CAPITOLO QUARTO: LA SCACCHIERA E’ PRONTA.

La reggia di Zeus era deserta, ben pochi vi dimoravano più.

Morti i Cavalieri Celesti, nella guerra scatenata da Flegias, massacrati gli Dei e le loro certezze di immortalità, sgozzati i satiri, le ninfe e gli abitanti del Monte Sacro, restavano soltanto Zeus e la sua sposa, e una cerchia ristretta di fedelissimi. Ciononostante, da una settimana il Cronide pareva aver riacquistato una parte della superba vitalità tipica dei giorni in cui il mondo era giovane ed egli si era appena assiso sull’olimpico trono. Ed era la presenza di un’altra Divinità, da lui ridestata, ad aver contribuito al miglioramento del suo umore.

"Nettuno, fratello mio, sono lieto di constatare che hai recuperato del tutto le forze, lo percepisco dalla freschezza del tuo cosmo, simile a mareggiata che si solleva impetuosa nel breve arco di un istante!" –Esclamò il Tonante, entrando nelle stanze riservate al mitologico fratello e congedando Ganimede e le ancelle, che lo avevano assistito durante la convalescenza.

"Mi sento meglio, dici il vero, Zeus. E non ho bisogno di un consulto di Asclepio per comprendere che è a te che devo il mio repentino recupero!" –Disse l’Imperatore dei Mari, alzandosi dal letto in cui aveva riposato negli ultimi giorni, dopo che Ascanio e Nikolaos avevano risvegliato il suo vero corpo da un sonno durato secoli. –"Sento la folgore palpitare dentro di me, una sensazione elettrizzante, lo ammetto, dovuta all’Ichor di cui ti sei privato per farmene dono. Un gesto gentile, che non dimenticherò, puoi esserne certo!"

"Una cortesia tra fratelli, chiamiamola così, resasi necessaria dalle circostanze." –Si affrettò a chiudere il discorso Zeus, mentre entrambi si incamminavano fuori dalla reggia, per passeggiare nel sempreverde giardino attorno.

"Tra fratelli che non si vedevano da secoli e che, perdonami se puntualizzo, non sono mai stati in così affiatati rapporti. Cos’altro vuoi condividere con me?" –Domandò Nettuno, sornione, e poi, notando che il fratello non accennava a rispondergli, riprese a parlare. –"Apprezzo il tentativo, Zeus, ma non sono in vendita. Per cui adesso parla, cosa vuoi realmente? La mia forza, ciò è indubbio, ma non credo di poterti offrire altro, non avendo un’armata da far combattere. Tutti i miei generali in quest’epoca sono già morti e passeranno anni prima che la mia divina volontà possa riunirne altri. Non posso aumentare le file delle tue sparute legioni!"

"Questo no. Però puoi fortificarle." –Confessò infine Zeus, fermandosi al centro del giardino fiorito.

"Come?!" –Esclamò Nettuno, stupito, prima che lo sguardo indagatore del Signore degli Dei scavasse nei recessi della sua anima, portandolo a ricordare. E a comprendere. –"Il giacimento di oricalco!"

"Non ho dimenticato, fratello, che Atlantide nascondeva la più grande riserva di oricalco del Mondo Antico, così ricca da generare l’invidia di molti. E proprio alle tue scorte attingemmo, per armare i nostri eserciti, quando i Titani minacciarono la terza stirpe cosmica! Ugualmente adesso, in vista della fine, debbo chiederti di potervi attingere ancora, un’ultima volta!"

"Non entro da secoli, forse millenni, nel giacimento di oricalco ma non vi è motivo di credere che sia stato violato, del resto nessuno, a parte noi due, era a conoscenza della sua ubicazione." –Rifletté Nettuno, annuendo con fare deciso. –"Le mie scorte sono a tua disposizione, Zeus Tonante, è il minimo che possa fare per ringraziarti di avermi risvegliato, anche se avrei preferito per un’occasione migliore!"

"Vorrei anch’io che vivessimo in tempi diversi…" –Mormorò Zeus, concedendosi un sospiro addolorato. –"Tempi che non rischiassero di concludersi a breve. Possono sembrare ironiche le mie parole, dette da un Dio che vive da millenni, ma vorrei davvero poter tornare indietro, a giorni più felici, per poter rivivere i fasti olimpici che a causa della mia debolezza sono scomparsi."

