba, cullati dal vento, in mezzo alle alte pietre grezze che ornano la superficie di Avalon. Pare che furono issate dai primi druidi, millenni or sono, quando si rifugiarono sull’isola, facendone il loro paradiso, la loro casa, il luogo da cui sarebbe partita la lunga marcia verso l’ultima guerra. E ogni pietra è stata poi cosparsa delle ceneri di tutti i saggi che si sono succeduti, donando loro quel potere e quella conoscenza che avevano raggiunto in vita. Che fosse possibile o meno, Avalon ci credeva, e ci crede tutt’ora quando vi si reca a passeggiare nelle sue notti di meditazione, per chiedere consiglio agli antichi.

E anch’io, quel giorno, percepii qualcosa. Forse fu lo stormire del vento tra le rocce, ma credetti davvero di sentire delle voci che mi chiamavano. Voci nient’affatto estranee ma che sentivo parte di me, del mio essere. Voci che si compenetravano alle altre, divenendo un unico canto. Le memorie perdute della terra.

"Ascanus..." –Mormorò qualcuno nella mia mente, chiamandomi con la versione latina del mio nome.

Muovendo lo sguardo tra i megaliti e le nebbie, mi parve di scorgere una figura fumosa che avanzava verso di me, una sagoma incorporea su cui brillavano occhi pieni di vita, occhi che stridevano con l’evanescenza del suo corpo. Occhi in cui fui in grado di specchiarmi, ritrovando me stesso.

"Chi sei?" –Trovai la forza per balbettare, strappando un sorriso al Signore dell’Isola Sacra e alla figura fatua di fronte a me.

"Sono tuo padre!" –Si limitò a rispondere quest’ultima. E capì che non intendeva il mio padre biologico, il cui corpo era stato smarrito e dilaniato dalle correnti del Pacifico. Ma il mio vero padre, l’antenato da cui presi l’epiteto che iniziai ad usare in battaglia.

Pendragon. Testa di drago.

Avalon mi prese la mano, aiutandomi a mantenere la concentrazione, aiutandomi a penetrare a fondo quel mistero che così tanto mi riguardava. E mi spiegò, con voce ferma, che l’uomo entrato nella storia e nel mito come Arthur Pendragon era stato un condottiero leggendario, dotato di poteri cosmici, come i Cavalieri di Atena e di Zeus, ma su cui gravava un peso troppo grande da sopportare. I destini di un mondo, l’antica Albion, ormai prossimo a scomparire.

"Arthur ebbe un figlio da sua sorella, una Sacerdotessa della Dea Madre, e anch’egli, prima di morire a Mount Badon assieme al padre, ebbe il tempo di generare un erede con una Sacerdotessa di Avalon, un erede che fu tenuto nascosto. I sassoni ormai avevano invaso la Britannia e il nome Pendragon aveva portato con sé troppi cadaveri. Così la sua identità fu celata, ma gli fu permesso di avere una vita felice, di amare e di morire infine, continuando la dinastia del più grande re di Albion. Una linea che ha attraversato il tempo e lo spazio, giungendo fino a te, l’ultimo di una stirpe di eroi. Ricordo ancora quel che facemmo iscrivere sulla tomba di Arthur: Hic iacet Arthurus, rex quondam, rexque futurus, e quel che dissi quel giorno al mio maestro: Arthur non è morto. Egli vivrà.

E quel momento è adesso!"

Le parole di Avalon mi colpirono, ma ancor più lo fece l’ultimo gesto di mio padre, che, avvicinatosi a me, mi porse le mani, permettendomi di vedere i dragoni tatuati sulle sue braccia. Uno bianco e uno rosso, intrecciati assieme, simboli di un’antica tradizione di Britannia. La vita e la morte. Incantato dalla visione, allungai un braccio per stringere quello di Arthur, per sentirlo lì, vivo di fronte a me, ma afferrai soltanto nebbia.

La figura si dissolse, scivolando nell’aria in comete di foschia, affusolandosi attorno al mio corpo e poi penetrando in me. Da allora, ogni volta in battaglia mi sento come se fossimo in due a combattere, io e mio padre, e tutta la nostra storia. Da allora, sulle mie braccia campeggiano le sagome di un drago bianco e di un drago rosso, a ricordarmi il mistero vissuto quel giorno e il giuramento prestato. Un giuramento silenzioso, fatto di gesti e di assensi.

