CAPITOLO NONO: RUGGITI DI GUERRA.

Quelle corazze sembravano Surplici. O forse nemmeno le Surplici erano così nere! Si disse Phoenix, evitando l’affondo del primo avversario. Prive dei riflessi violacei delle corazze dei servitori di Ade, queste sembravano composte di pura oscurità, al punto che, per quanto il Cavaliere ne avesse riconosciuto le fattezze, non riusciva a notare i fini dettagli e il lavoro di intarsio che le contraddistinguevano, rendendole le più eleganti e le più desiderate tra le vesti dei difensori di Atena.

Adesso, dello splendore delle armature d’oro, cos’è rimasto? Bofonchiò il ragazzo, concentrando il cosmo attorno al pugno destro e scattando avanti, mirando al nemico che, di fronte a lui, aveva appena fatto altrettanto. La detonazione energetica spinse entrambi indietro ma Phoenix fu lesto a balzare in alto, per evitare i sottili raggi di energia nera che un agile guerriero (o l’ombra dell’eroe che era stato un tempo?) gli aveva rivolto contro. Atterrò alle sue spalle, sbattendo le ali e scaraventando l’avversario in alto in una tempesta di fuoco.

L’elmo, con la lunga coda appuntita, venne scagliato poco distante, mentre l’antico Cavaliere d’Oro si schiantava a terra, finendo calpestato dai suoi stessi compari che, in massa, stavano avanzando verso Phoenix.

Così muoiono gli Scorpioni. Rifletté il giovane. Nel deserto della morte. Auguriamoci di non fare la loro fine. Aggiunse, concedendosi un attimo per rifiatare. Un attimo soltanto, prima che una nuova linea di ombre lo cingesse d’assedio. L’attimo di cui l’Arconte Rosso abbisognò per lasciar esplodere il proprio cosmo fiammeggiante.

Una corona di fuoco circondò Phoenix, tenendo a bada i servi di Caos, prima di divampare verso l’esterno, travolgendoli, afferrandoli, divorandoli nel breve arco di un istante. Come aveva fatto finora con tutti coloro che avevano ardito avvicinarsi.

Voltandosi, la Fenice vide Andrei strizzargli un occhio, prima che scattasse verso nuovi avversari. Instancabile, implacabile e decisamente inesauribile. Del resto, aveva atteso una vita intera per quel momento. Poteva non essere pronto a viverlo intensamente, consumandosi come le fiamme che padroneggiava con maestria?

Stringendo i pugni, Phoenix capì quel che provava. Non era poi così diverso per lui, no? Piegò la testa all’indietro, evitando un fascio di energia oscura, e si preparò per sollevare il braccio, proprio mentre un Cavaliere d’Oro, di chissà quale precedente generazione, lo caricava. Lo colpì al centro del petto, scagliandolo indietro, con la corazza fumante e una nube di fumo nero che ne fuoriusciva. Cosa fosse, Phoenix preferì non saperlo. Tutto quel che sapeva, tutto quel che ognuno di loro doveva sapere era che doveva continuare a combattere.

Per gli uomini, per coloro che amavano, e anche per loro stessi. Ognuno poteva avere il suo motivo, ma non importava più.

Non importa più niente ormai! Disse, espandendo il proprio cosmo e liberando le possenti ali di fuoco dell’uccello immortale, che sbaragliarono un’intera linea nemica. Un’intera linea di coloro che, prima di lui, avevano adorato e servito la Dea Atena e per lei erano morti. Che macabra ironia divenire scagnozzi del Caos!

Aveva cercato, nel mare di elmi che lo circondavano, di riconoscere qualche volto ma aveva desistito dopo un fugace colpo d’occhio. Cosa importava, in fondo, chi fossero quei Cavalieri? A quale, delle tante generazioni di santi e suicidi che si erano succedute per proteggere la Vergine Dea, appartenessero? Ormai erano anime erranti asservite al Caos.

Eppure, per un momento, si era chiesto cosa avrebbe provato se, tra loro, avesse riconosciuto i volti di Mur o Gemini, del saggio Dohko o di Toro.

"Farebbe differenza?"