"Tetre parole le tue. Sei davvero così angosciato, Signore del Fulmine?"

"Vivo da secoli in quest’angoscia, forse da millenni, dalla fine della Titanomachia. Quando ci penso, quando ripenso alle sue parole, maledico me stesso per aver udito, per avergli tenuto la mano mentre moriva e aver appreso quel che sarebbe accaduto! È sciocco, lo so, è futile e umano ma a volte vorrei che Vasteras non mi avesse mai detto niente, vorrei non aver avuto un così previdente consigliere! Se fosse stato zitto, se fosse morto senza avvisarmi, avrei vissuto un’esistenza tranquilla, priva di angustie, invece l’ansia mi ha invaso, l’ansia della fine di tutte le cose, anche degli Dei. Ho cercato di scacciarla in ogni modo, viaggiando, girando il mondo, concedendomi a folli amori impossibili, che mi ricordassero di essere sempre giovane e maschio, e abbandonandomi a dissolutezze di ogni genere, celebrazioni e gozzoviglie. Tutto solo ed esclusivamente allo scopo di nascondere il fatto che la nostra ora sarebbe comunque giunta. E la fine del paradiso olimpico con essa."

"Paradiso olimpico?! Non è un controsenso per un regno che pace e serenità non ha mai visto se non nei sogni e nelle idilliache speranze degli uomini?" –Azzardò Nettuno, ricordando che gli Olimpi si sono fatti la guerra per secoli. –"Era contro Eracle, Ade contro Atena, io stesso contro Atena. E, da quel che mi hai detto, tuo figlio il bellicoso non ha ancora rinunciato ai suoi progetti imperiali!""

"Le ragioni di mio figlio sono indecifrabili anche se temo abbia ceduto all’ombra. È l’unica spiegazione plausibile per giustificare la sua ritrovata esistenza terrena. Per questo dobbiamo sbrigarci! Nettuno, ti chiedo di raggiungere Atlantide oggi stesso e recuperare le scorte di oricalco, di modo che mio figlio Efesto possa lavorarlo quanto prima!"

"Come comandi, Zeus Tonante!" –Concordò il sovrano dei silenti abissi, dando le spalle al fratello e incamminandosi verso la reggia.

Solo allora notò la delicata figura di Demetra, Dea delle Coltivazioni, a una ventina di metri di distanza, intenta a prendersi cura di una siepe di rose, una varietà particolare, dai petali color avorio, che era riuscita a far crescere sul Monte Sacro. Le sorrise, passando oltre e lasciandola ai suoi lavoretti. Anche Zeus rientrò nella reggia e la sorella rimase sola nel quieto giardino, quello stesso giardino che solo pochi mesi prima era stato devastato dalle vampe di Tifone, ma che il suo cosmo aveva curato, rinvigorendo il terreno e permettendo alla flora di rinascere.

Per Zeus, e probabilmente anche per gli altri Dei sopravvissuti, infondere così tanto tempo e risorse alla cura di un terreno che presto sarebbe tornato ad essere un campo di battaglia era solo uno spreco di energie preziose, che Demetra avrebbe fatto meglio a conservare, poiché se la grande ombra li avesse sommersi anche la sua luce avrebbe rischiato di spegnersi. Sospirando, la sorella di Zeus si incamminò nel roseto, per cogliere alcuni fiori e preparare un elegante mazzo che avrebbe portato a una coppia molto speciale. Una famiglia che viveva alle pendici del Monte Sacro e a cui la Dea del Grano e dell’Agricoltura molto doveva.

L’anziana coppia era costituita da Elena e Deucalione, i genitori del Luogotenente dell’Olimpo, che Demetra aveva avuto modo di conoscere, e di apprezzare, dopo la fine della Grande Guerra. In virtù dei meriti conquistati dal figlio, Zeus aveva persino invitato i due mortali a vivere a palazzo, ricevendo un cortese ma fermo rifiuto, preferendo essi continuare a vivere nell’intimità della loro dimora. Così, a ogni quarto di luna nuova, la Dea aveva preso l’abitudine di recarsi a fare loro visita, portando fiori e semi per le coltivazioni. Ma quando quel giorno arrivò al Bianco Cancello, limite estremo dei possedimenti olimpici, una strana sensazione la invase.

