CAPITOLO TRENTANOVESIMO: SOLTANTO UN RESPIRO.

Tisifone osservava la barca prendere il largo e portar via quell’accenno di felicità che la vita le aveva regalato durante quell’interminabile giornata.

L’aveva sistemata con cura, adagiandola sul fondo di una vecchia imbarcazione trovata sull’isola. Le aveva pettinato i capelli all’indietro, carezzandole un’ultima volta il viso, per poi coprirle le gambe e il ventre sfondato con la coperta che la sorella le aveva fatto trovare sul canapè del castello; la coperta che all’inizio non aveva riconosciuto, vecchia e sgualcita, ma che adesso invece odorava di casa.

Era stato l’ultimo lavoro intessuto da sua madre prima di morire.

Morgana l’aveva messa sulle spalle di Tisifone, dopo essere salite a bordo del Bell X-22, e lei aveva sorriso a quella gentilezza, senza coglierne subito il significato nascosto. Adesso le avrebbe restituito il favore, affidandola alle cure di colui che più di ogni altro la sorella aveva amato, il luogo dove davvero, nel corso degli anni della sua burrascosa vita, si era sentita a casa. Il mare.

Il Cavaliere d’Argento sospirò, prima di voltarsi verso il Dio immobile al suo fianco e annuire mestamente. Nettuno puntò allora il tridente avanti a sé, liberando una folgore di energia che incendiò il tramonto di quel giorno d’autunno, abbattendosi poi sulla barca ove riposava il corpo spezzato della piratessa, incendiandola all’istante.

Proprio nel mare, dove a lungo hai imperversato nelle tue scorribande avventurose, termina il tuo cammino, sorella! Mormorò Tisifone, osservando l’imbarcazione di legno stantio consumarsi in una rapida fiammata e sprofondare poi verso quieti abissi.

Era successo tutto così in fretta, troppo in fretta. Passare dalla gioia di essersi ritrovate alla disperazione della perdita nell’arco di una sola giornata avrebbe fiaccato l’animo di chiunque, ma Tisifone era una combattente, un’anima sola ma in grado di azzannare la vita ogni volta in cui la stessa le vomitava addosso il suo veleno.

Le era successo in varie occasioni. Con Pegasus, con se stessa, con la femminilità che aveva dovuto reprimere per divenire una Sacerdotessa Guerriero, e adesso con la sorella (per troppo poco tempo) ritrovata. Avrebbe mai avuto pace?

Sospirò, spostando lo sguardo sui suoi improvvisati compagni, allineati in rispettoso silenzio alle sue spalle, e le scappò un sorriso di fronte all’ironia della situazione. Era lontana dalla sua terra, dalla Dea cui aveva giurato fedeltà e per cui aveva rinunciato al suo ruolo di donna, dai Cavalieri al cui fianco avrebbe dovuto lottare, sopravvissuta per miracolo ad uno scontro mortale su un’isola che non sarebbe più dovuta esistere. E le uniche persone al suo fianco erano il Dio che l’anno addietro aveva tentato di ucciderla, la sua fedele sirenetta e due ragazzetti che parevano aver ricevuto l’investitura più per caso che per merito.

"Mi dispiace per tua sorella! Era una combattente valorosa!" –Le si avvicinò allora Titis, parlando con voce sincera. –"Accetta le mie condoglianze, Cavaliere dell’Ofiuco!"

"Ti ringrazio!" –Commentò Tisifone. –"Lo apprezzo molto!"

Anche Nettuno le rinnovò la sua gratitudine per aver lottato assieme a lui contro Forco, prima di allontanarsi, diretto verso il mausoleo ove riposava il suo primo consigliere, per completare la sua missione, mentre Reda e Salzius sedettero in disparte, medicando le loro ferite, lasciando così le due donne da sole.

"Avresti potuto essere tu su quella barca, lo sai vero?" –Riprese allora Titis, fissando la Sacerdotessa di Atena negli occhi.