La voce di Andrei quasi tagliò in due i suoi pensieri, mentre l’Arconte appariva accanto a lui. Un massiccio Cavaliere del Toro lo caricò in quel momento, a testa bassa, puntando le corna al cuore dell’Angelo che, divertito, le afferrò in corsa, dandosi lo slancio per saltare sulla sua schiena, il pugno che già sfrigolava energia fiammeggiante. Fu un attimo, un movimento così rapido che Phoenix nemmeno lo vide, e già il pugno sventrava l’armatura nera e il fuoco dilagava all’interno della massa di sostanza sconosciuta.

Con agilità, Andrei atterrò di nuovo accanto a lui, scoccando una rapida occhiata al gruppo di neri Cavalieri d’Oro che ancora li asserragliavano. La presenza dell’Arconte Rosso pareva averli rallentati, forse quei pochi istanti di cui Caos doveva aver bisogno per istigarli ad avanzare ancora.

"No!" – Rispose Phoenix, fissando il guerriero negli occhi e strappandogli un sorriso d’assenso.

"In questo momento, in questo preciso momento del tempo cosmico, non esiste più alcuna differenza all’interno della marea d’ombra che fuoriesce dal Primo Santuario. Non sono uomini, non più. È solo tenebra, ricordalo, Phoenix! Ricordalo, se vuoi sopravvivere. Perché se non lo farai, se tu dovessi incorrere nell’errore di fermare il pugno o di voler conoscere i tuoi avversari, questo deserto terrà fede al suo nome!" – Aggiunse, voltandogli le spalle e scattando avanti.

Un gruppo di neri Cavalieri d’Oro tentò di sbarrargli il passo ma venne risucchiato dentro un vortice di fiamme, che roteò sul posto per qualche secondo prima di venir diretto verso il cuore dell’esercito avverso. Pareva che Andrei provasse gusto a essere lì, nella mischia, che la cercasse la mischia stessa, incurante di possibili reazioni dei Progenitori.

O forse è proprio questo che vuole fare? Forzare loro la mano e farli scendere in campo?

Non sarebbe una cattiva idea. Realizzò il ragazzo, mentre una corrente d’acqua oscura lo investiva, spingendolo indietro, e iniziava a solidificarsi attorno alle sue gambe. Stiamo soltanto perdendo tempo e energie con i tirapiedi di Caos, mentre gli Dei Primordiali aspettano dietro quella barriera di luce. Rifletté, bruciando il proprio cosmo ardente e liberandosi da quell’effimera prigionia di ghiaccio nero. Quanti compagni sono già morti? Quanti si sono specchiati nei volti degli amici o dei soldati al cui fianco avevano combattuto prima di venire proprio da loro uccisi?

Soltanto di fronte alla Porta del Giorno, il Cavaliere della Fenice aveva sentito spegnersi una decina di cosmi, appartenenti alle Amazzoni e ai pochi Faraoni delle Sabbie che rimanevano. Senza contare i soldati semplici caduti, di cui, preso dalla battaglia in atto, non aveva potuto percepire la fine. E ovunque, di fronte alle altre porte, la situazione era identica. Pegasus, Sirio, Cristal e suo fratello stavano vivendo lo stesso incubo.

Chissà come Andromeda sta affrontando la cosa! Si chiese, mentre scattava in avanti, le braccia avvolte nel fuoco, investendo un Cavaliere dell’Acquario. Chissà cosa ha provato nel ritrovarsi di fronte vecchi nemici! Chi avrà incrociato nel suo intralciato avanzare verso la Porta delle Tenebre? Mime, Sirya, Orfeo? Distendendo le labbra in un fugace sorriso, Phoenix si disse che avrebbe voluto sapere anche lui chi erano questi suoi avversari; così, per diletto o forse per conciliare le ruvide parole di Andrei con il cuore che gli ricordava che quegli automi erano stati esseri umani, finse che il Fantasma Diabolico funzionasse. Finse che vi fossero menti da scandagliare, abissi dell’animo in cui avrebbe potuto affacciarsi per carpirne i segreti e dare un nome a coloro cui stava strappando, di nuovo, la vita.

Ecco allora che l’Acquario Nero di cui aveva disciolto i ghiacci prendeva il nome di Tristano e il Toro furioso, che Andrei aveva atterrato, era forse il colossale guerriero che aveva impedito a Phobos e Deimos di invadere il Santuario di Atena durante la prima Guerra Sacra contro Ares? Si dispiacque di non ricordare il suo nome e, nel farlo, piombò su una Vergine Nera, che di virgineo non aveva più niente, sporca, nel profondo del cosmo, di una volontà aliena che ne aveva deturpato il candore.

