CAPITOLO II

 

La solitudine è una tempesta silenziosa

che spezza tutti i nostri rami morti;

e tuttavia spinge le nostre radici viventi

nel cuore vivente

della Terra vivente.

Kahlil Gibran

 

Piove. La luce tremolante dei lampioni illumina debolmente la strada e la riva del mare, immerso nel manto notturno. È così da una settimana. Quella sottile cortina argentea e dorata sembra volermi trattenere. Non importa. Sono stanco. Tremendamente stanco.

Guardo il libro che mi è caduto a terra. Probabilmente sono delle ore che è lì. Attende che una mano pietosa lo ricollochi al suo posto, sulla libreria. Mi dovrei alzare, raccoglierlo. Eppure resto immobile, abbandonato sulla poltrona. I miei muscoli si rifiutano di rispondere ai miei comandi. In realtà, non voglio alzarmi. Non ne ho più la forza.

La pioggia batte con insistenza sempre maggiore. Martella i vetri, rimbomba ovunque nella stanza. Non sento altro. C’è solo lo scroscio incessante dell’acqua. È un fischio nelle orecchie, così forte che mi sembra di impazzire. Fa male. Terribilmente male. Ho un cerchio alla testa che mi impedisce di pensare.

Guardo il mio bicchiere, sul tavolino. Chissà perché l’ho riempito. È stato un gesto meccanico. Nulla di più. Il ghiaccio ormai si è sciolto, annacquando inesorabilmente il mio schotck. Arriccio il naso, nauseato. Ma poi penso che in fondo è meglio così. Tanto, non l’avrei bevuto comunque.

Sospiro, cercando di rilassarmi sulla poltrona. Inutile. Se solo questo mal di testa diminuisse un poco…Credo proprio che l’unica sia prendere un’aspirina. L’ennesima.

Se lo sapesse il medico mi farebbe una bella ramanzina; perché non si può continuare solo con le aspirine. Scrollo le spalle. Non mi sono mai stati molto simpatici, i medici. Ho sempre cercato accuratamente di evitarli, figuriamoci se adesso li cerco per una semplice emicrania. Tracanno d’un fiato il farmaco ormai sciolto. Pizzica piacevolmente la bocca e la gola, ma è amaro. Dannatamente amaro. Come la mia vita.

Raccolgo l’orsetto di stoffa abbandonato sul divano. Mi osserva da quando sono tornato in questa casa. Non mi ricordavo che fosse rimasto qui. Sorrido, pensando con quanta foga deve essere stato cercato. Poverino. Restare qui da solo, per dei mesi, lontano dalla sua padroncina…Avrà sofferto di nostalgia? Si sarà mai chiesto se lo hanno abbandonato?

Scuoto la testa. Vorrei riuscire a scacciare tutta la nebbia che mi appanna gli occhi. Nebbia in casa, poi; questa è davvero bella. Ma sì, cerco di convincermi che è nebbia, o solo uno strano effetto creato da qualche gioco di luce. O forse sto impazzendo. Ecco, è così. Sto letteralmente delirando. Anche se sono perfettamente sobrio. Probabilmente, sono gli effetti di una dieta a base di aspirine. Rimbambisce un po’.

Eppure, quegli occhioni scuri sembrano supplicarmi di riportarlo dalla sua compagna di giochi. Elektra…Il tuo visetto sorridente, i tuoi capelli biondi, i tuoi occhi scuri si affacciano alla mia mente. Avrei tanta voglia di rivederti. Di passare qualche giorno con te.

Quando mio fratello mi ha detto che sarei diventato zio, ho sentito qualcosa sciogliersi dentro di me. Sono fuggito dalla mia libertà e sono corso da lui, a Parigi. Per tutta la vita ho tentato di renderlo un uomo. Di fare di lui una persona in grado di provvedere a se stessa. Ed è questo che è ora. Ma la cosa mi fa male. Non ho mai pensato che potesse essere così. Vederlo camminare con le proprie gambe. E sentirmi all’improvviso inutile. Perché, alla fine, é successo. Lui é cresciuto. E quella sera, all’ospedale, mi sono reso conto veramente che accanto a me non c’era più un ragazzo, ma un uomo.

Mi sono sentito fuori posto, di troppo. In fondo, io ero sempre apparso e scomparso dalla sua vita. Potevo benissimo farlo anche quella volta. Eclissarmi in silenzio.

