CAPITOLO VENTESIMO: SACRIFICI.

Ate era stupita, sinceramente stupita, dalla richiesta di Phoenix. Cosa voleva ottenere, suicidandosi? Credeva forse che vedendo il corpo massacrato del fratello, Andromeda sarebbe stato libero dal suo influsso? Impossibile, poiché ormai l’ombra doveva avergli divorato l’anima, espandendosi maligna sul corpo che da ore era a stretto contatto con l’armatura da lei infettata. Sogghignò, ripensando alla perfezione di un piano geniale, concordato con Nyx e il Gran Maestro del Caos giorni addietro.

Proprio questi aveva suggerito alla Dea dell’Inganno di sostituirsi a Demetra, un’operazione semplicissima, a detta sua, in virtù della somiglianza delle due donne, che avrebbe permesso a Ate di usare una minima dose di cosmo per modificare i propri lineamenti, e dell’ingenuità della Signora delle Messi. Era stato facile infatti, per la figlia di Discordia, attirarla fuori dai confini dell’Olimpo, dove l’ormai stanco occhio di Zeus non giungeva più; era bastato, in fondo, massacrare i genitori di Nikolaos, cui la Dea era molto legata. Sopraffatta dal dolore e dal senso di colpa dovuto alla propria impotenza, Demetra era stata vinta rapidamente da Nyx e da Ate, che aveva preso il suo posto agli occhi di tutti, persino di Zeus. Un inganno che il Maestro del Caos non ebbe pudicizia di definire magistrale.

Forse, un tempo, quando il mondo era giovane ed egli del pari, il Signore del Fulmine avrebbe subodorato la trappola ma adesso, provato dai lutti e sopraffatto dal timore dell’ultima guerra, era soltanto un re troppo cieco da non vedere più in là della propria corona, da non vedere il regno su cui imperava scomparire nell’ombra.

"Uccidimi, fratello!" –Ripeté la voce di Phoenix, suonando alle orecchie della Dea come un’accorata richiesta, quasi una supplica.

"A che gioco perverso stai giocando, Fenice?!" –Domandò, avvicinandosi al ragazzo intrappolato.

"Sto solo restituendo un vecchio favore a mio fratello!" –Commentò questi, senza togliere lo sguardo dagli occhi di Andromeda, deciso a penetrare nel suo animo. Era, in fondo, quello che faceva con tutti i suoi nemici, sfruttando le loro debolezze e distorcendole in paure, ma in cui adesso avrebbe dovuto riuscire senza ricorrere al Fantasma Diabolico. –"Andromeda, mi senti? So che ci sei ancora, dietro quella maschera di odio che Ate ti ha versato addosso! Ricordi quando venisti alla Roccia del Leone? Ricordi la prima battaglia contro i Cavalieri Neri? Ti inginocchiasti e mi offristi la tua vita, per mettere fine a quello scontro fratricida e salvare così i tuoi amici! Ricordi, Andromeda, quant’era puro e generoso il tuo cuore?"

"Fiato sprecato, Cavaliere di Atena! La notte è calata sui ricordi di tuo fratello, cancellandoli completamente, assieme ai suoi sogni, alle sue speranze, ai suoi ideali. Egli adesso è una creatura delle tenebre e nel glorioso esercito di Caos combatterà!" –Sibilò Ate, mentre Andromeda aumentava la stretta mortale sulla catena, ormai interamente rivestita di scariche di energia. –"Uccidilo, coraggio! Poni fine alla sua misera vita! Che mia madre e i miei fratelli e sorelle siano vendicati!!!"

"Puoi spezzarmi, puoi ferirmi, puoi umiliarmi, Ate. Ma mai, neanche per un istante, mi vincerai!" –Ringhiò Phoenix, il volto lacerato dalle scintille sprigionate dall’arma che lo avvolgeva. Quindi, lottando strenuamente, riuscì a mettersi di lato, levando la testa verso il fratello e continuando a rivolgersi a lui. –"Ricorda i giorni dell’odio, Andromeda, quando ero posseduto dalla rabbia, divorato dal rimorso per aver causato la morte di Esmeralda, ignaro delle trame che Issione aveva costruito per me, per mano del mio maestro! Ero un mostro, non poi così diverso da come Ate vorrebbe che tu adesso divenissi, pur tuttavia continuasti a credere in me, convinto che dietro quello strato di tenebra che mi lordava il volto e l’anima esistesse ancora il fratello che amavi, il generoso fratello che si era sacrificato al posto tuo, scegliendo l’inferno della Regina Nera anziché quello dell’isola di Andromeda! Credesti in me e ti immolasti per salvarmi, per purificare la mia anima! Io non ho paura di fare altrettanto! Ti sono debitore, Andromeda, per il ragazzo che hai risvegliato, per l’uomo che sono diventato! Perciò uccidimi fratello, se ciò servirà a darti pace e a liberarti dal tormento che Ate ti ha imposto!"