Era lui Asmita della Vergine, l’indagatore dei misteri della vita? O era forse Shijma, l’eroe che salvò Atena dal male annidatosi nel Santuario? Troppi nomi, troppe vite, troppe storie che si incrociavano, confondendosi e annerendo l’unica verità. Tutti loro erano stati Cavalieri d’Oro di Atena e come tali avrebbe dovuto trattarli.

Come tali avrebbe dovuto affrontarli.

Balzò via dalla schiena distrutta della Vergine Nera, il cui corpo andava dissolvendosi in cineree nubi d’odio, e radunò quanto più cosmo poté, mentre la fiumana d’oro nero si chiudeva su di lui.

"Adamant del Leone! Ascanus dello Scorpione! Shin dell’Ariete! Alla vostra anima devota al bene mi rivolgo. Per purificarla!" – Esclamò, prima di portare avanti i pugni, in un turbinar di fiamme. –"Ali della Fenice!!!" –E li spazzò via.

***

Poco oltre, Febo e Marins lottavano schiena contro schiena contro una massa confusa di avversari. Per primi avevano respinto i Savanas africani; era stato il figlio di Amon a riconoscerne le tozze vestigia, ammirate in gioventù (un tempo che persino per gli Dei era lontano) durante un viaggio nel cuore dell’Africa con suo padre. Là si erano imbattuti in tribù di guerrieri dotate di cosmo, là, per la prima volta, Febo aveva imparato che il mondo era un posto ben più grande di quanto avesse creduto fino ad allora, di quanto suo padre gli aveva spiegato. Soltanto secoli dopo aveva compreso la reticenza del genitore, mossa dalla volontà di saperlo al sicuro.

Sorridendo al suo infinito affetto, quasi non s’era avveduto dell’affondo di un’agile figura, le forme della cui corazza richiamavano un pericoloso mamba nero. Era stato Horus a interporsi tra loro, piombando dall’alto sull’avversario e colpendolo al petto col tacco teso, mille e più volte, frantumando l’armatura e quel che stava là sotto. Una poltiglia nerastra che a Febo e Marins aveva subito ricordato gli esperimenti di Anhar. Era incredibile che, dopo tutte quelle battaglie, quel bastardo rinnegato fosse ancora vivo e non si fosse stancato di inquinare il mondo con la sua mala genia.

Solo allora gli sovvennero le parole di Ascanio, quelle che il Glorioso Comandante aveva condiviso con tutti loro prima di lasciare Asgard. Avalon aveva davvero avuto la possibilità di porre fine all’esistenza del fratello traditore? E, in tal caso, perché aveva esitato? Credeva davvero che Anhar fosse recuperabile? O il Signore dell’Isola Sacra aveva in mente qualcos’altro?

Quali che fossero le sue ragioni, ormai non avrebbero più potuto chiederglielo. Avrebbero soltanto potuto continuare a lottare, per vanificare i tentativi dell’Angelo Oscuro e onorare la memoria del mentore di tutti loro. Anche di Febo, che ad Avalon aveva trascorso una quindicina d’anni, imparando, crescendo e soprattutto trovando un amico.

Il ragazzo dagli occhi azzurri che stava faticando accanto a lui, difendendogli le spalle. Un uomo e un semi-Dio, amici. Aveva dovuto aspettare quanti secoli per vivere un miracolo simile? Tanti. Ma ne è valsa la pena!

Sorrise, mentre Marins scatenava gli azzurri flutti di energia contro un gruppetto di guerrieri oscuri. Febo sollevò il braccio al cielo, lasciando che una sfera di cosmo rossastro divampasse sul palmo della sua mano, prima di riconoscere le armature di chi li aveva appena circondati.

Un tempo erano corazze rosse, gialle e arancioni, qualcuna persino marrone, colori che, scherzando, Febo aveva associato al fango e alla monotonia delle sabbie del deserto, invitando il padre a scegliere ben più variegati colori. Ma la risposta di Amon Ra gli aveva tolto ogni dubbio.

"Siamo quello che siamo. Non dobbiamo mai dimenticare le nostre origini! Noi siamo i signori del deserto, non di montagne, foreste o cieli lontani."

