CAPITOLO TRENTANOVESIMO: TIRANDO LE FILA.

Toru non voleva abbandonare il proprio regno, dove era nato e cresciuto, dove il suo popolo aveva a lungo vissuto, e anche il piccolo Kohu, alle parole di Ascanio, iniziò a piangere, impreparato a quella sconfitta. Anche se erano ancora vivi, anche se fossero riusciti a ricostruire l’Avaiki, avrebbero comunque perso la terra dei loro avi.

"Non abbiamo alternative, Comandante! Le Conchiglie stanno per schiantarsi e dobbiamo portare tutti gli Areoi in salvo!"

"Il Pendragon ha ragione, Toru dello Squalo Bianco! Non vi è viltà nell’abbandonare il campo di battaglia quando ciò permette la salvezza del proprio popolo!" –Intervenne allora Nettuno. –"Vorrei averlo capito prima, anziché insistere nel guerreggiare fino alla fine! Forse, così facendo, avrei potuto salvare qualcuno che avevo caro… la Ninfa mia compagna, mio figlio Tritone, Arel Kevines e i miei Generali… A volte non riusciamo a capire quando è il momento di dire basta!"

"Io… è tutta colpa mia!" –Confessò infine lo Squalo Bianco, distogliendo lo sguardo dai compagni. –"Sapevo che negli ultimi anni c’erano state guerre nel Mediterraneo! Notizie erano giunte fin qua, attraverso i nostri esploratori. Ma, d’accordo con Hina, avevo optato per una politica di non interventismo, credendo che, se anche i regni terrestri, umani o divini, si fossero scontrati tra loro, noi saremmo stati in pace, noi avremmo continuato a prosperare, nei mari incontaminati dove nessuna ombra è mai scesa! Credevo di agire per il bene del mio popolo e invece ho sbagliato e adesso gli Areoi tutti pagano il mio sbaglio!"

"Non è mai tardi per rimediare!" –Gli disse allora Titis, avvicinandosi a Nettuno, che le sorrise, prima che Ascanio li incitasse ad agire all’istante. Non avevano molto tempo, solo quello che Asterios sarebbe riuscito a dare loro, prima che le quattro strutture rimaste collassassero, permettendo alla marea di sommergere l’Avaiki. Già ne vedevano i bordi oscillare, sorrette ormai solo da quel che rimaneva del cosmo della Alii, prossimo a scomparire.

Toru ordinò a Kohu, Titis e Tisifone di radunare tutti gli Areoi della Conchiglia Settentrionale, mentre gli Heroes si sarebbero occupati di quella Occidentale. Sirio e Ascanio avrebbero messo in salvo gli abitanti della Conchiglia Orientale e lui sarebbe rimasto lì, assieme a Nettuno, a proteggere coloro che dimoravano nella terra madre.

Proprio mentre i membri dell’alleanza scattavano in direzioni diverse, il Palazzo di Corallo esplose, crollando su se stesso, divelto da un poderoso scontro tra energie cosmiche che infuriava al suo interno. Forco aveva infatti liberato tutto il suo cosmo divino, annientando le Falene d’Acqua che lo avevano attorniato e rimettendosi in piedi, pur con il corpo chiazzato di sangue e la corazza in frantumi. Ma, sopra ogni cosa, la consapevolezza della morte di Ceto lo aveva invaso.

L’aveva sentita poc’anzi, spegnersi in acque lontane, molto più a nord dell’Avaiki. Ne aveva udito le ultime parole, il lamento d’amore che gli aveva rivolto mentre precipitava nel Mare Artico, per non rialzarsi più. Per non nuotare più.

Incredulo e inorridito, Forco aveva fissato Asterios, bruciando il proprio cosmo divino. A quel punto niente aveva più senso, nemmeno la conquista del tanto bramato Trono dei Mari. Cos’era, in fondo? Solo uno sgabello su cui avrebbe dovuto sedere da solo, senza poterlo condividere con colei che aveva dato un senso alla sua intera esistenza, colei alla quale si era unito millenni addietro, in un amore unico e intrecciato, come i loro destini gli erano sempre apparsi. Ma se quell’amore gli era stato portato via, da quei bastardi dell’alleanza che combattevano contro l’ombra, egli sarebbe almeno morto uccidendo uno di loro, il damerino dagli occhi verdi che aveva mandato a monte il suo piano. Lo avrebbe portato con sé, nel vuoto cosmico che stava oltre la vita da quando Caos era ricomparso, a qualunque costo.