"Se così tanto invochi la morte Phoenix, Andromeda te la darà! Sì, morirai ora!!!" –Avvampò Ate, il cui cosmo ormai si era fuso con quello del Cavaliere di Atena, mescolandosi assieme, due ombre dalla stessa fragranza.

"Resisti!!!" –Gridò allora una voce femminile, costringendo Phoenix a gettare uno sguardo verso Themiskyra, fuori dalle cui mura Pentesilea si ergeva, debole e ferita. –"Combatti, come l’uomo di cui Ippolita si innamorò!!!"

Il ragazzo avrebbe voluto ringraziarla per l’incitamento e la fiducia che riponeva in lui, ma rimase in silenzio, a resistere alle folgori del fratello. Non paga, l’ardimentosa condottiera afferrò una freccia dalla propria faretra, incoccandola e puntandola verso Andromeda, caricandola di tutto il cosmo che fu capace di generare. Ate, accanto al Cavaliere di Atena, rise di quel patetico tentativo, senza neppure curarsi di abbatterla. La lasciò fare, lasciò che tendesse l’arco, godendo del dolore che Andromeda stava infliggendo al fratello, il cui volto ormai era rovinato da profonde ustioni. Ghignando soddisfatta, pensò che alla fine di quel trattamento neppure Atena l’avrebbe riconosciuto più. Pentesilea scoccò il dardo, ma il cosmo di Ate lo deviò ed esso finì per ferire Phoenix di striscio, facendo schizzar fuori qualche goccia di sangue dalla guancia destra. Gocce che colpirono Andromeda in faccia, infiammandolo.

"Fra… tello…" –Mormorò Phoenix, ormai prossimo a perdere i sensi.

Fratello. Una parola che risuonò nell’ormai vuoto animo del Cavaliere di Andromeda, echeggiando in spaziosi androni destinati ad essere colmati dall’odio, dall’oscurità e dalla violenza cui presto si sarebbe abbandonato in nome di Ate e di Nyx. Fratello. Eppure, quel suono lontano, quelle poche lettere scandite a fatica dovevano pur significare qualcosa, se continuavano a rimbalzargli dentro, girando attorno al cuore, senza riuscire a sfiorarlo mai.

"Com… batti…" –Aggiunse il Cavaliere della Fenice, prima di crollare esanime al suolo, di fronte al trionfante ghigno della Dea dell’Inganno, che ordinò ad Andromeda di finirlo con un gladio che lei stessa le porse. La lama che aveva squartato pochi giorni addietro i fragili corpi di Elena e Deucalione.

"Ora!!! Offrimi la sua testa, Andromeda! Offrila in dono al tuo nuovo signore e padrone! Lord Caos!!!"

Il Cavaliere dai capelli verdi si chinò sul fratello, agonizzante ai suoi piedi, impugnando l’arma con la mano destra, mentre con la sinistra gli teneva fermo il viso, intingendo le dita nel suo sangue. Fu un attimo, più rapido di qualsiasi pensiero che Phoenix potesse aver avuto, e la lama calò.

"A… aaahhh…" –Mormorò quest’ultimo, osservando lo squarcio aperto nell’interno coscia, laddove l’armatura non giungeva a proteggerlo. Uno spazio minimo che solo chi indossava la corazza poteva conoscere per raggiungere quella specifica posizione. –"An… dromeda…" –Rantolò, mentre il fratello lasciava cadere la lama, la mano ancora tremante per la violenza del gesto.

Non aveva dovuto pensarci troppo, anzi non c’aveva pensato affatto, perché se lo avesse fatto il suo corpo non avrebbe obbedito. Aveva semplicemente agito.

"Ma… cosa?!" –Balbettò Ate, vedendo il corpo di Andromeda accendersi di un’aura rosata, un’aura che andò espandendosi sempre più, decisa a contrastare l’influenza che la opprimeva. –"Perché?!" –Si chiese, realizzando quel che era appena successo.