"Ne sono consapevole! Lo sono stata fin dal primo momento in cui sono scesa in guerra!"

"Perché?"

"Perché questo è il mio destino, che a volte ritengo maledetto! Qualcuno ritiene che l’Ofiuco, per la processione degli equinozi, sia in realtà il tredicesimo segno dello Zodiaco e che, come tale, sia intriso di una maledizione! Io non credo molto a queste storie di fantasmi, sembrano fatte per spaventare senza motivo… Pur tuttavia, qualcosa nel cuore mi rende infelice. E l’unico momento in cui non lo sono, l’unico in cui riesco ad esprimere davvero me stessa…"

"È in guerra!" –Annuì Titis, trovando conferma ai suoi stessi pensieri.

Tisifone sorrise, prima di incamminarsi verso i discepoli di Albione e sincerarsi delle loro condizioni, quando la fresca voce del Cavaliere Sirena la richiamò, indicandole un punto nel mare vasto di fronte a loro.

Una nave in avvicinamento.

"Pare che il mare prenda e il mare dia…" –Commentò Tisifone, osservando gli occupanti del ponte dell’imbarcazione.

Pesto e malconcio, Asher agitò un braccio nella sua direzione, avendola avvistata da lontano. Il Professor Rigel, Cliff O’Kents e i due fratelli d’acciaio erano al suo fianco.

Reda e Salzius si rimisero in piedi, chiamati dalla Sacerdotessa, che disse loro che adesso sarebbero rientrati tutti ad Atene per conferire con la Dea.

"E voi verrete con noi! È tempo che prestiate fede al vostro giuramento! Mai come adesso Atena ha realmente bisogno di tutti i suoi Cavalieri!"

***

Ferito e umiliato, Forco scivolò silenzioso verso le profondità oceaniche, suo regno incontrastato da tempi immemori. In abissi così lontani dove neppure Nettuno e i suoi tanto decantati Generali avevano mai messo piede, ingiustamente insigniti di un titolo mai appartenuto loro.

Come possono definirsi Generali degli Abissi se tutto quel che del mare han visto si è limitato al Regno Sottomarino? A quelle ridicole colonne greche che continuamente miravano al cielo. Al cielo! Umpf! Ridicolo! È a quello che Nettuno ha sempre guardato, incapace, proprio come Ade, di accettare la maestosa bellezza dei propri possedimenti. Se ne fosse stato in grado, se fosse riuscito ad andare al di là dell'apparenza, avrebbe scoperto una potenza inimmaginabile!

"Qualcosa ti turba, mio dolce compagno?!" –Una voce femminile lo rubò ai suoi pensieri, portandolo a voltarsi verso l'ingresso della grotta ove era appena giunto.

Adorava vederla così, nella sua forma originaria, e non con quelle bizzarre gambe umane che dovevano sfoderare ogni volta in cui erano costretti a mettere la testa fuori dall'acqua. Costretti, sì, perché sia Forco che la sua amata non ne avrebbero di certo sentito la necessità, preferendo vivere e morire là sotto, nelle oscure profondità dove il sole mai era giunto

"L'assalto ad Atlantide non è andato come credevo! Cariddi è caduto e Nettuno ha recuperato l'oricalco! Ho fallito!"

"Non dire così! Sono certo che lui capirà! Del resto non è sulla terra che si manifesta il tuo vero potere! Il nostro vero potere!" –Gli sorrise la sua sposa, avvolgendosi sinuosa al suo corpo, che aveva nel frattempo recuperato le sue reali fattezze.

Facendosi strada nelle nere acque, la coppia raggiunse il centro della grotta, fuoriuscendo in un'insenatura nascosta illuminata dalla fioca luce di alcune conchiglie particolari. Là sotto giaceva tutto quello di cui avevano bisogno, nient'altro, purché fossero stati insieme. Questo Forco lo sapeva, eppure, come Nettuno e gli altri Dei che avevano avuto l'ardire di definirsi Signori degli Oceani, anch'egli provava desideri, anch'egli covava ambizioni imperiali.