"Kata thalassa!!!" –Tuonò il Nume, sollevando una devastante onda di energia acquatica, che abbatté le mura del Palazzo di Corallo, rovesciandosi all’esterno, correndo verso Asterios, il quale, impressionato dalla forza che Forco riusciva ancora a dimostrare, poté soltanto aprire il palmo della mano destra, concentrandovi tutto il suo cosmo. L’enorme marea gli passò ai lati, infrangendosi contro quello scoglio che non fu in grado di piegare, soltanto di spingerlo indietro, impegnando l’Angelo ad uno sforzo massimo, reso ancora più difficoltoso dalla necessità di dover mantenere la barriera sopra le quattro Conchiglie dell’Avaiki.

"Non c’è più tempo…" –Rifletté Asterios, sondando con il cosmo il regno sommerso, al fine di individuare tutti coloro che dovevano essere portati in salvo. Troppi.

"Occupati di Forco, Arconte di Acqua, e lascia a me la salvezza del popolo libero delle correnti!" –Parlò allora una voce al suo cosmo. Una voce gentile e cristallina, che Asterios mai aveva udito e che sembrava appartenere ad una ninfa dei mari.

Non seppe dirsi perché, ma l’Angelo le credette, percependo nel suo tono una dolcezza in grado di lenire qualsiasi affanno, radunando tutte le sue forze e lasciando che fosse questa nuova alleata ad occuparsi di evacuare gli Areoi, potendo quindi dedicarsi solo allo scontro con Forco.

"No, no, no!!!" –Gridò inviperito il Nume, avendo compreso che anche il suo piano di distruzione, dopo quello di conquista, sembrava fallire. –"Non mi porterete via almeno la soddisfazione di vedervi morire!!! Kata…"

"Misera motivazione per restare in vita, Forco! Davvero misera di fronte a chi, come me, ha trascorso millenni solo per uno scopo di pace ed equilibrio! Lance di acqua!!!" –L’attacco di Asterios trafisse il Dio di sbieco, raggiungendolo a una gamba, al petto e al collo, straziando ogni ulteriore tentativo di lotta e gettandolo a terra, proprio mentre la cupola della Conchiglia Madre andava in frantumi.

Onde immerse scrosciarono all’interno dell’Avaiki, fagocitando e distruggendo tutto quel che incontrarono lungo il cammino, di fronte allo sguardo atterrito del fratello di Avalon. Fu una mano di donna a sfiorargli una spalla, costringendolo a voltarsi verso Avatea, che gli sorrise, invitandolo a prenderle la mano. Hubal, al suo fianco, aveva già fatto altrettanto e i tre furono avvolti da una bolla di energia acquatica, poco prima che lo scrosciare della marea li raggiungesse, limitandosi a sballottarli. Guardandosi attorno, Asterios vide centinaia, forse migliaia, di quelle bolle azzurre, sollevarsi placide dal fondale, mentre quel che restava dell’Avaiki veniva restituito alle acque. Era stato troppo pretendere di violare la sacralità di un luogo così antico con un insediamento umano? A quella domanda l’Angelo non seppe rispondere, limitandosi a sospirare, prima di cercare con lo sguardo i compagni sopravvissuti.

C’erano tutti, sia pure malconci. Ascanio, Sirio, Nettuno, Nesso e Alcione, Titis, Tisifone e tutti gli Areoi superstiti, oltre ad Avatea e a Hubal. Guardò Toru, in una bolla poco distante, che stava fissando il regno che avrebbe dovuto difendere scomparire per sempre tra le sabbie smosse, assieme ai corpi di chi aveva dovuto lasciare indietro, corpi che sarebbero stati restituiti al mare che li aveva generati.

"Addio Maru! Addio Tara! Addio amici miei!" –Recitò il Comandante degli Areoi, mentre anche il piccolo Istioforo, in ginocchio di fronte a lui, pregava gli aumakuas di accogliere le anime dei compagni caduti.

"Dove andremo, adesso?" –Chiese infine Kohu. –"Cosa ne sarà di noi?"

Toru non rispose, incapace di ammettere di non sapere cosa sarebbe accaduto, incapace di ammettere che non avevano più una casa, una terra dove vivere. Fu in quel momento che una voce li raggiunse tutti, una voce di donna, la stessa che aveva parlato poco prima ad Asterios e che adesso pareva riempire il mare con il suo cosmo, di chiara sfumatura divina.