"Avevo bisogno… di sentire dolore… di sentirmi vivo!" –Affannò il ragazzo, toccando la ferita che si era inflitto, di fronte allo sguardo stupito del fratello. –"Era l’unico modo per poterti combattere, Ate!"

"Umpf, che sia ingenuità o sfrontatezza a farti parlare, parlerai più per poco ancora!" –Commentò la Dea, avvolta nel proprio cosmo oscuro, avanzando verso Andromeda, per spegnere l’ultimo barlume della sua luce. Con rabbia, prostrò il ragazzo a terra, accanto al fratello, torreggiando su entrambi, certa della propria vittoria.

"Combatti…" –Mormorò Andromeda, ricordando le parole di Phoenix di poco prima, le parole che gli avevano permesso di risvegliare il proprio spirito assopito. –"Sì, combatto!!!" –Avvampò, portando il cosmo al parossismo, forte di quegli ideali di pace che gli avevano sempre indicato la via.

"No, tu perdi!" –Disse Ate, stringendo la presa attorno ai corpi dei Cavalieri di Atena, pur indispettita dal fatto che, per quanta oscurità liberasse, la lucentezza dei loro cosmi pareva non esserne del tutto intaccata. È mai possibile che degli uomini possano tanto? Che siano in grado di opporsi a così antiche tenebre?!

Il dubbio glielo tolse il ricordo della conversazione avuta con Nyx, quando la Notte aveva precisato la possibilità di un’arma estrema, messa a loro disposizione da secoli di ostilità tra gli Olimpi. Un astio rinverdito dalla Guerra Sacra conclusasi lo scorso anno, con la sua nuova sconfitta.

Ghignando divertita, Ate levò una mano al cielo, quasi ad afferrare un fumoso strato di nubi nere, osservandolo contorcersi attorno al suo braccio, prima di allontanarsi e mutare forma, assumendo sembianze che sia Andromeda che Phoenix riconobbero all’istante, quelle del più potente e pericoloso nemico fronteggiato fino ad allora.

"Ma quello è…?!"

"Ade!!!" –Rabbrividì Andromeda, di fronte alla sagoma del Dio che aveva preso possesso del suo corpo, e di fronte alla prospettiva che ciò accadesse di nuovo.

"Dove sono? Chi mi ha risvegliato?!" –Parlò la fumosa figura oscura, volteggiando attorno ai tre contendenti, prima che l’imperiosa voce di Ate la forzasse a fissarlo.

"Divino Ade, comprendo il vostro stupore! Di certo non vi aspettavate di essere richiamato così presto dal limbo cui Atena vi precipitò! È questo uno dei poteri di Caos, Creatore e Distruttore di Mondi e di tutti coloro che vi dimorano!"

"Caos?! è dunque sua quest’ombra che sento espandersi sulla Terra intera? Un’oscurità primordiale che neppure ai tempi della Titanomachia percepii!"

"Precisamente! Un’oscurità che presto sarà totale, non come la debole eclissi che tentaste di imporre con il vostro cosmo!" –Precisò Ate, concedendosi un ghigno ironico. –"Pur tuttavia Caos è misericordioso e, avendo sempre apprezzato i vostri metodi, ha deciso di offrirvi una nuova possibilità! Eccola, sta di fronte a voi, nel giovane dai capelli verdi di cui già vi serviste!"

"Andromeda?!" –Mormorò Ade, fluttuando attorno al Cavaliere di Atena, percependone stupito l’aura ombrosa di cui era intriso. –"Quale delizioso aroma!"

"È vostro!" –Spiegò Ate. –"Grazie al mio ichor presente nell’armatura, il corpo di Andromeda è stato distrutto, infettato fin nel profondo! Rimane soltanto lo spirito, vostro compito sarà spezzarlo e allora avrete il ricettacolo che tanto bramaste! Cosa ne dite, Sire Ade? Accettate l’offerta di servire gli Dei Ancestrali?!"

"Le tue parole sono tentatrici, Ate, malaugurata consigliera!" –Ridacchiò la voce cavernosa del Signore degli Inferi. –"Sai bene che il mio vero corpo è spezzato, per cui adesso e ad ogni mia eventuale incarnazione dovrei servirmi di un ospite umano pena il vagare per sempre sotto forma di spirito! Forma che, ammetto, non mi è congeniale!"