Febo se lo ripeté in quel momento, mentre i Faraoni delle Sabbie scattavano in avanti, i pugni tesi per colpire il figlio del Dio per cui erano morti.

"Perdonatemi!" –Mormorò Febo, socchiudendo gli occhi, mentre l’intenso bagliore del suo cosmo dipartiva dal globo energetico, allungandosi in migliaia di giavellotti rossastri. –"Lancia del sole!" –Tuonò, colpendo, con un unico attacco, tutti i guerrieri attorno a loro e guadagnandosi anche un’occhiata sorpresa, quasi divertita, da parte di Marins.

"Un attacco a raggiera!" –Analizzò questi. –"Fai progressi in fatto di tattica. Hai imparato da me?"

"Il giorno in cui vorrò perdere una mano, ti chiederò lezioni di strategia!" –Ironizzò Febo, strappando una risata all’amico, prima che l’avvicinarsi di nuovi avversari li distraesse. Eppure Marins aveva ragione: era cresciuto, anche come guerriero, l’ultimo ruolo che, anni addietro, avrebbe pensato di occupare. Era stato un bastardo, per alcuni, un principe per altri, un sognatore per Iside e un fratello per Horus. Quando aveva pensato al futuro, nelle interminabili giornate trascorse nell’isolamento di Karnak, si era visto come un musicista, che avrebbe girato il mondo, scoprendone i segreti e allietando gli animi inquieti dei suoi abitanti, suonando il sistro.

La vita lo aveva portato su strade diverse ma, per quanto costretto a combattere, non aveva mai avuto lo spirito del guerriero e forse, una parte di sé, quella che attingeva alla sua origine divina, non ne aveva avuto bisogno.

"Sei il figlio di un Dio!" –Gli aveva detto Marins una volta ad Avalon, mentre si allenavano sulle rive del lago. –"Non hai bisogno di esercitare il cosmo, basta che pensi qualcosa e si avvera. Io, invece, se voglio far sollevare queste maledette acque, devo sforzarmi!"

Aveva ragione. Ma solo in parte. Contro i Progenitori e i loro servitori, essere un semidio non era abbastanza. Febo lo aveva capito col tempo, come aveva capito cosa voleva dire sudare e lottare per qualcosa. Così si era immerso nelle acque del lago di Avalon e aveva iniziato ad allenarsi con Marins, uno a sollevarle, l’altro a deviarle.

"Attento!" –Gridò il Cavaliere dei Mari Azzurri, sbattendolo a terra, mentre un fascio di energia scura sfrecciava sopra le loro teste. –"Riporta indietro i tuoi pensieri. Siamo in guerra, se non l’hai notato!" –Gli disse, rialzandosi e fronteggiando l’uomo che li aveva assaliti. Un uomo che aveva visto morire nemmeno due giorni addietro, di fronte alla pozza sacra a Iside.

"Ermanubi…" –Mormorò Febo, rimettendosi in piedi a sua volta. –"Faraone dello Sciacallo!" –E alle sue spalle c’erano anche Osorkon del Falco, Tutmosis dell’Ibis e altri caduti a difesa di Karnak.

"Me ne occupo io!" –Intervenne Marins.

"No!" –Lo fermò Febo, facendosi avanti, mentre già il cosmo rossastro lo avvolgeva. –"Come hai detto poc’anzi, siamo in guerra. A ognuno i suoi nemici!"

Prima ancora che terminasse di parlare, i tre Faraoni erano già schizzati in avanti, mescolando i loro assalti in una fiera di energia che, in un gioco di ombre, pareva assumere i tratti di uno sciacallo, di un falco o di un ibis reale. Senza perdersi d’animo, Febo levò di nuovo il braccio, evocando una sfera di cosmo rossastro, da cui scaturirono due lance di energia, che si piantarono nell’assalto avversario, separandolo e permettendogli di individuare i tre contendenti. Quindi espanse la sfera, allungandola di lato fino a generare un occhio.

Anche se ormai il loro animo era avvelenato da Caos, Febo vide il terrore comparire su quei volti smunti, mentre l’occhio di Ra si apriva e l’immensa luce del sole ne usciva, disintegrandoli. Avesse avuto il tempo, il Cavaliere di Avalon avrebbe cantato, uno dei tanti inni ai morti che Osiride gli aveva insegnato, ma il tempo era un lusso che nemmeno gli Dei, e la loro progenie, potevano permettersi più.