"Popolo degli Areoi, che così tanto avete amato il mare, al punto da rinunciare ad una vita nel mondo emerso per costruire una colonia che potesse prosperare in pace e felicità, senza guerre né malattie, permettete di venirvi in aiuto! Il mio nome è Euribia e sarò lieta di ospitarvi nel mio palazzo marino, in attesa che troviate una nuova landa dove vivere o che prendiate comunque una decisione!"

"Euribia…" –Mormorò Asterios, ricordando chi fosse, proprio mentre le bolle mutavano direzione, allontanandosi dal Mar dei Coralli e dirigendosi verso oriente. Passarono per i fondali dell’Oceano Indiano e dei mari arabici, fino a raggiungere un’insenatura sotterranea, dentro cui era incastrato un magnifico palazzo rischiarato da mille luci, attorno al quale danzavano tante piccole figure luminose, che Nettuno e Asterios subito riconobbero.

Erano fanciulle, quasi tutte nude, le lunghe chiome intrecciate con perle e coralli, e cavalcavano delfini, cavallucci e altri animali marini, salutando gli ospiti con grandi sorrisi. Toru e gli Areoi rimasero meravigliati da quel mondo che, nelle loro numerose perlustrazioni, non avevano mai scoperto, mentre le bolle planavano all’interno di un’ampia corte di fronte al palazzo sottomarino, dove esplosero poco dopo, liberando tutti i fuggiaschi e permettendo loro di atterrare su soffice sabbia.

"È incredibile!" –Mormorò Nesso, guardandosi attorno, abbagliato dalla magnificenza di quell’edificio e dallo splendore delle ragazze che li circondavano, lanciando stelle marine su di loro.

"È come nell’Avaiki e nel Regno di Nettuno! Possiamo respirare senza problemi!" –Commentò Sirio, trovando Ascanio subito concorde. –"Ciò è dovuto al cosmo che permea questo luogo sacro, un cosmo chiaramente divino e di origini antiche." –Aggiunse il seguace di Avalon, volgendo lo sguardo verso la scalinata di accesso al palazzo, da cui un’esile figura di donna era appena apparsa.

Sorridente, rivestita di una candida veste decorata di coralli e stelle marine, Euribia si fece loro incontro, aprendo le braccia in segno di pace.

"Siate i benvenuti, popolo delle correnti!" –Esclamò, fermandosi infine davanti a Toru. –"So che molto avete sofferto! Tutti abbiamo sofferto in questi ultimi anni! Non so per quanto ancora ci sarà concesso di vivere, e provare così dolori e gioie, ma fintantoché potremo farlo, allora sarò lieta di ospitarvi!"

"La vostra generosità sarà ripagata, un giorno! Ve lo assicuro, Dama dei Mari!" –Disse fiero lo Squalo Bianco, inginocchiandosi di fronte alla donna, e così fecero Kohu e tutti gli Areoi, ringraziando la loro salvatrice, che subito dispensò ordini alle ninfe degli oceani affinché provvedessero a curare i feriti e dare loro tutto ciò di cui avevano bisogno.

Fu allora che Nettuno, Asterios, Sirio e Ascanio le si avvicinarono, desiderando porle molte domande, soprattutto il Cronide, che ben sapeva chi fosse.

"Figlia di Ponto e sorella di Forco e Ceto, perché siete giunta in nostro soccorso, tradendo la vostra stessa genia?"

"La mia progenie mi è stata strappata tempo addietro, divino Nettuno! Tutto quel che volevo, tutto quel che avrebbe potuto rendermi felice, era vivere assieme a colui che amavo, caduto in una Titanomachia riaccesasi per pochi sprazzi una decina di anni fa! Da allora ho rifiutato ogni contatto con mio padre e tutti gli altri autoproclamatosi Signori dei Mari, non fidandomi di nessuno di loro, soprattutto di Ponto, che con i suoi progetti imperiali a nient’altro mi aveva condannato se non ad un’eterna infelicità! Potete capirmi, non è vero, voi che perdeste come me qualcuno che avevate caro? Ho visto come il vostro guardo spaziava tra le Nereidi al mio servizio. Forse speravate di trovare traccia di colei con cui generaste Tritone?!" –Esclamò Euribia, chinando lo sguardo. –"Mi dispiace, ella non è qui. Ella è caduta."