"Lo comprendo, Divino Ade, così come Caos lo ha compreso, offrendovi quest’unica opportunità! Accettatela e il corpo di Andromeda sarà vostro per l’eternità! Il vostro nuovo corpo!"

"Mmm! L’ho desiderato così tanto!" –Mormorò il Nume, avvolgendosi al Cavaliere di Atena, solleticandogli la pelle, carezzandogli il volto e soffermandosi infine sui suoi occhi, quegli stessi occhi che, a detta di tutti, erano belli e profondi come i suoi.

"Lascialo stare, bastardo!!! Lascia stare mio fratello!!!" –Ringhiò Phoenix, tentando di rialzarsi ma venendo sbattuto a terra dall’emanazione cosmica di Ate.

I suoi occhi… Rifletté il fratello di Zeus e Nettuno. Sono così pieni di vita, così puri, quasi immacolati, come fossero gli occhi di un angelo! Che cosa mi ricordano? Cosa mi fa rammentare questa luce improvvisa? Ah sì, ora rammento! Le parole di Atena, le parole che la mia eterna nemica mi rivolse nell’Elisio, china e piangente sul corpo di Pegasus, sul corpo di quel dannato mortale.

"Tu sai cos’è l’amore, Ade?!" –Le aveva detto quel giorno la figlia di Zeus. Ma lui non aveva risposto. Aveva ascoltato in silenzio quelli che aveva ritenuto i deliri di una fin troppo umanizzata Divinità, che aveva abiurato al suo status e a tutta la forza che da esso derivava, finendo per prostrarsi alle stesse turbinose passioni degli esseri mortali. Ma la verità era un’altra, sebbene non l’avrebbe mai ammessa, soprattutto a lei. Ed era più semplice e sciocca, al punto da infastidirlo solo pensandoci.

La verità era che non conosceva l’amore perché mai nessuno l’aveva amato.

Gli Spectre e gli Dei Gemelli lo servivano perché dovevano, perché quello era il loro destino, il destino che lui aveva scelto per loro quando aveva creato le costellazioni demoniache, con cui sostituire quelle di Atena qualora fosse riuscito a sconfiggerla. Persefone, che nel Mondo Antico era stata la sua compagna, aveva dovuto obbligarla, poiché solo così avrebbe potuto condividere con lei il trono degli Inferi. Chi mai, del resto, avrebbe voluto soggiornarvi per sua scelta? Nessuno, neppure gli Spectre che di continuo anelavano a missioni nel mondo superiore, all’apparenza per compiacere il loro Signore, in verità per uscire da quel fetido e tenebroso mondo. Su questo si era retto il suo regno, sulla paura della morte che il suo sguardo poteva comminare, e non su una fedeltà sentita e appassionata come quella che legava i Cavalieri di Atena alla loro Dea, una fedeltà che poteva diventare rispetto, cameratismo, affetto, amicizia e infine amore.

Un sentimento che non ho mai conosciuto, perché non lo meritavo. Si disse il Nume, concedendosi un sospiro, prima di staccarsi da Andromeda e sollevarsi nel cielo plumbeo, in quella forma evanescente che Phoenix e Pegasus avevano affrontato nell’Elisio. Fino ad oggi.

Non disse alcunché l’Olimpico Nume, lanciandosi su Ate e inglobandola nel suo cosmo divino, incurante delle grida e della sorpresa della Dea.

"Proposta interessante ma offensiva, figlia di Eris! Hai dimenticato a chi stai parlando? Io sono Ade, Signore dell’Oltretomba, uno dei Cronidi, non un garzone di stalla a cui puoi dare ordini, e non permetto a nessuno di manovrarmi come un burattino, non permetto a nessun Dio antico o moderno di servirsi di me!" –Esclamò maestoso, mentre le loro aure cosmiche si scontravano, aggrovigliandosi furiose, decise entrambe ad annientare la rivale. –"Ora ti mostrerò, misera Dea dell’Inganno, quanto profondo e oscuro è l’inferno di cui sono signore! Fammi sapere poi se tale oscurità, che tanto il tuo padrone propugna, è di tuo gradimento!"

"Ma… maledetto, Ade!!!" –Avvampò Ate, circondata dal cosmo del Nume, avvolta in spire così strette da impedirle persino di respirare. I suoi arti cedettero, le ossa si schiantarono, le sue grida riempirono il cielo del Ponto, facendo rabbrividire Phoenix e Andromeda, che osservavano interdetti la scena. Fu Ade a richiamarli alla realtà, intimandoli di allontanarsi.