La compagna glielo lesse nel volto e sorrise, carezzandogli la pelle squamosa.

"Come dicevo, non dovresti preoccuparti! Avremo presto un'altra occasione per sbarazzarci di Nettuno! Del resto, cosa può fare da solo quel misero reuccio? Egli non ha più un esercito che lo difenda! Mentre noi..." –Ridacchiò, solleticandogli il mento e costringendolo poi a guardare avanti.

Anche nella poca luce, Forco li vide.

I guerrieri che la sua sposa e lui avevano addestrato, preparandoli a quel momento, al momento in cui le acque sarebbero tornate ad avere vitale importanza negli equilibri di potere del mondo. Per questo li avevano scelti, per combattere per loro. Non per altri.

L'antico Re dei Mari sogghignò, mentre i servitori a lui fedeli si inginocchiarono per rendergli omaggio. In fondo, i Forcidi non erano mai stati di grandi parole.

***

Zeus era visibilmente soddisfatto. Nettuno si era dimostrato degno della sua fiducia, riuscendo non soltanto a recuperare l’oricalco, ma anche a sconfiggere un pericoloso avversario, riappacificandosi con il ricettacolo umano della cui famiglia da tempi immemori si serviva. Il Signore dell’Olimpo non aveva mai avuto preoccupazioni simili, non avendo mai trasferito la sua divina coscienza nel corpo di un mortale, né essendo mai stato colto da un simile pensiero. A differenza di Nettuno, di Ade o di altri Dei, Zeus aveva sempre preferito agire di persona, mettendo in gioco ogni volta se stesso, sebbene, e di questo ne era sempre stato consapevole, ben pochi pericoli potessero minacciare la sua sopravvivenza. Forse solo uno.

E quell’uno era infine arrivato.

"Mio Signore?!" –La voce calma di Ermes lo rubò a nefasti pensieri, portandolo a concentrarsi sui prossimi passi. –"Il giacimento di oricalco è intatto e pronto per essere lavorato da Efesto! Nettuno garantisce che sia ben fornito!"

"Molto bene! Ermes, portane subito grandi quantità in Sicilia e dì a mio figlio che scaldi le fornaci! Fatti aiutare da Euro, è giovane e veloce, oltre che molto riservato! Nessuno deve sapere cosa stiamo progettando! Gli occhi dell’ombra possono arrivare ovunque!"

"Al riguardo, mio Re… mi permetto di farvi notare che neppure io ne sono al corrente!" –Commentò il Messaggero Olimpico, suscitando la divertita reazione del Signore degli Dei.

"Non è chiaro, forse, mio vecchio amico? Efesto finalmente forgerà nuove armature!"

"E per chi? L’esercito dei Cavalieri Celesti è stato praticamente annientato durante la scalata all’Olimpo! Solo Nikolaos e Ganimede restano delle antiche legioni! E Shen Gado, sebbene lo abbiate di fatto ceduto a Selene!"

"Non a loro sono destinate queste nuove corazze, sebbene anche le loro vesti meritino di essere riparate e solidificate! Ma ai Cavalieri della Speranza! Della nostra speranza!" –Chiarì Zeus, di fronte allo sguardo ammirato del Messaggero. –"Pegasus, Dragone, Cristal, Andromeda, Phoenix! Solo loro possono salvare questo mondo dall’ultima ombra! Di questo siamo tutti consapevoli, sull’Olimpo e ad Avalon! Per questo il Signore dell’Isola Sacra ha messo a disposizione gli ultimi frammenti di mithril in suo possesso, residui di un meteorite schiantatosi in Asia quasi cent’anni fa. Per questo ho chiesto a Nettuno di recuperare l’oricalco. Adesso, assieme alle conoscenze di Efesto, disponiamo di tutti gli strumenti decisivi per creare le più resistenti Vesti Divine mai forgiate prima!"

"Divine, mio Signore?!" –Balbettò Ermes, comprendendo quel che quella frase sottintendeva.