Nettuno, a quelle parole, sospirò. La speranza che l’aveva invaso per un momento, quando le bolle di energia acquatica avevano varcato i confini del palazzo di Euribia, era già svanita. Quel che gli restava adesso era solo la guerra, l’ultima guerra, che presto sarebbe giunta al suo apice.

***

"Per quale motivo mi hai ordinato di tornare?" –La cavernosa voce di Erebo risuonò negli oscuri androni del Primo Santuario, abbattendosi su Nyx, seduta su un rozzo trono di pietra a sorseggiare sangue da una coppa d’oro.

"Parli come se ti dispiacesse." –Ironizzò lei, senza scomporsi troppo.

"È così, infatti! Li avevo in pugno! Tutti quanti! Zeus, Atena, i Cavalieri dello Zodiaco, persino Avalon era ad Asgard! Avrei potuto schiacciarli tutti quanti!"

"Perché non l’hai fatto, quindi?"

"Non… permetterti… questo tono con me…" –Sibilò il Tenebroso, espandendo il proprio cosmo e scaraventando Nyx contro il muro retrostante, gettando a terra coppa e trono e scalfendo la parete, cui la Notte si trovò inchiodata da daghe di tenebra.

Imperturbabile, la Prima Dea riportò lo sguardo sul compagno, osservandone il corpo rivestito dalla corazza nera, la scritta rossastra vergata col sangue e… una crepa? Sì, era una crepa quella che riluceva poco più in basso della scritta stessa. Una crepa da cui un leggero alone di cosmo lucente filtrava ancora.

Sogghignando, Nyx bruciò la propria aura, annientando le daghe d’ebano e liberandosi da quell’effimera prigione, avanzando verso Erebo e fissandolo dritto negli occhi rossi, prima di afferrargli il collo con una mano.

"Tu… non permetterti questo tono con chi ti ha generato!" –Esclamò, mentre i loro potenti cosmi oscuri si fronteggiavano, uno di fronte all’altro, saturando l’intero salone del Primo Santuario, che quasi parve urlare di fronte a una tale possibile apocalisse.

Fu Erebo infine a rompere lo stallo, abbandonandosi ad una risatina isterica.

"Eh eh eh… Anche la Prima Dea ha degli artigli, dunque!"

"E, come Selene potrebbe testimoniare, possono far male!" –Ironizzò lei, rilassandosi infine e lasciando Erebo libero dalla sua stretta.


"Oh sì, ho sentito della tua impresa! La più riuscita tra le offensive scatenate quest’oggi! Appartiene forse alla Dea della Luna il prelibato ichor di cui ti stavi nutrendo?"

"Certo che no! Selene era la figlia dei Titani Iperione e Tia, il suo sangue divino era di rara e preziosa qualità! L’ho offerto direttamente a Lord Caos!"

"Dunque ti accontenti dei resti degli Asura che Polemos ha massacrato ieri notte, assieme a quei nefasti dell’Armata della Tenebre? Sei una donna di poche pretese, Nyx, mi stupisci!"

"Nefari!" –Precisò lei, raddrizzando il trono con i suoi poteri psichici e mettendosi di nuovo a sedere.

"Nefari, nefasti, nefandi! Che differenza vuoi che faccia? Sono uomini, sono scarti di cui ci serviamo per dare loro l’impressione che ci importi qualcosa degli abitanti di questo pianeta! Un palliativo di cui persino noi Dei abbiamo bisogno per vincere una solitudine di millenni!" –Chiosò Erebo. –"Inoltre, sai bene che odio i nomi, servono per distinguere le cose! Ma chi è unico come me, e te, non ne ha bisogno!"

"Di cosa hai bisogno allora, Nume ancestrale?"

"Di risposte! Perché, Nyx, mi hai chiesto di rientrare?"

"Non sono stato io a chiedertelo, in verità!" –Sogghignò lei, umettandosi le labbra. –"Pare che si sia stancato di stare a guardare! Se ne occuperà direttamente lui!"

Erebo ascoltò con sorpresa, non credendo che sarebbe sceso in guerra fin da subito, anche se in fondo lo capiva, ne capiva la frenesia di agire, dopo millenni trascorsi nell’intermundi. Sogghignò, allungando le braccia e incrociandole poi dietro al collo, affermando che ormai il loro operato era finito.