Invece, mio fratello mi ha afferrato per un polso e mi ha trascinato in camera, mettendomi in braccio lei, la bambina. Elektra. Mia nipote.

Era un fagottino morbido e rosa, e io avevo paura di essere troppo rude. Avevo già tenuto in braccio, prima di allora, bimbi nati solo da poche ore. Ma quello che provai in quel momento fu una sensazione strana. Avevo un nodo alla gola che non avevo mai conosciuto prima; e invidiavo mio fratello. Per la prima volta in vita mia. Lo invidiavo. Ero felice per lui, ma lo invidiavo. Perché lei non era al mio fianco, e io non avrei mai vissuto tutto quello che stava vivendo lui.

Scoppio a ridere. Una risata roca e amara, malata. E continuo, anche quando il rombo dei tuoni è tanto forte da coprire ogni altro rumore. Rido. Rido. Sempre di più. In un crescendo quasi isterico. Rido. Rido. Rido. Finché non mi ritrovo in apnea.

Smetto. Così, di colpo. Come ho iniziato.

Non ho voglia di ridere. Non ne ho motivo. Rido semplicemente per non piangere. Perché le lacrime non mi sono mai appartenute.

Invidia…Sì, lo ammetto. Invidio mio fratello. Invidio lui, e anche gli altri. Perché loro ce l’hanno fatta. Si sono rialzati. Come si dice?..."La vita continua"…Sì, si dice proprio così. La vita va avanti. Lei non guarda in faccia nessuno. Procede dritta per la sua strada, lungo i suoi binari ben tracciati. E non le importa nulla se qualcuno si smarrisce lungo la via. Va sempre avanti. Anche senza le nostre domande e le nostre angosce. Perché al mondo non interessa nulla di noi, delle nostre crisi depressive o dei nostri scoppi di gioia; né delle nostre lacrime né dei nostri sorrisi. Non gli importa. Va avanti lo stesso. Con o senza di noi.

Forse è un po’ raccapricciante; sicuramente è desolante. Ma è la verità, nuda e cruda. E non ci si può far niente.

Loro si sono rialzati, e hanno ricominciato a camminare. Ci sono voluti degli anni, certo; ma il tempo in certe situazioni è l’alleato migliore. E instancabile ripete la sua eterna lezione: che anche il più grande dei dolori deve cedere il passo.

Cos’hanno fatto di speciale? Assolutamente niente. Hanno semplicemente scelto di tornare a vivere. Tutto qui. Scelto di ridere delle piccole gioie quotidiane. Di continuare a sperare.

Ci ho provato anch’io, a rialzarmi. Ed eccomi qua. Mi sembra di essere un relitto. Una di quelle vecchie assi di legno marcio, tutta corrosa e incrostata di salsedine che alla fine anche il mare rifiuta, gettandola ad agonizzare sulla battigia.

In fondo, però, a galla riesco a stare. E strascico la mia vita piano-piano. Ma volare no; non ce la faccio più. Le mie ali sono come appesantite dal piombo; non ho la forza per risalire l’abisso e volare ancora alto nel cielo.

Ormai, il mio è solo un volo radente. E la cosa che mi spaventa di più è che sono stato io a permettere tutto questo. Perché sono stato io a mollare per primo, piantandoli in asso all’improvviso, troppo stanco per continuare quella tragica commedia. Persino per giocare il mio gioco. Semplicemente annullato.

Ho voluto riconquistare la mia indipendenza. In realtà, sono scappato verso la solitudine come verso l’ultimo rifugio al mondo.

Le mani che mi hanno teso le ho strette, ma non mi ci sono aggrappato. Sono rimaste i soli punti fermi di questa mia vita errabonda.

Mi alzo barcollando. Sto malissimo. Mi sembra di essere completamente ubriaco. Forse non avrei dovuto prendere quella dannata aspirina a stomaco vuoto. Scrollo le spalle. Non ha importanza. Non è certo la prima volta che mi succede. So bene come riacquistare in fretta piena lucidità.

Mi libero del maglione e mi trascino in bagno. Apro l’acqua e mi sistemo sotto il getto gelido della doccia. Così come sono; con i vestiti addosso. Nulla. All’inizio non sento nulla. Assolutamente niente. Poi, all’improvviso, mi si accappona la pelle, e inizio a tremare; batto i denti e mi sfrego istintivamente le mani sugli omeri, stringendo quasi convulsamente la stoffa bagnata della camicia. Sento l’acqua scivolare su tutto il mio corpo; insinuarsi fra le pieghe bagnate degli abiti, fra i capelli. La sento scorrere su tutto il mio corpo, bruciando. Non avrei mai immaginato che l’acqua potesse bruciare tanto. Come il fuoco. Fino a spezzarmi il respiro.