Quando mi alzai, mi parve per la prima volta di vedere il sole risplendere sulla cima dell’isola sacra, testimone silente di quella promessa.

Avalon si avvicinò al pozzo sacro, riscaldato dall’ultimo raggio di sole, e vi immerse la mano, facendovi fluire il proprio cosmo. Immenso e intenso. Quando risollevò il braccio mi accorsi che reggeva qualcosa, ma non capii cosa fosse finché non me lo mise davanti. Sembrava una pentola, ma non serviva affatto per cucinare, bensì per combattere.

"Il più potente dei Talismani al più potente dei Cavalieri delle Stelle, colui che comprende i turbamenti del mondo e vive in comunione con la natura!" –Parlò il Signore dell’Isola Sacra, l’uomo che, in quegli anni vissuti a Glastonbury come Cavaliere Celeste, non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso, ritenendomi destinato a qualcosa di più che non condurre una legione dimenticata verso la fine.

Socchiusi le labbra, per esprimergli la mia gratitudine, ma non riuscii a proferir parola, potei soltanto espandere il mio cosmo, stabilendo un contatto diretto con il manufatto che ero chiamato a difendere, il Talismano che mi aveva scelto come suo protettore, permettendomi di accedere ai misteri.

"Dei sette Talismani forgiati un tempo per combattere l’ultima ombra, questo è l’unico rimasto celato all’interno di Avalon, di modo che il suo custode potesse proteggerlo. Dovrai fare molta pratica per raggiungere il livello di cosmo sufficiente a padroneggiarlo al meglio, perché, e di questo devi essere consapevole, chi beve dal calice dei misteri può assaporare l’inebriante sapore della vita o il tetro precipitare verso la morte, foss’anche il suo possessore. Un dualismo che i saggi conoscevano bene ed è stato alla base di tutte le tradizioni celtiche."

"Sono pronto alla prova!" –Mi limitai a rispondere.

Ed era vero.

In fondo, mi dissi, per quel motivo avevo a lungo vagato, per trovare uno scopo ultimo all’esistenza. Non una guerra da vincere o una corona da indossare, non uno scrigno di gioielli o il sogno di una notte d’amore. Soltanto risposte, che solo vivendo i misteri di Avalon avrei potuto avere.

Il Signore dell’Isola Sacra sorrise, ponendomi una mano su una spalla e congedandomi poco dopo. Gli allenamenti sarebbero iniziati a breve e Gwynn e gli altri Cavalieri Celesti mi aspettavano per la nostra quotidiana corsa lungo i pendii terrazzati del Tor. Lasciai Avalon sulla sommità dell’isola e scivolai tra gli alberi di mele sospinto dal vento. Il vento del mio destino. Quello stesso che da anni mi sorregge e mi impedisce di cedere a qualunque sconforto, e che mi ricorda continuamente chi sono.

Sono stato molte cose in vita. Aspirante Cavaliere di Atena, allievo del Maestro dei Cinque Picchi, discepolo di Avalon e iniziato ai misteri dell’Isola Sacra, Comandante della Legione Nascosta dei Cavalieri Celesti di Glastonbury, favorito di Zeus, Comandante dei Cavalieri delle Stelle e custode del settimo Talismano. Ma niente mi ha riempito il cuore quanto adempiere con dedizione alla vocazione per cui ero stato chiamato, rivivendo, dentro di me, le gesta dei miei avi, coloro che unificarono e diedero speranza ad Albion.

Io sono Ascanio Testa di Drago, ultimo discendente di Arthur e della gloriosa stirpe che rese grande e unita la Britannia. Io sono Ascanio Pendragon, il figlio del drago.

***

L’ombra non ha volto. L’ombra non ha tempo. L’ombra semplicemente è.

Pretendere di darle un nome, un volto, un corpo, pretendere di vederla, di toccarla, anche solo di capirla richiederebbe avvicinarsi ad essa. Ma, nel farlo, chiunque ne sarebbe sopraffatto, chiunque verrebbe risucchiato al suo interno. Perché è questo che fanno le ombre, strisciano silenti dove il sole non giunge, attendono pazienti il calar della notte, il tingersi istantaneo di un nero profondo, un nero dove finalmente possono esistere. Emergere. Essere.

Perché le ombre sono, anche se la luce non sa. O non vede. O non vuole vedere.

E quella consapevolezza col tempo prende forma, diventa coscienza di sé, dà vita alla frustrazione, genera l’odio, insegue la rivalsa, ambisce al dominio. Mira ad avere un mondo per sé.