"Come il tempo che questo mondo ha a disposizione. Mi rimangio quel che ho detto a Pegasus, pare che la Terra non vedrà un’altra alba!"

Nyx gli diede ragione, prima di congedarsi dal Signore delle Tenebre, dovendo andare a parlare con Chimera, che aveva chiesto immediata udienza ai Progenitori.

"So già cosa vorrà dirmi! L’ho sentito strillare fin da quando è rientrato dall’Egitto, con quella sua vocina isterica! Odia Forco e lo vuole morto per non essere intervenuto a coprire le spalle all’Armata delle Tenebre! Non posso dargli torto comunque; sai cosa ha combinato il supposto Sovrano dei Mari? Ha guidato una sua personale crociata per conquistare un regno sottomarino dimenticato da chiunque?! La sua bravata c’è costata cara, oltre che la testa di Polemos!"

"Non era poi migliore di Ares, che tanto aveva criticato. Entrambi hanno fallito!" –Chiarì Erebo. –"Come Signori della Guerra non valgono niente!"

"Colpa nostra che ci siamo illusi che questi insulsi Dei minori soddisfacessero le nostre aspettative! In quanto a Forco, mi sono premunita di mandargli un messaggio speciale, con i miei migliori omaggi!" –Ghignò la Notte, allontanandosi.

Rimasto solo, Erebo rilassò le braccia, senza per questo quietare l’ansia che l’aveva invaso da quando aveva lasciato Asgard, ansia che le parole della Notte non avevano affatto attenuato. Si tolse la maschera terrificante, gettandola a terra, e infine sedette sullo scranno, ricordando lo splendore emanato da Balmung, quando Pegasus l’aveva impugnata e puntata verso di lui.

Cos’era quella luce? Di certo non la luce di un uomo o di un mondo prossimo alla distruzione. Il cosmo di Pegasus e dei suoi amici non ha niente di decadente, anzi non ha eguali nella storia! Neppure Eracle, campione di Uomini e Dei, era mai riuscito ad elevarsi a vette di tale sovrastante lucore! Cosa nascondono ancora i Cavalieri dello Zodiaco? Oltre ad aver raggiunto il Nono Senso, trascendendo i limiti stessi dell’esistenza e divenendo pari agli Dei, possono crescere ancora? Possono andare oltre, se non vi è niente oltre? Oltre l’essere un Dio, cosa c’è?

Ripensò alle parole che Anhar gli aveva rivolto ore addietro, dopo la sua rinascita, mentre riposava nelle stanze a lui dedicate. Strofe di un’antica litania diffusa fin dai tempi successivi alla Titanomachia.

"Urano fu soppiantato da Crono, Crono lo fu da Zeus. E chi mai verrà dopo il Signore della Folgore?"

Per Erebo la risposta era nessuno. Non potevano esserci ancora Dei dopo la morte di tutti quegli attuali; del resto la condizione stessa di Divinità era cessata di esistere nel momento in cui il varco si era aperto e Caos aveva fatto ritorno, unico Dio da cui tutti gli Dei, di tutti i culti e le culture, discendevano.

Eppure… Quelle parole gli rimbalzavano in testa, marchiate nella luce del cosmo di Pegasus, la luce che aveva quasi temuto lo incenerisse quando aveva puntato Balmung verso di lui.

E se venissero loro? Pegasus e i suoi amici? Gli umani? In un mondo senza più Dei, forse gli uomini stessi potrebbero innalzarsi e divenire tali?

Avrebbe potuto condividere con Nyx le sue preoccupazioni, e forse avrebbe dovuto, per trovare una spiegazione razionale, conforto e anche quelle certezze che lo scontro con i Cavalieri dello Zodiaco avevano scalfito. Ma non poteva mostrarsi debole e insicuro, non lui, il Tenebroso, il cui solo nome bastava a turbare gli animi dei suoi stessi guerrieri. Come poteva giustificare l’essere impensierito da un gruppo di adolescenti? Non lo avrebbe fatto, perché quegli adolescenti, quegli stupidi ragazzi che giocavano con poteri più grandi di loro, non sarebbero stati un problema. Né per lui né per i Progenitori.

Adesso che Caos ha deciso di agire, tutto il resto non conta più niente! Tutto il resto diventa niente! Sghignazzò a gran voce, prima che un rumore di passi lo distraesse, portandolo a voltarsi verso l’ingresso della sala dove un guerriero dal volto per metà ustionato era appena apparso.