"Addio Cavalieri di Atena! Non pensiate che lo faccia per voi, tutt’altro! Lo faccio per me! Dopo ripetute sconfitte, in tante luride Guerre Sacre, oggi ho la mia vittoria! Oggi potrò dire ad Atena, ovunque ella sia, di aver meritato un po’ d’amore!" –Esclamò il Dio, portando il cosmo al parossismo e lasciandosi esplodere assieme all’Ingannatrice.

***

Shen Gado combatteva con una foga che Igaluk non gli aveva mai visto negli anni in cui avevano dimorato nel Reame della Luna Splendente. Certo, aveva sempre saputo che era un Cavaliere Celeste, e come tale abile in battaglia, ma la pacifica esistenza del regno di Selene gli aveva fatto dimenticare cosa significasse combattere davvero. Combattere per la propria sopravvivenza. Eppure avrebbe dovuto saperlo, ricordando la realtà da cui proveniva, le fredde terre dell’Artico canadese, che, al pari di quelle in cui si trovava adesso a lottare, da pochi raggi di sole venivano lambite.

Piccolo e tozzo, con i lineamenti tipici delle popolazioni Inuit, il Selenite di Mercurio aveva deciso di seguire l’Ippogrifo nella difesa della piazzaforte all’ingresso alla Valle di Cristallo, deciso a dare il proprio contributo alla causa. Durante l’assalto di Ares e delle Makhai era rimasto ai margini della battaglia, timoroso di non essere all’altezza. Aveva sentito spegnersi i cosmi di Chandra e Tecciztecatl e mormorato preghiere in lingua inuktitut per le loro anime, ma non aveva trovato la forza per farsi avanti, nascondendosi dietro la necessità di presidiare il cerchio più interno. Una scusa, nient’altro che una scusa. Convenne, sollevando il braccio e lasciando che il fascio di energia nemica si schiantasse su uno degli scudi della sua corazza. La verità era che sentiva la propria inferiorità rispetto agli avversari che si era ritrovato ad affrontare. Divinità ancestrali, Signori della Guerra e delle Tenebre, persino mostruose creature ridestate da un sonno durato eoni. Era tutto troppo grande per lui, semplice depositario della sapienza delle popolazioni che vivevano nelle isole del Canada Settentrionale. A volte credeva di dormire, vittima dell’incantesimo di uno sciamano, che gli aveva strappato l’anima e l’aveva portata indietro nel tempo, ai giorni del taimmani, il passato indefinito ove erano avvenuti i miti e le leggende popolari note come unipkaaq.

E invece sono qua! Si ripeté, chinandosi per evitare un affondo nemico e poi abbagliandolo con il riflesso di luce generato dallo scudo. Per quanto le sue capacità offensive fossero limitate, le difese offerte dalla propria corazza invece erano sufficienti per impedire all’Armata delle Tenebre di avanzare troppo rapidamente, respingendoli il tempo necessario a Shen Gado per trafiggerli con strali lucenti.

"Stai bene?" –Gli disse il compagno, abbattendo un altro paio di guerrieri che stavano per piombare su di lui, dilaniando anche le loro mostruose cavalcature.

Igaluk annuì, ansimando per la stanchezza dello scontro incessante, una fatica a cui non era abituato. Ma, ogni volta in cui la fiacchezza pareva invaderlo, si guardava attorno, osservando uomini comuni, per giunta mortali, lottare fino allo stremo, rialzandosi ogni volta in cui cadevano a terra, senza esitare a lanciarsi l’uno in aiuto dell’altro. Proprio come il Cavaliere del Cigno aveva fatto per aiutare il Principe Alexer. La guerra, come la morte, pareva essere il grande unificatore, in grado di azzerare ogni diversità e rendere fratelli tutti coloro che lottavano sotto il cielo, affinché quel cielo, terso e cristallino, potessero continuare ad ammirarlo.

"Ungh…" –Mormorò all’improvviso Shen Gado, accasciandosi, una mano cinta sul ventre, il volto pallido e sofferente.

"Comandante, state bene?!" –Si preoccupò subito Igaluk, chinandosi su di lui e tenendo al tempo stesso a distanza alcuni guerrieri oscuri, accecandoli con il bagliore del proprio cosmo, limpido come il ghiaccio.