"Prepara i polsi, mio buon amico! Dovrai tagliarli a breve!" –Sorrise il Dio Olimpico, prima di incitare il Messaggero ad adempiere alla sua missione.

Allontanatosi Ermes, Zeus rimase a pensare. Aveva già deciso gli abbinamenti, sulla base dei poteri e dei caratteri di ognuno, uomini e Dei, pur tuttavia non aveva ancora informato nessuno. Da Ermes e Demetra non si aspettava rimostranze, neppure da Era, in fondo. Ma con Nettuno avrebbe dovuto scambiare qualche parola in più, qualora avesse avuto da ridire.

"Vuoi dunque andare a fondo con il tuo progetto, possente Zeus?" –La vellutata voce della sua sposa lo raggiunse poco dopo, mentre Era compariva in cima alla scalinata, mettendosi a sedere tra le sue gambe.

"Ciò è necessario, mia amata. Spero tu lo capisca!"

La Regina degli Dei annuì silenziosa, ma Zeus percepì comunque il suo disagio. La sollevò da terra, mettendola a sedere sulle sue gambe e le chiese infine che cosa la turbasse, oltre all’ombra della fine di tutto che stava allungandosi ormai su di loro.

"La colpa, mio Signore. Le colpe di cui un tempo anch'io mi sono macchiata, mettendomi sullo stesso livello degli sporchi umani che ho a lungo disprezzato."

"Umpf... Un errore che abbiamo commesso tutti, a quanto pare!" –Ironizzò il Nume supremo.

"Ma alle mie colpe non ho potuto fare ammenda, e tu lo sai! Sai a cosa mi riferisco! Ti ho udito quest'oggi, conversare con tuo fratello nel giardino della reggia. E ho sentito cosa ti ha chiesto. Del resto chiunque al suo posto avrebbe desiderato di averlo adesso a fianco!"

"La strada di mio figlio tu non l'hai scelta! Lui solo, con le sue azioni, a volte stravaganti, l'ha segnata!" –Precisò Zeus, alzandosi in piedi e scansando la compagna.

"No, ma l'ho spesso ostacolata! Ricordi Tirinto, mio Signore? Era splendida come nel Mondo Antico. Eppure io..."

"Basta così, Era! Questa tardiva ammissione di responsabilità non è utile alla nostra causa. Lo apprezzo, e sono certo che anch'egli apprezzerebbe. Ma ti prego di rimanere concentrata su quanto dobbiamo fare. Gli sforzi cui siamo chiamati adesso sono gravosi, persino per gli Dei."

"Dunque è vero..." –Si intromise allora una terza voce, interrompendo il dialogo tra la coppia.

Zeus si voltò verso l'ingresso del salone, laddove l'alta sagoma di un uomo dalla barba grigia e dai folti capelli segnati dal tempo era appena apparsa, una mano intenta a reggere un tridente di scaglie d'oro, lo stesso che la sua reincarnazione aveva affondato ore addietro nella schiena di Forco.

"Nettuno..." –Mormorò il Nume del Fulmine, conscio che adesso non avrebbe più potuto evitare quella conversazione.

"Allora tu sai cosa gli è accaduto, in quale limbo dimori adesso? Deve essere un limbo piuttosto intricato se non è in grado di uscirne per prestare aiuto al suo divino padre!" –Esclamò il Signore dei Mari, mentre Zeus e Era iniziavano a scendere lungo la scalinata. –"Se non ricordo male, neppure Ade voleva saperne di tenerlo all'Inferno con sé! E Cerbero latrava sempre in sua presenza!" –Rise infine, ma dalle espressioni sui volti della coppia capì che la situazione fosse ben più complessa.

"Vieni con me! Ti mostrerò dove riposa adesso il Protettore degli Uomini!" –Parlò Zeus con voce calma, incamminandosi verso il giardino sul retro, seguito dalla moglie e dal fratello. Non ebbero da fare molta strada, solo portarsi ad un livello inferiore, addentrandosi tra alberi così fitti che nessuno, se non i regnanti dell'Olimpo, aveva mai violato. Fino ad allora.