"Mi… Mio Signore… siete davvero voi?!" –Balbettò imbarazzato il Nefario, incrociando lo sguardo di Erebo e accorgendosi che non indossava la maschera. Arretrò di un passo quando vide il suo volto, spalancando gli occhi dallo stupore.

"Cosa vuoi?" –Ghignò il Nume, avventandosi su di lui e sbattendolo contro il muro, trafitto alle scapole da daghe di tenebra. –"Avevo dato ordine di non essere disturbato, come hai osato mancarmi di rispetto?"

"Per… donatemi mio Signore… non era mia intenzione… io… Sua Eccellenza ha richiesto la presenza di tutti i Progenitori…" –Tentò di scusarsi il guerriero, incapace di distogliere lo sguardo da quel viso che non aveva mai creduto gli appartenesse.

Il volto di Erebo era davvero quello?

A quella domanda Jared del Golem di Sangue non ebbe mai risposta, il cranio schiacciato dalla mano destra del Tenebroso, mentre strali di energia gli maciullavano il corpo, smembrandolo e macchiando la parete con i suoi amabili resti.

"Messaggio ricevuto!" –Sogghignò Erebo, recuperando la maschera e tornando ad indossarla, tornando a ricreare se stesso.

***

Forco riemerse al largo delle coste australiane, annaspando e respirando a fatica in quella stessa acqua di cui a lungo aveva voluto essere signore. Le ferite subite nell’Avaiki lo avevano fiaccato, ma ancor più la consapevolezza di aver perso.

Tutto quanto.

I suoi guerrieri erano caduti in un’impresa che, in origine, era sembrata una bazzecola, un banco di prova per il ricreato esercito dei Forcidi. Del regno su cui avrebbe voluto imperare, dimostrando di saper arrivare ovunque, non era rimasto niente, travolto da maree così furibonde e letali da aver di certo annientato ogni forma di vita. Dubitava che persino gli Areoi e i loro alleati fossero sopravvissuti. Ma in verità non gli importava niente. Tutto quel che avrebbe voluto era tornare da Ceto, l’unica che avrebbe potuto consolarlo, cullarlo in un morbido e amorevole abbraccio. Con lei avrebbe deciso cosa fare, come comportarsi adesso, soprattutto nei confronti dei Progenitori, le cui direttive non avevano rispettato. Certo, avrebbe potuto inventare qualcosa, una bugia qualsiasi per giustificare il suo mancato intervento in aiuto dell’Armata delle Tenebre, ma non dubitava che Nyx non l’avrebbe presa bene.

No, non poteva andare nel Gobi. Non adesso, in quello stato confusionario e ferito. Doveva riposarsi prima e cercare Ceto. Aveva bisogno di lei, di sentirla lì, tra le sue braccia, di sentirle il cuore non battere più, di piangere sul suo cadavere. L’avrebbe trovata, anche a costo di trascorrere quel che gli rimaneva da vivere nuotando per gli oceani di tutto il pianeta, e l’avrebbe riportata a casa, nella grotta in fondo al mare dove a lungo avevano dimorato, amandosi in abissali silenzi. Gli stessi silenzi che li separavano adesso, impossibilitati a ritrovarsi mai più.

Con quel pensiero angosciante nel cuore, Forco si affidò alle correnti, lasciandosi trasportare a riva, poco lontano da quella che gli uomini del posto chiamavano Grande Barriera Corallina. Era ancora notte, ma presto i primi raggi del sole sarebbero apparsi ad oriente, riflettendosi sullo spettacolare paesaggio che lo attorniava, un ecosistema che, in altri momenti, avrebbe di certo apprezzato. Ma adesso voleva solo riposare, curare in fretta le proprie ferite, quel tanto che gli avrebbe consentito di rimettersi in cammino alla ricerca di colei che amava.

Non seppe quanto tempo rimase disteso sulla riva, né vide l’alta figura avvicinarsi. Ne percepì il respiro solo quando giunse a pochi passi dal suo imbolsito corpo fiacco, gettandogli accanto quel che reggeva tra le mani. Quel che a prima vista sembrava la carcassa di un grosso animale marino, un cetaceo forse, a giudicare dalla pelle corazzata.