L’eccessiva quiete del bosco, il malinconico ricordo dei giorni in cui Bronte del Tuono occupava il valico, impedendo a qualunque estraneo di accedere al Monte Sacro, nonché i timori di Zeus per l’ultima guerra, rallentarono il suo passo, incutendole un insolito timore. Ma, più di ogni altra cosa, la atterrì l’odore di sangue che permeava l’aria. Acre, pungente, a tratti nauseabondo. Le venne sbattuto in faccia da un’improvvisa, quanto insolita, brezza, che le fece gelare il sangue. Soprattutto quando capì da dove proveniva.

Gettando a terra il bel mazzo di rose, Demetra iniziò a correre, lasciandosi il sentiero alle spalle e sfrecciando in mezzo agli alberi, giungendo in un lampo di fronte alla casetta di legno. La porta divelta, la cucina messa a soqquadro, schizzi di sangue sul muro. E i corpi massacrati di Elena e Deucalione sul pavimento, le mani e i piedi recisi dagli stanchi corpi e messi a bollire in un pentolone sul caminetto.

Di fronte a quell’orrore, Demetra vomitò.

Per quanto avesse visto passare tutte le ere del mondo, e le barbarie a cui spesso uomini e Dei si abbandonavano, quella violenza gratuita la scosse più di altre guerre passate, forse perché la toccava vicino. O forse perché adesso avrebbe dovuto trovare la forza di annunciare a Nikolaos la morte dei suoi genitori, morte che non era riuscita ad evitare.

A cosa giova essere una Dea, allora, se non possiamo proteggere i nostri cari? A cosa servono i nostri poteri se dobbiamo assistere impotenti a tutte queste stragi?

Non seppe rispondersi, prostrata a terra da un nuovo conato di dolore.

***

La prima cosa che Pegasus e Phoenix notarono entrando nel settimo anello del regno lunare furono le fiamme. Un’immensa distesa di vampe infuocate che pareva divorassero ogni cosa sul loro cammino. Quella che un tempo era stata una bella pianura fiorita, dove gli animali potevano correre in libertà, era stata fagocitata da una fiamma la cui impronta Pegasus ben conosceva.

"Aresss!!!" –Gridò. E la sua voce fece ondeggiare le vampe infernali, fino a rivelare una striscia di terra ancora intatta in cui il ragazzo e l’amico si lanciarono, giungendo infine al centro del Cerchio di Urano, in una radura ove il custode stava combattendo.

Shen Gado aveva parlato loro al riguardo ma Tecciztecatl si presentò ben più bizzarro di quanto lo avessero potuto immaginare. Era un uomo vecchio d’aspetto, dalla barba canuta e dalle folte ciglia bianche, così folte che gli coprivano parte degli occhi, e indossava un’armatura tanto coprente quanto originale, il cui simbolo era decisamente un coniglio. Riprova diedero loro l’elmo marrone, cui erano fissate due lunghe e affusolate orecchie, la coda corta e la copertura per i piedi, decisamente ben più grande di quelle solitamente in uso. Ma per quanto anziano, il guardiano del Cerchio di Urano pareva non essere privo di vigoria, tanto intento era a fronteggiare un gruppo di Phonoi da non essersi neppure accorto dell’arrivo dei due Cavalieri di Atena.

"Muori, vecchiaccio!" –Ringhiò un guerriero, mulinando un’ascia da guerra. Ma Tecciztecatl fu svelto a balzare a piedi uniti all’indietro, evitando al contempo anche l’affondo di una lancia.

"Vecchio sì, ma non stolto!" –Commentò calmo il Selenite di Urano, allungando una mano dietro la schiena e afferrando quello che a Pegasus parve il fondo di un pentolone ma che, guardando meglio, identificò come il guscio di un’enorme conchiglia. Tecciztecatl la impugnò come fosse uno scudo, parando con essa gli affondi delle armi nemiche, prima di travolgerne un paio con una sfera di energia.