"Non conosco questa parte del tuo regno, Zeus! Dove mi stai conducendo?"

"Alla cripta." –Rispose marmoreo il fratello.

E quando vi giunsero Nettuno comprese.

Di fronte a loro, nascosto tra antichi alberi mai caduti, rimasti inviolati alle guerre che avevano sconvolto la Terra e l'Olimpo, un mausoleo era stato scavato su un fianco del Monte Sacro, incassato all'interno dello stesso, per essere preservato in eterno. Là dentro, come Zeus ebbe modo di spiegare quando ne varcarono la soglia, riposavano guerrieri che avevano combattuto per la libertà e per gli uomini, rendendo il Signore del Fulmine fiero della loro stessa esistenza.

Nettuno trattenne il fiato di fronte a quella rivelazione.

"Incredibile!" –Mormorò, sfiorando i muscoli del Dio che aveva sudato e vinto l'ingresso al Monte Olimpo con le proprie imprese. –"Sembra... vero! Scolpito nella pietra a sua diretta somiglianza!"

"Non sembra. È!" –Precisò Zeus, sorprendendo ulteriormente il fratello. –"Le statue che vedi, e che potrebbero ornare una reggia divina tanto sono eleganti e curate nei dettagli, altro non sono che mio figlio e dodici dei suoi migliori combattenti, quelli che lui stesso scelse nella Legione dei Migliori!"

"La Legione...?! Eracle?! È stato questo il destino del figlio che procreasti con Alcmena?!" –Commentò triste Nettuno, osservando il fisico possente del Protettore degli Uomini e le posture fiere dei guerrieri che lo accompagnavano, ancora rivestiti delle loro gloriose corazze.

"Il destino o chi contro di lui ha cospirato…" –Parlò allora Era per la prima volta, raccontando degli scontri da lei stessa sostenuti contro Eracle secoli addietro, scontri che avevano trovato drastica fine, obbligando il difensore di Tirinto ad una scelta finale. –"La morte o la fine del tempo. Così eccolo qua, il prode Eracle e i suoi Heroes!"

"E dormiranno in eterno, nel silenzio del loro mondo di pietra, finché sangue divino non li risvegli! Ma, capisci bene, fratello mio, che per ridare la vita a tutti e tredici ci vorrebbero almeno tredici Divinità, e si ritroverebbero tutte molto deboli al termine del rito! Non solo noi non siamo più così tanti, ma non abbiamo neanche energie a disposizione per questo, già dovendo occuparci di altro con il nostro Ichor!" –Sospirò Zeus, dando le spalle alle tredici statue. –"Pazienza! In fondo Eracle ha già sofferto troppi patimenti in nome dell'Olimpo, gli eviterò almeno di combattere un'altra guerra. Per quanto, lo ammetto e sono sciocco nel pensarlo, avrei davvero desiderato abbracciarlo un'ultima volta, prima della fine!"

Nettuno, a quelle parole, lo rincuorò, uscendo assieme al fratello dalla cripta. Solo Era rimase indietro qualche istante di più, soffermandosi sul volto del figlio bastardo di Zeus che a lungo aveva tormentato i suoi sogni e chiedendosi se il rito che lo aveva tolto dal tempo era stata davvero una buona idea o se invece adesso non avrebbero tutti avuto di che pentirsene.

***

"Sei uno stupido! Siete due stupidi!!!"

La collera di Nyx travolse Polemos e Chimera, scaraventandoli indietro, fino a farli schiantare contro un muro del Primo Tempio, inchiodandoceli, gli arti trafitti da lunghi artigli di tenebra.

"As… Aspettate mia Signora! Ascoltateci!"