Esco dalla doccia grondante acqua e mi butto sul letto. Così come sono. Fradicio e col corpo pressoché anestetizzato dal gelo. Sono esausto. Ho svuotato la mente, cancellato ogni pensiero. Forse non avrò neanche la forza di sognare lei, ma l’unica cosa che voglio, adesso, è dormire.

 

 

Faccio scorrere velocemente la cerniera della sacca. Una è pronta. Perfetto. Devo solo finire l’altra e sono pronto. Ho deciso, infatti: me ne vado. Dove di preciso, non lo so; e se devo essere sincero non mi importa neanche. Europa, Egitto, America…Un posto vale l’altro. Mi basta cambiare aria. Ho bisogno della mia vita disagiata, errante…Di quella vita di tanti anni fa…

Grecia. È un pensiero che prende corpo piano-piano nella mia mente. Un ricordo che porta con sé l’odore caldo del sole e della ginestra. Grecia…Da quanto non ci torno? Mesi di certo. Come minimo un anno, o forse due. Ci sono troppi ricordi tristi legati a quella terra. E, in fondo, cosa ci tornerei a fare? A piangere e disperarmi? No. Non ho nessuno che mi aspetti, là.

Mi blocco di colpo, pietrificato dai miei stessi pensieri. Non solo là, in Grecia. Io non ho nessuno che mi aspetti dovunque. Eccola, la verità. Sono solo. Miserabilmente solo. Anche questo mio continuo viaggiare per il mondo, probabilmente, è solo l’insensato tentativo di convincermi che forse un giorno la potrò rincontrare. Il desiderio di urlare che lei non se n’è andata. Idiozie. Stupide idiozie. Perché lo so…lo so che lei non c’è più! Lo so! Dannazione, lo so!

"Lo so !!!"

Ho urlato. Non l’avrei mai detto, ma l’ho fatto. Ho perso il controllo; non mi sono limitato a farla esplodere dentro di me tutta questa rabbia. Non questa volta. Ho aperto la bocca e l’ho gridata al mondo. Tutto il mio dolore. Anche se la voce che ho sentito era così profonda, greve; così carica di frustrazione. Non era la mia voce. Non poteva esserlo. Non riesco a crederci. Perché non sono riuscito a riconoscerla. Sembrava un urlo strozzato, un …Non lo so. Non so cosa poteva sembrare, ma di certo non la mia voce; o forse, non la voce che ricordavo come mia. Probabile. Sono così abituato ad ascoltare solo i miei pensieri, da aver dimenticato anche il suono della mia stessa voce.

Mi lascio cadere supino sul letto, e con un braccio mi copro gli occhi e la faccia. Mi viene da ridere. Quasi. Un sorriso mi piega le labbra, ma si storce in una smorfia. Forse riderei, se le lacrime non mi pungessero gli occhi. Sono penoso. Dannatamente penoso. Un peso morto che si trascina ormai per inerzia; come l’onda che si fa trasportare dal mare.

E allora cosa accidenti ci faccio qui a fare le valige? Avevo deciso di partire... Benissimo! Ora ho deciso di restare. Averlo gridato forte ha fatto sì che ne prendessi coscienza davvero, dopo più di dieci anni: lei non c’è più! E per quanto io possa girare per il mondo, non la rincontrerò mai. Dunque, per quale dannato motivo dovrei muovermi da qui?

Ce ne fosse almeno uno, di motivo. Uno solo…

Socchiudo appena gli occhi: eccola la mia motivazione. E ha l’aspetto di un orsacchiotto di pezza, che non sembra aspettare altro che io mi decida a finire quella maledetta borsa per tornare dalla sua amichetta.

Sorrido. Mi sento uno stupido. Terribilmente stupido. Ma è una sensazione bellissima. Altro che solo; io qualcuno che mi aspetta ce l’ho. E devo decidermi ad andarlo a trovare, una buona volta, prima che si stanchi di aspettarmi. E io non voglio rischiare che si stanchi.