I Phonoi rimasti si riunirono tra loro, puntando le lame verso il vecchio custode e tartassandolo con una sventagliata di attacchi energetici, impegnandolo sulla difensiva, fino a farlo crollare a terra per il contraccolpo. Pegasus e Phoenix decisero di intervenire in quel momento.

"Fulmine di Pegasus!!!" –Gridò il ragazzo, sfrecciando in mezzo al gruppo di nemici e massacrandone a decine con i suoi pugni lucenti. Quelli che furono svelti abbastanza per gettarsi di lato vennero raggiunti dalle piume infuocate della fenice, che maciullarono i loro volti, prima che Phoenix piombasse tra loro, scaraventandoli lontano con un solo battito d’ali.

"Oh meno male! Credevo avrei dovuto combattere ancora da solo! Non ho più il fiato per queste imprese!" –Borbottò Tecciztecatl, prima di guardare stranito i due nuovi arrivati. –"E voi chi siete? Credevo che Mani o Thot fossero giunti in mio soccorso!"

"Non da solo dovrai lottare, valoroso Tecciztecatl, ma al fianco dei Cavalieri di Atena, qua per prestarti aiuto, se ci concederai questo onore!" –Esclamò Pegasus, presentando se stesso e l’amico.

"Da quando morire in guerra è un onore, ragazzo?!" –Bofonchiò il Selenite di Urano, salvo poi ringraziare entrambi per il loro intervento. –"Sarei voluto correre a difendere la breccia nel Settimo Cerchio che questi dannati han creato, ma le fiamme che mi circondano mi intimoriscono. Ho una paura dannata del fuoco, ragazzo, una fobia che mi perseguita da secoli."

"Paura del fuoco?! Quale eresia!" –Ringhiò allora una quarta voce, risuonando feroce per tutto il cerchio e scuotendo le vampe fino in profondità. –"Pirofobia significa paura della vita! Perché il fuoco è la fiamma dell’esistenza, l’olio che apre i cancelli della vittoria! Della mia vittoria! Ahr ahr ahr!"

"Umpf… mostrati, canaglia, e vediamo di regolare i nostri conti una volta per tutte!" –Ironizzò Pegasus, strusciandosi il naso divertito, mentre Phoenix, al suo fianco, muoveva lo sguardo sull’oceano di fiamme attorno a loro, cercando di individuare la provenienza di quella voce che entrambi ben conoscevano.

"E sia! Fiat fŏcus!" –Commentò il creatore delle vampe di fuoco, mentre queste si allargavano di lato, mostrando l’avvicinarsi di un carro da guerra, che proveniva dall’ormai distrutto Cerchio di Nettuno. Seduti in bella mostra, sul pianale anteriore del carro, un uomo e una donna dai perfidi sguardi sorridevano estasiati, inebriandosi dell’aria di lotta armata che permeava il suolo lunare.

"Ci rivediamo, Cavaliere di Pegasus! E a quanto vedo sei ancora il solito bamboccio impertinente! Il tempo non ti ha fatto maturare se ancora non hai capito quanto vano sia il tuo claudicante agire!" –Esclamò Ares, Dio della Guerra, alzandosi in piedi sul carro e fissando gli avversari dall’alto, con disprezzo e superiorità.

Il suo aspetto fisico era lo stesso di mesi addietro, quando si erano scontrati ai Templi dell’Ira, il volto da bello e bastardo, un filo di barba incolta, ma la scarlatta Veste Divina era immacolata, priva di graffi, tirata a lucido per l’ultima guerra. Nella mano destra stringeva una lunga lancia avvolta dalle fiamme, simile a quelle degli antichi opliti, la cui punta gocciolava ancora del fresco sangue di cui si era imbevuta.

"Non posso dire di esserne felice, Ares!" –Ironizzò Pegasus. –"Ma farò buon viso a cattiva sorte. Cos’altro potrei fare? A parte, si intende, riempirti di botte!" –Non aggiunse altro e scattò avanti a pugno teso, liberando migliaia di comete di energia.