"Non… sono più il tuo comandante!" –Chiosò l’altro, rialzandosi a fatica. –"Sono solo un compagno d’armi! Shen Gado dell’Ippogrifo! E così devi considerarmi!"

Igaluk annuì, prima di percepire anch’egli quel che aveva prostrato il Cavaliere a terra, un’oscurità così intensa da penetrargli nel cuore. Per un momento credette di morire, incapace di muoversi, di respirare, persino di pensare. Poi trovò la forza per torcere il collo, notando la scia di una cometa di puro cosmo, dal colore dell’ebano, dilaniare il cielo nero e piombare su di loro. Non riuscì ad avvisare nessuno, neppure a gridare, poté solo chiudere gli occhi mentre quell’enorme sfera di energia sfondava le mura della roccaforte, distruggendola dall’interno. E poi tutto finì, in un’immensa onda bianca che parve sommergere ogni cosa.

Il Selenite di Mercurio volò in alto, il corpo bersagliato da oggetti di ogni tipo e dimensione, scontrandosi con altri corpi, privi, al pari suo, della volontà o capacità di reagire, infine cadde nel vuoto, sbattendo su qualcosa di duro e freddo, ruzzolando, rotolando su se stesso e continuando a cadere. Non seppe dirsi quanto tempo fu sballottato e dove, capì solo di essere arrivato quando il suo corpo venne ricoperto da un ammasso indistinto di neve, terriccio e detriti. E forse anche resti umani.

Inorridito da quella distruzione, che andava al di là di ogni più fosco pensiero, Igaluk fu tentato di lasciarsi andare, così forse il suo spirito avrebbe raggiunto quello degli altri membri del suo popolo, lassù tra le luci del cielo. Ma poi, pensando al cielo, ricordò l’opprimente nube nera che stava ammantando la Terra e realizzò che, se non l’avessero sconfitta, nessuna luce avrebbe più danzato in cielo, nessun’aurora boreale avrebbe potuto essere ammirata dalle splendide isole del Mare Artico. Così reagì, espandendo il proprio cosmo e recuperando sensibilità al corpo, iniziando a muoversi, a scavare, a farsi largo in quel mucchio di neve in cui era abituato a muoversi. Tirò fuori la testa, alla ricerca d’aria, dopo un tempo che gli parve interminabile, riuscendo infine a liberarsi del tutto. Approfittò di quel momento per rifiatare e guardarsi addosso e attorno: la bianca corazza, ricavata dal ghiaccio eterno di Qikiqtaaluk, era scheggiata in più punti, persino alcuni scudi erano in frantumi, ma i danni erano nulla se paragonati al fianco della montagna dove aveva combattuto fino a quel momento. Senza parole per esprimere alcunché, Igaluk notò che l’altura stessa non esisteva più, sventrata in profondità e crollata, sfaldandosi e sommergendo l’accesso alla vallata. Chi ne fosse il responsabile, il Selenite lo scoprì presto, notando la cometa d’ebano vorticare in cielo fino ad andare a posarsi sul fondo valle, dove il biondo Cavaliere di Atena ancora stava in piedi.

Tariaksuq! Mormorò, facendo un gesto di scongiuro, di fronte a quella creatura umanoide composta di pura oscurità, in grado di fondersi con le ombre stesse.

Annaspando, avrebbe voluto correre da Cristal per avvisarlo o anche per aiutarlo, ma solo allora si accorse di avere una gamba rotta, rimasta schiacciata nel crollo, e di potersi muovere con gran difficoltà. Pur tuttavia se l’era cavata meglio di altri Blue Warriors e soldati dell’Armata delle Tenebre, i cui corpi smembrati costellavano i resti della montagna crollata, assieme ai cadaveri delle loro mostruose cavalcature. Quel che un tempo era stato l’alto Picco di Cristallo era adesso ridotto a un’immensa pattumiera umana di colore bianco, rosso e marrone. Neve, sangue e terra, mescolati in un amalgama che odorava di morte.