"Ce… Ceto…" –Mormorò Forco, voltandosi e specchiandosi negli occhi spenti della compagna. –"Sei dunque tu?!" –Senz’altro aggiungere, l’antico Re dei Mari la abbracciò, assaporando il dolore di quel momento fino all’ultima stilla, sentendosi in parte colpevole per la sua dipartita.

Era stata lei, quella mattina, dopo che avevano ricevuto il dispaccio da Steno, a dire allo sposo che sarebbe andata ad Asgard, come Polemos richiedeva. La soluzione migliore, a suo dire, per evitare di compromettersi troppo e inimicarsi potenti alleati.

"Tu mi raggiungerai presto, lo so!" –Gli aveva detto, baciandolo, prima di tuffarsi nella pozza d’acqua al centro dell’anfratto oceanico e iniziare a nuotare verso nord, in quella forma terribile che a molti ricordava il Leviatano.

"Sì, ti raggiungerò, mia adorata!" –Le aveva urlato dietro, prima di ordinare a Ozena di radunare i Forcidi e prepararsi ad attaccare l’Avaiki.

Adesso quella promessa gli parve quasi una condanna a morte.

"Perdonami!" –Le disse, carezzandole la pelle ruvida. –"Non l’ho mantenuta! Non sono stato in grado di tener fede alla mia parola!"

"A questo possiamo porre rimedio, mio Signore!" –Parlò allora l’aspra voce di colui che gli aveva portato il corpo di Ceto, risvegliando il Nume e forzandolo ad alzare lo sguardo su di lui, quasi si fosse dimenticato della sua presenza.

Sulle prime non lo riconobbe, avendolo visto di rado in volto, ben sapendo quanto odiasse che gli altri lo fissassero, soffermandosi a commentare le sue deformità. Fu la corazza di oricalco ad indicargli chi fosse, per quanto numerosi danni avesse subito, ancora chiazzata del sangue che il taglio di Excalibur aveva gettato fuori.

"Cosa vuoi dire, Primo Forcide? E dove hai trovato la mia sposa?"

"Non vi ponete le domande giuste, mio Signore! Quel che è stato è stato e ormai non potrà più essere! Dove l’ho trovata, gli oceani che ha solcato con le sue ultime forze, invocando disperatamente il nome di colui che, con questa stupida crociata personale, l’ha condannata a morte, non ha importanza! Presto per voi niente avrà più importanza, poiché presto sarete di nuovo insieme, in un silenzioso nido abissale dove potrete restare per l’eternità!" –Sibilò, portandosi lesto alle spalle del Dio.

"Che stai dicendo e toglimi le tue viscide mani dal collo?!" –Rantolò Forco, mentre la presa del Primo Forcide si faceva sempre più possente, sempre più serrata, accompagnandosi ad una risata divertita. L’ultima cosa che vide, l’ultima cosa che Forco notò, prima di spirare, furono gli occhi giallognoli di colui a cui aveva affidato il comando delle sue armate, l’allievo che Anhar aveva saputo addestrare al meglio.

"Addio, Re dei Mari!" –Sussurrò Tiamat, stringendo fino a schiantare i muscoli del collo del Nume, dilaniando la pelle e frantumando persino le ossa della colonna vertebrale. Quando risollevò le mani, il Primo Forcide godette alla vista del sangue e della materia organica che da esse colava, i resti di un Dio indegno di essere tale.

Con un ultimo colpo di mano, gli sventrò la cassa toracica, estraendone il cuore e mettendolo in una sacca che portava legata ad un fianco. A far compagnia a quello di Ceto e ad altri che aveva prelevato dagli Dei massacrati nelle isole del Pacifico. Apakura, Ika Tere, Ira Waru, la maggioranza degli Aitu, Divinità che nessuno avrebbe onorato né ricordato più. Una dopo l’altra, nelle esplorazioni condotte per conto di Forco, Tiamat le aveva sterminate tutte, meritandosi l’appellativo con cui l’anziano Dio Pesce polinesiano l’aveva chiamato morendo.

"Auraka…"

Il divoratore di tutto.

"Proprio io!" –Aveva sorriso, strappandogli il cuore, per farne dono all’oscuro signore di cui era al servizio.

"Oh Anhar, mi hai insegnato proprio bene! Sei stato davvero un ottimo maestro!" –Rise, nell’alba che gli solleticava il viso sfregiato. –"Ed io, che sono stato attento e diligente allievo, metterò in pratica i tuoi insegnamenti! Meglio di quanto tu non sia riuscito a fare!"