Non più un mondo temporaneo, non più fresco riposo notturno dalla luce del giorno. Ma non un mondo dove essere per sempre. Regina, e non più serva; creatrice, e non più creata; amata, e non più odiata.

Perché anche le ombre amano. E amano altre ombre, con cui daranno vita a nuove tenebre, favorendo la riproduzione della stessa.

C’è sempre, in fondo, un guscio vuoto da colmare di tenebra, un giorno da mutare in notte. Un tempo di cui decretare la fine.

Ed è questo che l’ombra fa. Scandisce la fine del tempo. Di tutti i tempi, o di uno soltanto. Perché l’ombra vive in un eterno presente, un qui e ora, senza passato o futuro. L’ombra semplicemente è.

Il Comandante Ascanio ripiegò la pergamena, avendo cura di non spiegazzarla, spense la candela e diede l’ultimo saluto al giaciglio ove aveva dormito per anni, in una delle tante capanne che costellavano il versante centrale dell’Isola Sacra.

Prima di andarsene, prima di partire per Atene, Avalon gli aveva dato qualcosa da leggere, scritti cui si era abbandonato nelle lunghe notti solinghe trascorse a guardare le stelle sulla cima dell’alto colle. In attesa.

Li aveva lasciati a lui, convinto che nessuno meglio del Cavaliere della Natura, colui che con essa vive in comunione e che della vita percepisce i turbamenti, li avrebbe compresi. Oltre che per un secondo motivo, personale e utilitaristico.

Ascanio era il suo erede, l’erede di antiche tradizioni che risalivano ai tempi di suo padre. Era colui che avrebbe traghettato l’Isola Sacra verso il meraviglioso mondo nuovo che sarebbe nato dalle rovine dell’ultima guerra. Certo, c’era pur sempre il rovescio della medaglia, l’ansia terribile che lo invadeva ogni volta in cui pensava alla Coppa di Luce, l’incertezza di un momento atteso per millenni, un momento che avrebbe potuto cambiare tutto. Era pronto? I Sette erano pronti?

Lo avrebbe presto scoperto, e con loro il resto dell’umanità.

***

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo presente.

Il rito funebre per Osiride si svolse in forma strettamente privata, in un salone interno del tempio di Karnak che Amon Ra aveva allestito per l’occasione. Erano presenti, oltre al Dio del Sole, la sposa e il figlio del Dominatore di Amenti, e i figli di Horus. E anche Febo e Marins.

"Mi dispiace molto. So che per te era come un padre!" –Disse il Cavaliere dei Mari Azzurri all’amico, al termine della cerimonia.

Febo annuì, gli occhi lucidi per l’emozione, dirigendosi assieme a Marins verso la Sala Ipostila, dove Amon Ra li aveva convocati.

"È stata colpa mia!" –Mormorò, fermandosi all’improvviso e stringendo i pugni. –"Osiride è morto per salvarmi, per dare a Horus un’opportunità!"

"Per salvarci!" –Precisò Marins. –"Non dimenticare che non eri da solo in quel tempio! Non eri da solo quando l’ombra ci ha vinto! Né lo sei adesso!" –Gli sorrise, prima di fargli cenno di proseguire.

Il Dio del Sole li aspettava al centro dell’enorme salone, invitandoli a camminare con lui attraverso l’ampio colonnato, nel silenzio rotto solo dai loro passi.

Febo passeggiava a fianco di Amon Ra, e Marins li seguiva di qualche metro, ritenendo opportuno lasciare loro il giusto spazio. Si era già sentito di troppo durante il rito funebre e, adesso che le sue condizioni erano migliorate, sperava di poter lasciare Karnak quanto prima, bisognoso di respirare aria fresca. Non sapeva cosa il Pastore dell’Universo volesse discutere con loro ma, dal volto teso e dal prolungato silenzio, doveva essere qualcosa che gli stava particolarmente a cuore, e che al tempo stesso lo incupiva.

Con suo grande stupore, fu a lui che Amon Ra si rivolse per primo.

"Come sta la tua mano, giovane Cavaliere? Febo mi ha detto che ti ha dato qualche dolore, di recente!"

"Niente che un po’ di tempo non possa migliorare, mio Signore! Un formicolio che a volte si fa sentire e che forse vuole spingermi a tornare presto in battaglia!"