Stringendo i denti per il dolore, Igaluk si rialzò, zoppicando tra le rovine, mentre anche altri guerrieri facevano altrettanto, guardandosi attorno alla ricerca di superstiti o di armi per combattere ancora. Solo allora vide l’ala smerigliata d’oro emergere dalla neve, incrinata e tinta di vermiglio, arrabattandosi in quella direzione e gettandosi subito a terra, per liberare il compagno da quella prigione di ghiaccio. Quando riuscì a tirarlo fuori, Shen Gado era gelido come marmo e a malapena respirava. Gli tenne la mano, donandogli un po’ del suo cosmo, per quanto un’esigua quantità gliene restasse, schiaffeggiandolo affinché si riavesse. Fu quel gesto a fargli capire di essere diventato sordo, incapace di udire anche il più minimo rumore, come se tutto fosse distante e ovattato. Probabile effetto dell’esplosione, si disse, prima di voltarsi di scatto verso il margine della foresta, il sesto senso stimolato da una fitta acuta che gli permise di conservare la testa attaccata al collo, sollevando lesto il braccio e parando con lo scudo l’artigliata che calò su di lui.

Cadendo indietro, sopra il ferito Cavaliere Celeste, Igaluk ebbe modo di notare un gruppetto di guerrieri, ben più forti dei semplici scagnozzi affrontati fino ad allora, farsi strada tra i cadaveri, aggiungendone altri alla schiera. Uno, in particolare, gli incusse timore indefinibile, a causa dell’armatura bianca che indossava che gli ricordava un mostro tanto temuto nelle terre ove era cresciuto.

Grendel. Fremé, rabbrividendo, alla vista dell’uomo alto e imponente, con radi capelli biondi e corti, che camminava sprezzante tra i feriti, ponendo fine alla loro agonia con un rapido movimento dell’artigliato braccio destro. Lo spettro bianco. Terrore dei bambini, doloroso ricordo degli adulti, prova degli eroi. Lui, che un eroe non si era mai sentito, avrebbe voluto nascondersi sotto la neve, sfruttando le proprietà mimetiche della corazza, ma il pensiero che potessero fare del male a Shen Gado o ad altri a causa della sua viltà lo riscosse, portandolo a lanciarsi contro il guerriero in integrale armatura bianca, tentando di abbatterlo con una spallata.

Non fece che tre passi prima che l’uomo ne fermasse la corsa, mulinando il grosso guanto artigliato che gli rivestiva il pugno destro, piantandone le propaggini nel bracciale di Igaluk, distruggendo lo scudo e affondando fin dentro la carne. Quindi il guerriero estrasse gli artigli, spingendo indietro il Selenite con un calcio allo sterno, facendolo ruzzolare a terra, poco distante da Shen Gado.

"Non perdere tempo con lui, Grendel!" –Disse allora una voce, appartenente ad un uomo basso e barbuto, dalla corazza color verde marcio. –"È ormai un morto vivente! La furia del Tenebroso non perdona! E, quand’anche dovesse pensare di resistere, le piaghe di cui l’ho infettato lo vinceranno!"

"Corb ha ragione! Passiamo oltre! Reidar e Duppy sono già lontani, in groppa a quei maledetti lupi!" –Lo affiancò un giovane smilzo dai folti capelli viola.

L’uomo chiamato Grendel non rispose, grugnendo parole oscene con cui si liberò da ogni vincolo riguardo ai due compagni, lanciandosi all’assalto. Igaluk fece appena in tempo a sollevare il braccio destro che già le cinque aguzze dita del guanto artigliato erano su di lui, spingendolo indietro, travolto da un reticolo di precisi fasci di energia.

Non devo stargli troppo vicino! Mormorò, intuendo la pericolosità di quegli artigli, in grado, come quelli del mitico Grendel, di squartare un essere umano con un colpo solo. E niente faceva presagire, a Igaluk, che quel guerriero non ne fosse capace. Pur tuttavia, così facendo, giocando solo in difesa, come avrebbe potuto vincerlo? Come avrebbe potuto difendere Shen Gado?

Un gemito alle sue spalle indicò il risvegliarsi dell’Ippogrifo, strappando un sorriso al Selenite di Mercurio, il cui volto rivelò per la prima volta uno sguardo sicuro. Chiamò alcuni Blue Warriors sopravvissuti, dando loro ordini di scortare ad Asgard il ferito, ripiegando nella fortezza principale. Non abbiamo più niente da fare qui, rifletté, osservando lo sfacelo attorno a sé e percependo il violento infuriare dello scontro a fondo valle tra entità che andavano oltre le loro possibilità.

Shen Gado, udite le parole del compagno, fece per ribattere ma, troppo debole persino per camminare, crollò dopo pochi passi, obbligando alcuni fedeli di Alexer a sollevarlo di peso, per tenerlo in piedi. Grendel caricò di nuovo, sfoderando una griglia di artigli di energia bianca che dilaniarono il terreno attorno, falciando via alcuni Blue Warriors e costringendo Igaluk a intervenire di nuovo, portandosi di fronte al gruppo con lo scudo ancora integro e caricandolo di energia cosmica.