"Cosa dovrei udire? I vostri piagnistei?! O le vostre patetiche scuse?! Di entrambi faccio volentieri a meno! Per colpa vostra, della vostra ridicola intraprendenza, il Santuario delle Origini è stato violato, i Cavalieri delle Stelle sono stati liberati e parte del nostro esercito è stato annientato, prima ancora del suo ritorno! Un smacco imprevisto e oltraggioso per le nasciture potenze del mondo!"

"Chiediamo perdono… ma non potevamo sapere che gli Dei Egizi ci avrebbero mosso guerra in nostra assenza! Quell’Amon Ra è stato per secoli rinchiuso fuori dal mondo, nessuno avrebbe creduto che provasse affetto per un figlio bastardo!" –Esclamò Polemos, cercando di convincere la Dea della Notte della loro buona fede. –"Inoltre il tempio non era sguarnito! C’erano le Astrazioni, si stavano già risvegliando quando siamo partiti! Avrebbero potuto combattere!!!"

"Umpf… buoni quelli!" –Ironizzò Chimera, tentando di liberarsi dagli unghioni d’ombra. –"Mai che muovano un dito, mai che intervengano per guadagnarsi da vivere! Che razza di guerrieri sono?"

"Questo è vero!" –Concordò Nyx, volgendo lo sguardo verso un gruppetto di Divinità che si nascondevano dietro le colonne del tenebroso salone. –"Oizys! Momo! Apate, e voialtri! Cosa avete da dire a vostra discolpa?"

Inizialmente nessuno rispose, poi un uomo basso e con sparuti capelli venne spinto avanti, lamentando la sgarbatezza dei compagni.

"Mia Signora, avete ragione, ma cosa avremmo dovuto fare? Siamo vecchie e stanche Divinità! Geras, pace allo spirito suo, avrebbe potuto invecchiarli di colpo, ma quelle furie avrebbero combattuto anche con il bastone! E io, io cosa avrei potuto fare? Sono così piccolo che quasi mi calpestano, mi avrebbero deriso se li avessi affrontato!"

"Piccolo abbastanza per passare inosservato, non è vero, lurido vigliacco?!" –Avvampò Nyx nel suo cosmo oscuro, avvolgendo Momo in una spirale di ombre. –"Cosa ho fatto di male per meritare una simile inutile progenie?! Eris, almeno, ha partorito dei veri guerrieri non dei balocchi!" –Scosse la testa, mentre le tenebre da lei evocate si cibavano della personificazione del Biasimo, scavando fino alle viscere e nutrendosi della sua essenza vitale, fino a lasciare a terra soltanto una massa di pelle, ossa e luridi stracci.

"Che orrore!!! Iiihhh!!!" –Gridò una voce stridula, proveniente dal mucchietto di impaurite Divinità.

"Vuoi essere il prossimo, Oizys? Allora chiudi quella maledetta bocca! L’unica mia vera sventura è quella di avervi concepito!" –Commentò la Dea ancestrale, prima che una placida figura priva di vesti e di capelli, fluttuando nell’aria, si portasse di fronte a lei, chiedendo ascolto.

"Siete ingiusta, Madre Notte!"

"Moros! Persino tu remi contro di me?"

"Affatto! Tengo solo fede al mio nome, ed ugualmente hanno fatto Geras e gli altri! Cosa vi aspettavate, in fondo, da obliate Divinità che hanno rinunciato a combattere nel momento in cui sono venute al mondo? Non lo ricordate, mia Signora? Eppure siete voi ad averle generate, voi che le mandaste tra gli uomini per acuire le loro debolezze! Le Astrazioni non sono guerrieri, bensì la personificazione di sentimenti, vizi e virtù tipici dell’animo umano! Come avrebbe potuto un vecchietto col bastone, come Geras, combattere? O Oizys, quella sventurata creatura deforme, ingaggiare guerra contro il Falco dalle ali argentee? Algea ci ha provato e ne ha ottenuto solo un’infinita e infuocata pena! Ognuno fa ciò per cui è nato, ma noi non siamo nati per guerreggiare!"