Fu allora che la sentì.

Una puntura.

Alla base del collo, sulla schiena, dove i capelli biondi non giungevano a coprirla.

Sollevò una mano per capire cosa lo avesse colpito e si ritrovò ad afferrare una viscosa creatura che si dibatteva, ancorata alla sua pelle da quelli che, convenne, erano denti.

"Quale orrore è mai questo?" –Esclamò, riuscendo infine a strapparla via dalla ferita, ritrovandosi a osservare una bestia composta di energia violacea, con il muso da topo, zanne da cui ancora colava il suo sangue, e larghe ali che continuava a sbattere.

La stava ancora osservando quando la creatura spiccò il volo, fiondandosi su una vena del suo collo e affondando di nuovo i sottili denti, costringendo Febo a liberare una vampata di cosmo, annientandola. Scosse la testa, ritrovandosi a barcollare, fino a essere afferrato da due braccia amiche.

"Stai bene?" –Gli chiese Horus, con aria preoccupata, strappandogli un cenno d’assenso.

"Quella bestia… quella specie di pipistrello… credo che si stesse nutrendo…"

"Guarda!" –Annuì il Dio Falco, indicando i soldati d’Egitto attorno a loro.

Tutti erano intenti, oltre che a combattere l’Armata delle Tenebre che non accennava a ridurre l’intensità degli attacchi, anche a fronteggiare quelle bizzarre creature volanti, che si fiondavano sui corpi dei soldati, affondando nella pelle nuda, distraendoli, ferendoli e, in alcuni casi, persino piegandoli a terra.

"Maledizione! Una tattica per deconcentrarci?"

"Molto di più, temo!" –Commentò Horus, proprio mentre una bestia gli passava di fronte, per precipitarsi sulla ferita ancora aperta di Febo. La afferrò per un’ala, strattonandola, ma questa si liberò di scatto, piantando i denti in un dito del figlio di Osiride, dove la corazza non lo copriva più, costringendolo a scuotere la mano per togliersela di dosso.

"Mmm… sangue divino… quale delizia!" –Esclamò allora una voce.

Febo e Horus si guardarono attorno, per capire da quale, dei tanti guerrieri in corazza nera che li circondavano, provenisse, salvo ritrovarsi ad ammettere che sembrava provenire proprio dalla bestia volante che, staccatasi dal dito del Nume egizio, era rimasta a volteggiare di fronte a loro. Dalla bestia volante e da tutte le altre che avevano invaso il campo di battaglia, quasi fossero una sola entità.

"Adesso capisco le abitudini alimentari di Lord Caos e dei Progenitori!" –Continuò la voce atona. –"Dopo aver assaggiato una simile squisitezza, difficile tornare a bere il sangue dei normali Cavalieri!"

"Che razza di mostro sei?" –Ringhiò Horus, scandagliando i nemici alla ricerca di colui che li stava deridendo.

"Mostro? Soltanto un uomo che, in questo scontro tra titani, cerca di sopravvivere. Niente di più. E, per farlo, ho bisogno di energia che tu, figlio di Osiride, mi fornirai. Attaccate, strigi!" –Gridò, mentre centinaia di bestie volanti si diressero verso Horus, mirando al volto, al collo, alle parti del corpo scoperte dalla Veste Divina, forzandolo a dimenarsi e ad agitare le braccia, cariche di energia cosmica, per tenerli a distanza. –"Continua così, mio buon amico, continua a darmi quello che voglio. Ih ih ih!"

"Horus!" –Esclamò Febo, osservando terrorizzato la scena. Quindi, senza perdersi in dubbi, sollevò una sfera di cosmo rossastro sopra la testa, liberando decine e decine di lance energetiche, che colpirono i pipistrelli violacei con precisione millimetrica, senza sfiorare il corpo del Dio.

Solo uno ne rimase, uno che fluttuò in aria, schivando l’affondo di Febo e andando a posizionarsi proprio sopra la sua testa. Il figlio di Amon si mosse per colpirlo ma una mano d’argento fu più veloce, chiudendosi proprio sulla bestia e schiacciandola tra le dita, fino a percepire una leggera detonazione.