"Andate via! Ora!!!" –Imperò, affannando nel resistere ai feroci assalti di Grendel.

"Non… ti lascerò qua a morire, solo per aver salva la pelle! Non sarebbe onorevole per un Cavaliere Celeste!" –Rantolò Shen Gado.

"Malikitt!!!" –Gli ordinò il compagno, ripetendo la richiesta in modo che l’Ippogrifo potesse comprenderla. –"Seguili!" –E si lanciò avanti, avvolto nel suo cosmo celestino, caricando l’uomo dall’armatura simile al leggendario Grendel e strappandogli persino un moto di sorpresa per quella repentina azione d’attacco.

Shen Gado annuì, consapevole che Igaluk non lo stava solo proteggendo, ma stava proteggendo anche il futuro di Asgard, affidandogli il compito di seguire le tracce di coloro che erano già passati, fermandoli prima di giungere a palazzo. Stringendo i pugni, l’Ippogrifo voltò le spalle allo scontro in atto, iniziando a correre verso la foresta assieme ai Blue Warriors.

"Ih ih ih! Dove credete di andare?" –Strepitò l’uomo dai capelli viola, sollevandosi in aria con le ampie ali della sua corazza e generando una tempesta di nubi e grandine.

"A proteggere Asgard!!!" –Tuonò allora Igaluk, interponendosi tra lui e Shen Gado, espandendo il proprio cosmo e generando un’immensa cupola di energia celeste, simile alle abitazioni che costellavano le terre artiche, al cui interno racchiuse se stesso e i tre membri dell’Armata delle Tenebre.

"Cosa pensi di fare con questo igloo di cosmo? Tenerci qui dentro vita natural durante? Ih ih ih! Sei uno sciocco se credi che quest’effimera prigione possa tenere a bada le tempeste che il demoniaco Alu domina!"

"Senza contare che il tuo corpo è già debilitato. Le piaghe che le onde del mio cosmo ti stanno instillando non possono che aumentare in questo spazio chiuso!" –Intervenne il secondo guerriero, quello con l’armatura verde.

"Poco importa! Durassi un’ora o un giorno, sarà tutto tempo che i difensori di Asgard avran guadagnato!" –Chiarì fiero il Selenite di Mercurio. –"Adesso ho capito quel che ci promettemmo davvero quel giorno, quando accettammo di vivere sulla Luna! Essere non guerrieri, bensì protettori! Di tutte le genti!"

Grendel non lo fece finire di parlare, piombando su di lui e infilzando il braccio destro con i suoi enormi gelidi artigli, che gli strapparono un grido di dolore, mentre Alu lo tempestava di saette e pioggia sferzante. Igaluk dovette poggiare un ginocchio a terra, ma non invocò pietà, continuo a bruciare il proprio cosmo, fino all’ultima stilla, mentre le pareti celesti dell’igloo tremolavano, tingendosi di nuovi colori, in una danza che smosse l’intera struttura, facendole assumere la forma di un tendaggio.

"Qualunque mossa tu voglia fare, sei morto! Siamo in tre e tu sei uno solo, e per di più malato!" –Lo sbeffeggiò il guerriero dall’armatura verde, mentre Alu lo sorpassava, planando su di lui con la mano colma di saette oscure.

"Siate tre o trecento, non fa differenza! Lo splendore delle luci del nord vi abbaglierà, e sarà così intenso che tutti, in ogni angolo delle terre artiche lo vedranno, ricordandosi che il cielo non è sempre oscuro! Tutt’altro! Il cielo rifulge di mille bagliori! A voi, creature oscure, il massimo potere di Igaluk! Risplendi Aurora Borealis! Risplendi Aksarnerk!!!"

Lo sfavillio di luci esplose come un’onda, sollevandosi impetuosa verso il cielo, in un arcobaleno di colori che per un momento rischiarò quella notte che stava calando su Asgard. I tre membri dell’Armata delle Tenebre vennero travolti e spinti indietro, le corazze danneggiate, i volti abbagliati da quell’improvviso lucore che tutti, a quelle latitudini, poterono rimirare, venendone confortati. Con quell’ultimo pensiero in mente, pago per aver rinfocolato la speranza nei cuori dei compagni, Igaluk crollò nella neve.