"Al tuo posto!" –Ringhiò il Nume, muovendo con rapidità la lancia in un’infinita serie di affondi, ciascuno perfettamente mirato a distruggere ogni singola sfera energetica, vanificando l’intero assalto di Pegasus. –"Dòru àimatos!" –Latrò, mirando a una coscia del Cavaliere, che fu svelto a gettarsi di lato, piombando nell’oceano di fiamme ma riuscendo a evitare la lama.

"Ragazzo!!!" –Gridò Tecciztecatl, vedendo le vampe rossastre chiudersi su Pegasus, come petali di un fiore, e temendo per lui. Scambiò una rapida occhiata con Phoenix prima che entrambi si lanciassero avanti.

"Ce n’è anche per te, stai tranquillo, vecchio!" –Tuonò Ares, volgendo lo sguardo su di loro e scagliandoli indietro, ben oltre il limitare del cerchio di fiamme, tra i cadaveri dei Phonoi ormai divorati dalle vampe scarlatte.


"Aaahhh!!!" –Urlo il Selenite di Urano, travolto da un improvviso e fecondo terrore. Pareva che ovunque si girasse lingue di fuoco lo avvolgessero, insinuandosi negli spazi liberi della sua corazza e divorandogli il corpo. D’un tratto, Tecciztecatl vide se stesso ossuto e rachitico camminare in un oceano di magma, il volto scavato dalle gocce di lava che gli cadevano dagli occhi, la bocca vomitante sangue e fiamme. Disperato, si portò le mani alla testa, strappandosi l’elmo, spezzando le orecchie di coniglio e iniziando a darsi colpi sul capo, per cancellare quelle visioni, per spazzar via quel presente di vecchiaia, dolore e morte in cui era precipitato, così lontano dai fasti cui pareva essere destinato quando era giovane. Quando il mondo era giovane.

"Sarei potuto essere il Dio del Sole…" –Mormorò, ricordando la giovinezza nelle terre che in seguito sarebbero state chiamate America. –"Se non avessi avuto paura del fuoco. E invece divenni Signore della Luna e Nanauatzin, più umile e coraggioso, prese il posto che avrei potuto ottenere, sacrificandosi nelle fiamme per continuare a brillare per il mondo e per gli uomini."

"Non… cedere ai ricordi…" –Disse infine una voce, spezzando le visioni del custode del Cerchio di Urano. –"Non dargliela vinta, a quel bastardo di Ares!" –Aggiunse, permettendo a Tecciztecatl di riconoscere il giovane Pegasus, anch’egli intento a lottare con le vampe infuocate. –"Sei vittima del suo colpo segreto, le Onde di Terrore, con cui fa emergere le paure nascoste nell’animo di ognuno. Trova la forza di fronteggiarle, non farti divorare dall’amarezza di ciò che fu!"

"Hai… ragione… ragazzo! Tecciztecatl non sarà vinto da un rimpianto!" –Riconobbe infine il Selenite di Urano, bruciando il proprio cosmo, sempre di più, ricordando la magnificenza di un tempo, i regali preziosi e il corallo che gli uomini gli offrivano, l’inebriante sensazione di essere un Dio. –"Per il sole e la luna, se hai ragione! Grazie, figliolo!"

"In fondo, sono solo trucchi da cartomante!" –Ironizzò Pegasus, che nel frattempo si era rimesso in piedi.

"Oh, davvero?!" –Ghignò Ares, balzando con un’agilità improvvisa nello spiazzo, proprio in mezzo a Pegasus, Phoenix e Tecciztecatl. Impugnando la lancia al centro, la mosse a spazzare, colpendo il Cavaliere della Fenice tra collo e spalla, sbattendolo a terra, quindi, roteando l’asta vorticosamente, si preparò a parare la tempesta di pugni che Pegasus aveva già scatenato.

Uno dopo l’altro i suoi colpi si spensero sull’arma di Ares e alcuni gli vennero persino rimandati indietro, obbligando il ragazzo a balzare di lato. Ma quando vide il Dio impugnare di nuovo saldamente la Lancia di Sangue, Pegasus sollevò le difese, concentrando i sensi per parare l’affondo. In un attimo Ares prese la mira e colpì.