"Marins?!" –Si voltò Febo, mentre l’amico si faceva avanti, il Tridente dei Mari Azzurri saldamente nell’altra mano.

"Vampiri succhia energia? Mossa intelligente, ma inutili su chi possiede una mano artificiale." –Commentò, prima di individuare il suo avversario che si faceva spazio tra la massa di guerrieri neri. Alto e snello, con un viso cereo e chiazzato di efelidi, l’uomo indossava una corazza pressoché integrale, simile a una tuta priva di orpelli, di colore viola scuro, lo stesso delle creature alate. –"Ancora vivo?"

"Lo conosci?"

"Lo avevo individuato fuori da Karnak. Mi aveva colpito quello stormo di bestiacce di cui si circondava, ma non ero riuscito a investigare oltre."

"Quelle che definisci bestiacce sono le mie figlie, le strigi, Cavaliere! E le figlie fedeli difendono sempre il padre!" –Esclamò l’uomo, fermandosi infine di fronte a Marins. –"Come in Egitto così adesso!"

"Vedo che Caos si è deciso a mandar fuori qualche guerriero vero. Cominciavo a stufarmi di combattere contro dei fantasmi, ma tu, amico, non mi offri di certo un vero scontro. Vampiri di puro cosmo? E poi dicono che noi americani siamo trash!"

"Qual è il tuo nome, lingua lunga?"

"Marins Aircetlam!" –Disse il Cavaliere dei Mari Azzurri, espandendo il proprio cosmo azzurro. –"E il tuo? Dracula?"

"Del possente Vlad sono ammiratore devoto, ma io sono Eogan, il Nefario delle Strigi, e posso assicurarti, Marins Aircetlam, che sono molto più spietato di lui!"

***

Lo svegliò una brezza leggera, il che era strano dato che si trovava nelle profondità oceaniche. Eppure non raro.

Una volta, quando era bambino e non aveva ancora affrontato la prova, sua madre gli aveva raccontato che, di tanto in tanto, poggiando l’orecchio sulle pareti delle Conchiglie, era possibile ascoltare il mare, sentirne il respiro sulla pelle, come fossero venti oceanici. Poi sua madre era morta, l’Avaiki era stato invaso e distrutto e adesso era un esule in terra straniera, lasciato indietro dal Comandante che lo considerava un peso morto e dai suoi compagni, di poco (quanti mesi?) più grandi di lui.

Perché Toru gli aveva fatto questo? Se l’era chiesto fin da quando aveva riaperto gli occhi ma la stanchezza, le ferite riportate e forse anche qualche droga che gli era stata messa nel cibo lo avevano fatto sprofondare di nuovo in un sonno che ben poco lieto era stato.

Ogni volta in cui chiudeva gli occhi, Kohu continuava a vedere la distruzione dell’Avaiki, le grandi onde che si abbattevano sulle Conchiglie, nascondendole per sempre a occhio umano. Se anche la guerra fosse finita, se anche fossero riusciti a vincere i Progenitori, gli Areoi ne sarebbero comunque usciti sconfitti.

Con quel pensiero in mente, si alzò dal giaciglio su cui da ore riposava. Da quante? Nemmeno riusciva a ricordarlo. A stento riusciva a ricordare le parole di Toru, quando lo aveva preso da parte, prima di partire, mentre si allacciava gli spallacci dell’armatura, e aveva biascicato qualcosa sulla necessità di garantire un futuro al loro popolo. Così, distratto dalle attenzioni dello Squalo Bianco, non aveva neppure sentito il tocco delle sirene sulle sue spalle, né la cantilena che avevano inscenato per stordirlo.

Eccolo qua, il valoroso Kohu dell’Istioforo, sopravvissuto all’inabissamento dell’Avaiki per poi svenire ai piedi di quattro fanciulle dalle gambe a pinna di pesce. Quale guerriero! Degno di essere cantato dagli aumakuas!

Cacciando via quei foschi pensieri, indossò degli abiti messi a sua disposizione e uscì fuori dalla stanza in cui si trovava, incamminandosi a piedi nudi nei tortuosi corridoi del palazzo di Euribia. A differenza delle precise, quasi squadrate, costruzioni di sabbia che costellavano le Conchiglie, quell’edificio sembrava sorto per caso, sviluppandosi come una pianta di corallo in decine di ramificazioni diverse. Per un attimo, pensò che si sarebbe perso ma poi percepì il canto, simile a quello che l’aveva addormentato.