Sì, devo decidermi a infrangere quest’immagine di lupo solitario, di misantropo, che mi sono cucito addosso. Buttarla alle ortiche, e chi s’è visto s’è visto! Infrangerla…Un attimo! Con moderazione, s’intende. Lupo solitario sono, e lupo solitario rimango. Non mi piace stare troppo fra la gente. Ma anche un lupo, ogni tanto, può aver voglia di tornare al branco.

Ho cambiato di nuovo idea. Parto. È deciso. Ho un orsacchiotto da restituire alla sua legittima proprietaria.

Afferro la sacca e inizio a finire di riempirla. Non è molto grande; d’altronde, non mi serve poi molto, e quello di cui ho bisogno ci sta benissimo in queste due sacche da agganciare alla moto. Pazzesco. Devo essere completamente impazzito. Non solo sono qui che sorrido come un ebete, mentre cerco di farci stare tutto, in borsa, ma sono anche contento. Come non lo era da tanto. E per tutto questo devo ringraziare quel vecchio orsacchiotto. Mi sto rammollendo. Decisamente.

Guardo fuori dalla finestra. Piove ancora.

Scrollo le spalle con noncuranza. Pazienza. Non ho paura dell’asfalto bagnato e scivoloso. E credo che nulla riuscirà mai a farmela venire. Mi dispiace solo che dovrò tenere il casco ben allacciato e con la visiera abbassata. Ecco, questo mi secca. Solo questo. Perché adoro sentire l’aria in faccia, fra i capelli.

Una musichetta, fortemente cadenzata, mi colpisce le orecchie senza preavviso. Cosa…? Il cellulare. Il mio cellulare. L’ho dimenticato acceso. Maledizione. È acceso. Un errore che non commetto mai, di solito. Afferro la giacca e frugo nelle tasche, mentre la musica non accenna minimamente a diminuire. Ma si può sapere chi mi cerca con tanta insistenza? Alla fine, mi ritrovo in mano quella scatolina chiassosa e vibrante.

Chiudo la chiamata senza neanche controllare chi fosse e getto il telefonino sul divano, dietro ai cuscini. Sono ben intenzionato a dimenticarmelo qui. Al diavolo anche gli scocciatori. Non ho voglia di sentire nessuno. Solo di andarmene. Finisco in fretta la borsa e la chiudo con un gesto nervoso, dopo averci infilato l’orsacchiotto.

 

 

Stupenda. Semplicemente stupenda. Ecco com’è la mia moto. Forte, possente, ma con la linea agile e scattante. Nera. Nera con sottili venature blu e qualche sbalzo rosso. Fiera. Con la carena lucida che brilla nella penombra. Ha voglia di correre, di mordere l’asfalto.

E io di sentire l’odore della gomma bruciata dopo una frenata. E la forza che la percorre tutta durante un’impennata.

Aggancio le borse al telaio e lo accarezzo, come se fosse il manto di un purosangue. Il mio purosangue. L’unico capriccio che mi sono concesso.

Controllo la pressione delle gomme, il livello dell’olio, i freni. Perfetto. È tutto in ordine. Sono anni che non la uso, ma è ancora in ottimo stato. Sembra nuova. Nonostante quell’incidente. C’è ancora lo sfregio su tutta la fiancata sinistra. Non ho mai voluto farlo riparare.

Qualcuno potrebbe pensare che lo tengo come monito, o come portafortuna. Me ne hanno dette di tutti i colori. Ma l’unico motivo per cui non l’ho ancora riparato è che semplicemente non ne ho mai avuto voglia. Non ho fretta. E poi, così questa moto la sento ancora più mia. Ecco, forse è solo per questo. Perché abbiamo una cicatrice in comune.

Prendo la tuta dall’armadietto. È nera con le cuciture rosse. Come la moto. Metto un foulard attorno al collo e chiudo il giubbotto fin sotto la gola. Bene. Ormai sono quasi pronto. Non mi resta che sostituire la protezione di acciaio della gamba sinistra. È completamente frantumata. Sistemo la protezione nuova e finisco di allacciarmi lo stivaletto, stringendo i lacci attorno alla caviglia, fissando per bene il cuscinetto di gommapiuma che ho posizionato in più. Sotto la tuta, fra il cuoio della scarpa e la tibia.

Appendo il casco al manubrio e alzo la saracinesca del garage. Fuori c’è la pioggia , la strada e il vento. C’è la mia vita.

Fuori, c’eri anche tu.

"Portami con te".