"Tempo?! Vorrei davvero che ne avessimo! A volte sembra che persino quello di cui noi Dei disponiamo sia insufficiente!" –Sospirò Amon Ra, continuando a camminare, le mani dietro la schiena, la fronte corrugata in un’espressione pensierosa. –"Temo che le tue necessità troveranno presto soddisfazione e forse allora rimpiangerai le calme aule di Karnak, dove il massimo del pericolo era rischiare di ingrassare a causa del troppo riposo e delle abbondanti portate!"

"Mio Signore, non intendevo mancarvi di rispetto… Quello che volevo dire…"

"Lo so bene, giovane yankee! Non preoccuparti, non mi hai offeso! Anzi, sono lieto di averti come ospite, lieto che tu sia amico di mio figlio! Proprio per questo temo per te, come per lui! Soprattutto adesso che i Sette sono stati rivelati!" –Confessò, fermandosi e voltandosi infine verso i ragazzi, che spalancarono gli occhi stupefatti.

"Co… come?! Il settimo Cavaliere delle Stelle è stato dunque trovato?!" –Esclamò Marins, cercando una qualche conferma o smentita nell’amico.

"Padre… voi, cosa sapete?!" –Intervenne questi, prima che Amon Ra, non senza un ultimo sospiro, schioccasse infine le dita.

"Il rito con cui confinai Karnak fuori dal tempo è ancora attivo, figlio mio. Niente può turbarne la serenità se non sono io a volerlo. Niente può varcarne i confini, neppure il sentore di un amico in pericolo o di una guerra lontana. Pur tuttavia, per voi, calerò il velo che la isola dal mondo, permettendovi di percepire… quel che è accaduto, sta accadendo e presto accadrà!"

Fu come se un fiume li travolgesse all’improvviso, sbattendo loro in faccia frammenti di una realtà da cui troppo a lungo si erano estraniati. Feriti, debilitati, privati dell’ultima stilla di energia, i due Cavalieri delle Stelle erano rimasti fuori dagli eventi in corso, eventi che l’Occhio di Ra aveva monitorato, concordando poi con Avalon la strategia da seguire. L’unica possibile.

Unirsi o morire.

"Jonathan e Reis sulla Luna? Il risveglio dell’ultimo talismano?! E… il Comandante Ascanio che fronteggia l’ombra?! Incredibile, le cose sono precipitate in nostra assenza! E abbiamo dormito a malapena un giorno!" –Esclamò Marins.

"Dunque il viaggio è giunto a conclusione! Avalon ha trovato i Talismani dei Sette Saggi! Dobbiamo riunirci adesso, e farlo quanto prima! In questi modo potremo mettere fine alla guerra… alla guerra tra la luce e l’ombra che va avanti da millenni!" –Intervenne Febo, con accalorata passione, ma ricevendo un cenno di diniego col capo da parte del padre.

"Non è così semplice, figlio mio! Devono sussistere determinate condizioni affinché ciò sia possibile!"

"Ma il vaso…."

"La Coppa di Luce può essere evocata una volta sola! Perciò Avalon dovrà essere ben attento e scegliere il momento esatto in cui colpire! Il momento esatto in cui la vostra esistenza avrà infine un senso…"

"Non siate triste per noi, padre!" –Gli sorrise Febo, afferrandogli una mano. –"A lungo ci siamo preparati per questo momento! Non falliremo!"

"Non temo per il vostro fallimento, ma per la vostra riuscita!" –Ironizzò il Dio, dando le spalle a entrambi e incamminandosi solo lungo la navata centrale del salone.

Ricordava ancora la conversazione avuta con il Signore dell’Isola Sacra riguardo ai Talismani. Che cosa fosse la Coppa di Luce neppure a lui era stato detto, ma conosceva abbastanza Avalon da sapere che non era solito mostrare le sue carte se non a gioco iniziato. Per cui, sebbene incuriosito, il Dio del Sole aveva rispettato il silenzio dell’alleato, ponendogli però una sola domanda, su colui che così tanto amava, e pregandolo di essere sincero nel rispondergli.

"Cosa ne sarà di Febo?"

Avalon lo aveva guardato con i suoi occhi argentei, e per la prima volta Amon li aveva visti tingersi di una tristezza infinita. Poi gli aveva sorriso, afferrando il Pastore dell’Universo per le mani e rinnovandogli l’invito ad essere forte. Anche loro, alla fine di tutto, si sarebbero rivisti.

"E pluribus unum." –Aveva mormorato, prima di svanire.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo presente.

Fine.