"Almeno tu avresti potuto fare qualcosa! Le forze non ti mancano, dato che le sprechi in inutili sproloqui!" –Ringhiò Nyx, afferrando il figlio per il collo e sbattendolo a terra, senza che questi muovesse ciglia, come se neppure la prospettiva di morte lo turbasse.

"Avrei potuto, certamente, ma non l’ho fatto. Non faccio mai niente io, perché tutto in fondo è già stato scritto! Gli eventi seguiranno il loro corso, qualunque cosa noi decidiamo di fare o meno, alla fine dei tempi tutti moriremo. A che giova allora combattere? È inutile. A che pro difendersi? Tutto è vano, tutto è fatidico. Questo è il destino ineluttabile! Volete sapere il vostro, mia Signora?"

"L’unico destino che conosco è quello in cui gli Dei ancestrali domineranno il mondo! E tu, indovino porta scalogna, non ne farai parte!" –Sentenziò, spaccandogli il cranio con un secco colpo di mano.

Di fronte a quella violenza, nessuno degli altri Dei disse alcunché. Persino Polemos e Chimera smisero di dimenarsi, nonostante le ferite agli arti, consapevoli che almeno su una cosa Moros aveva ragione. Sarebbero tutti morti, a cominciare da loro due.

"Bah!" –Commentò infine la Notte, schioccando le dita e facendo scomparire i lunghi artigli di tenebra che li tenevano prigionieri. –"Sarebbe un vero spreco far fuori due validi combattenti! Inoltre, devo ammettere che, senza la vostra ingerenza, non avremmo avuto ciò di cui avevamo bisogno!"

"Per questo siamo intervenuti, mia Signora! Sapevamo che i figli di Eris avrebbero fallito!" –Esclamò Polemos, affannando nel rimettersi in piedi. –"Senza di noi la missione nello Jamir non avrebbe avuto successo!"

"Questo vi va riconosciuto!" –Sibilò Nyx, spostando lo sguardo verso un angolo dello stanzone, dove, guardato a vista da un gruppo di guerrieri armati, giaceva inerme e nuda una donna dai lisci capelli viola e dalle sopracciglia rasate in modo da formare due pallini simili a nei. Aveva la schiena in fiamme, per le frustate subite, frustate che l’allievo di Polemos si era divertito a infliggerle con la coda, prima che la Notte interrompesse il suo divertimento. –"Devo ammetterlo, Polemos! Hai avuto più successo tu, con una rapida e mirata incursione, che non Ares e Discordia e tutto l’esercito che si sono portati dietro sulla Luna! Forse vali davvero qualcosa! Ih ih ih!" –Ridacchiò l’ancestrale Dea, avvicinandosi al Demone della Guerra, inginocchiato di fronte a lei.

Polemos non disse alcunché, ma Chimera, che non resistette alla tentazione di spostare lo sguardo, riuscì a contare le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, temendo che l’atroce entità lo sgozzasse da un momento all’altro.

"Bene, pare che tu abbia ottenuto quel che volevi, non è così?" –Gli disse infine, scarmigliandogli i lunghi capelli rosa. –"Signori! Un attimo di attenzione, prego!" –Strillò, obbligando tutti i presenti a voltarsi verso di lei. –"Ho il piacere di presentarvi il nuovo Lord Comandante delle Armate delle Tenebre! Sarà lui a curare la vostra dislocazione in campo, a lui dovrete obbedire! I miei complimenti, dunque!"

Polemos esitò un momento, poi si mise in piedi, mentre Chimera e altri guerrieri alle loro spalle applaudivano, gridando a gran voce il suo nome.

"È una cerimonia misera, lo ammetto! Forse avresti preferito aspettare che fosse lui a conferirti l’incarico? Per dargli una maggiore ufficialità?"

"Lu… Lui?!" –Balbettò infine Polemos, mentre Chimera al suo fianco deglutì.

"Naturalmente! Sta venendo qui! Il varco tra i mondi ormai è aperto!" –Chiosò Nyx, abbandonandosi a una risata soddisfatta.