Pegasus non riuscì neppure a gridare, tanto rapido e sorprendente era stato quell’attacco. Poté solo osservare il corpo ferito di Tecciztecatl accasciarsi a terra, con uno squarcio sul ventre, laddove la Dòru àimatos lo aveva trapassato, dopo un’ultima veloce rotazione.

"Bastardooo!!!" –Gridò Pegasus, scattando avanti e lasciando esplodere il suo cosmo.

Phoenix, che intanto si era rimesso in piedi, corse ad affiancare l’amico ma un tridente si conficcò proprio di fronte a lui, esplodendo e scagliandolo indietro.

"Non ti sarai dimenticato di me, bel giovane?!" –Rise sguaiata una donna dai crespi capelli blu. –"Sarebbe scortese non dedicare le giuste attenzioni a una signora, soprattutto se è di carattere pretenzioso come lo sono io! Ah ah ah!"

Il Cavaliere della Fenice strinse i denti, preparandosi al periglioso scontro con un secondo demone del loro passato recente. Discordia, Dea della Contesa e Madre dei Mali, pareva non attendere altro.

***

Che Andromeda fosse inquieto era evidente.

Il suo sguardo guizzava dalla grande vetrata esterna, su cui balenavano vampe e folgori di scontri lontani, alla Dea che doveva proteggere, la fanciulla dai capelli viola inginocchiata a mani giunte al centro dell’Occhio, immersa nella sua preghiera fin da quando Pegasus e gli altri avevano abbandonato la reggia di Selene.

Per dare loro forza. Per essere le ali in grado di tenerli in piedi quando le gambe non li reggeranno più. Così Atena aveva motivato la sua scelta, quando la Dea della Luna le aveva chiesto se non preferisse una più comoda sistemazione. Ho sopportato ben altro che il marmo di un pavimento. Aggiunse, riferendosi alle rigide temperature di Asgard o ai flutti oceanici che l’avevano quasi affogata nella Colonna Portante. E come lei avevano fatto i suoi Cavalieri, di cui Andromeda faceva parte, anche se per tanto tempo si era sentito scomodo in quei panni.

Lei lo capiva, voleva essere là fuori, a dare la vita per il fratello e i suoi compagni. E non a fare da balia a una Dea che pareva non essere mai in grado di difendersi.

"Va’!" –Si limitò a dirgli Lady Isabel, non appena il ragazzo le si avvicinò, per verificare che non fosse troppo stanca.

Andromeda la fissò con sguardo incuriosito, prima che Atena gli rinnovasse l’invito ad andare. –"Saprò difendermi!" –Aggiunse, rivelando un oggetto nascosto sotto la lunga veste bianca. Qualcosa di cui neppure Pegasus era a conoscenza.

Il Cavaliere annuì, ringraziando la Dea e porgendo i propri saluti a Selene che, circondata da una decina di figlie, sedeva sconsolata al tavolo rotondo, interrogandosi sul futuro del suo reame. Quindi corse via nei corridoi del santuario, scendendo al piano inferiore e cercando la via che conduceva al Primo Cerchio. Fu proprio prima di uscire dalla reggia che lo sentì, un odore particolarmente acuto.

Un odore di salvia bruciata.

Storcendo il naso, stranito, Andromeda mosse qualche passo verso un salone laterale, da cui l’aroma pareva provenire. Il portone di accesso era quasi del tutto accostato, soltanto uno spiraglio permise al Cavaliere di cogliere le voci dall’interno, pur non riuscendo a vedere in faccia coloro che stavano parlando, due uomini sicuramente. Per quanto fossero vicini, pochi passi, non di più, Andromeda faticava nell’udire quel che stessero dicendo.

"La situazione è ben più preoccupante di quanto abbia lasciato trasparire durante il consiglio. Mai avrei immaginato che avrebbero mosso guerra al reame della Luna Splendente! Di tutti i regni divini, ero certo che questo sarebbe stato l’unico a rimanere completamente al sicuro. Non credevo neppure fossero a conoscenza della sua esistenza!" –Esclamò la prima voce.