Lo seguì, ritrovandosi in un’ampia sala, dal pavimento di sabbia e dalle mura in puro corallo, che si riunivano sopra la sua testa a creare una griglia oltre la quale, lontano, poteva ammirare l’oceano. Euribia era lì e si pettinava i capelli, canticchiando, seduta di fronte a un grosso specchio rotondo.

Incuriosito, Kohu si fermò a studiarlo, capendo subito che non era un semplice utensile casalingo. Lui, infatti, non riuscì a vedersi riflesso. Vide Toru invece. Lo vide combattere e digrignare i denti, lo vide abbattersi tra i nemici e sbranarli con le fauci dello Squalo Bianco. Infine lo vide esitare, mentre un guerriero con una lunga asta di cosmo scattava su di lui, mirando al suo cuore.

"Non è possibile! Ma quello è… Maru?!"

"Ben svegliato!" –Esclamò Euribia, voltandosi e facendogli cenno di avvicinarsi.

"Che sta succedendo? Perché Toru sta combattendo contro Maru? E perché…?"

"Maru? Era dunque quello il suo nome da vivo?"

Kohu annuì, prima che la sposa di Crio gli spiegasse quel che stava accadendo, quello che, in quei pochi minuti, era riuscita a carpire osservando il campo di battaglia. Le costava molto usare la Vista e temeva che, forzando troppo la mano, Caos avrebbe potuto individuarla e giungere a loro. Non che temesse per la sua vita, che in fondo durava da fin troppo tempo, ma per quella di coloro che vivevano nell’ultimo paradiso perduto negli oceani. Gli Areoi feriti, gli abitanti dell’Avaiki che avevano perso tutto, le sirene, i tritoni e tutti i membri di un ecosistema che aveva contribuito a mantenere intatto nel corso di secoli. Perciò, alzandosi, sfiorò lo specchio e chiuse le sue visioni, strappando a Kohu un moto di disappunto.


"Devo andare ad aiutarli! I miei compagni… stanno combattendo anche per me!"

"Non solo per te, giovane Istioforo. Loro combattono per tutti noi, per la salvezza della Terra!"

"Motivo in più per dare loro aiuto!"

"E violare i dettami del tuo Comandante? Non prevede forse il kapu il rispetto per l’autorità costituita?"

"Io… non lo so. Non so più niente, ormai!" –Esclamò Kohu, accasciandosi a terra, gli occhi pieni di lacrime. –"Non so nemmeno perché mi abbiano lasciato indietro. Ero un peso per il Comandante? Non sono all’altezza di Parò e degli altri?"

"Oh, piccolo Kohu, non per questo Toru non ti ha portato con sé. Lo ha fatto per salvarti, per tenerti lontano da una guerra dove tutti moriranno e garantirti un futuro. Sei il più giovane degli Areoi, sulle tue spalle ricade il peso di fondare una nuova colonia e Toru ritiene tu possa farlo. Sai quali sono state le sue ultime parole? Le ricordi?"

Kohu scosse la testa, mentre Euribia gli sfiorava la fronte, infondendogli calore. E riportando alla mente immagini recenti.

"Ho già visto morire troppi amici. Il sangue di Maru e Tara macchia ancora le mie mani. Impazzirei se ti vedessi cadere. Sei come un figlio per me. Riposa, Kohu. Riposa. Quando ti sveglierai, potrai tornare a girare il mare. Te lo prometto."

"Comandante…" –Mormorò il giovane Istioforo.

"Lo ha fatto per proteggerti. Non essere adirato con lui. A volte le persone che amiamo mettono in atto strani rituali per tenerci al sicuro, rituali che non capiamo di primo acchito ma che poi, soltanto in seguito, comprendiamo essere nati dall’enorme amore che nutrivano per noi." –Sospirò Euribia. –"Non posso trattenerti, se vuoi andare. Ma pensa alle parole del tuo Comandante e fa’ la tua scelta. Non gettare via la vita, nessuno dei tuoi amici lo vorrebbe!"

"Non lo farò!" –Esclamò Kohu, rimettendosi in piedi. –"Combatterò per tenere alto il valore della vita! Per gli aumakuas vecchi e nuovi! Per il futuro!"