"Ne eravamo tutti convinti, non devi crucciarti. È un errore che l’intera gilda ha commesso, persino io che a lungo in quest’Eldorado ho dimorato." –Rispose un secondo uomo.

"Non è soltanto il regno di Selene ad essere sotto attacco." –Riprese allora la voce, stupendo il suo interlocutore. –"Si stanno risvegliando, Asterios! Come il cosmo dei Titani e del loro signore Crono ridestò creature nel mito a loro fedeli, ugualmente il suo ritorno sta richiamando in vita la sua oscura progenie. Bestie immonde minacciano l’equilibrio del mondo e presto cingeranno d’assedio altri regni divini, per fame, spirito bellico o vendetta! Non abbiamo le forze per difenderli tutti!"

"Dobbiamo intervenire all'istante allora, estirpando la mala erba prima che cresca!" –Incalzò l’altro, venendo subito rassicurato dal compagno.

"Ho già dato mandato a un nostro comune amico di occuparsene! Del resto, nessuno più di lui è desideroso di scendere in guerra!"

"Quello che non capisco è come abbiano potuto scoprire l’ubicazione del talismano, perché è chiaro che sono qua per questo! Solamente noi quattro sapevamo dove era nascosto e siamo stati più che attenti a rivelarlo ad altri!"

"A ben pensarci…" –Mormorò il primo uomo. –"Eravamo in cinque a saperlo."

"Cinque?! Ma Anhar non ha mai saputo niente di ciò!"

"Non mi riferivo a lui, ma al mio mentore." –E, non appena ebbe pronunciato quella frase, Avalon capì. –"Lo ha appreso da lui!!! Dai suoi ricordi, dalla sua coscienza prigioniera dell’ombra che lo aveva invaso sulla cima dell’Isola Sacra! Ecco perché Anhar mi ha attaccato giorni fa! Non voleva uccidermi, no! Voleva soltanto le memorie del Primo Saggio, succhiargliele fino all’ultima stilla di linfa vitale! E così facendo, oltre ad aver ghermito la sua vita, ha appreso anche quel che Tegel sapeva! La vera natura dei Talismani!"

"Quel farabutto!!!" –Ringhiò il suo interlocutore. –"Ora capisco gli istinti omicidi di Andrei… Anch’io vorrei averlo tra le mani per…" –Ma nel vedere lo sguardo rattristato del compagno, Asterios addolcì il dono della voce, prendendogli le mani e obbligandolo a guardarlo negli occhi. –"Mi dispiace per il tuo mentore, era un brav’uomo, ci ha addestrato e preparato per molti anni al secondo avvento. Rimpiango la sua tragica fine."

"Non farlo! La sua missione è compiuta. Egli adesso è con il talismano, egli è il talismano, e gli darà sempiterna forza!" –Concluse Avalon, mentre una lacrima gli colava giù dagli occhi argentei. Quindi si voltò verso il portone, spalancandolo con la sola forza del pensiero e spingendo Andromeda a balzare indietro di scatto, per non essere investito in pieno.

"I tuoi sensi sono acuti, Cavaliere, se sei riuscito a percepire la nostra presenza in questa sala, nonostante avessi avvolto i nostri corpi in una nebbia atta a celarli, e bruciato della salvia per coprire le nostri voci." –Sorrise Avalon, prima di aggiungere, con fare interrogativo. –"Di una cosa però sono stupito. Che tu abbia compreso la nostra conversazione."

"Non era mia intenzione mancarvi di rispetto, mio Signore. Mi sono semplicemente trovato…"

"Non è quello che intendevo. Ci sarà tempo per parlarne con Atena e Pegasus, quando Ares e Discordia saranno sconfitti. No, mi riferivo ad altro. Spiegami, Cavaliere di Andromeda, come sei riuscito a capire quel che stavamo dicendo, nonostante stessimo parlando in antico gaelico?"

Andromeda sgranò gli occhi esterrefatto. Fece per rispondere qualcosa, dire ad Avalon che si sbagliava, che non era possibile che avessero parlato in quella lingua a lui ignota, quando infine, dagli abissi della sua coscienza, emerse una luce lontana. Un unico nome che già gli aveva offerto un dono straordinario.

Biliku.