ArmS

Di battaglie e di memorie

 

 

 

 

I loro pugni fendono l'aria e i loro calci spaccano la terra;

ma i loro corpi sono quelli di normali esseri umani.

 

 

 

 

Da questa frase.

Ho deciso di partire da questa frase e dal duplice valore che in inglese ha la parola arms: braccia e armi.

Perché è uno dei fulcri di Saint Seiya. Mani che sono fatte per combattere; armi che sono carne che si spezza, si rompe, si rovina. Mani (userò spesso il termine mano, invece di braccio) che avrebbero potuto fare molto, e invece imparano una sola cosa.

Una raccolta di drabble, rigorosamente di cento parole l’una. Cento parole per ogni cavaliere d’oro; per raccontare il ricordo delle mani e l’uso inaspettato che ne hanno fatto. Si spazierà nel tempo. Fra serie classica, Episode G, Lost Canvas e un’infanzia che è inventata (me ne scuso con i puristi).

Dodici drabble sui cavalieri d’oro; più una di apertura e di chiusura dedicate ad Atena. Perché da Lei tutto parte. E un piccolo interludio al mezzo.

Questo il progetto. Con un aggiornamento abbastanza regolare di una drabble a settimana, secondo le mie speranze.

Perdonate in caso di mancata puntualità.

Alla vostra gentilezza.

 

 

Anassa

1 Micene

2.Shura

3.Shaka

4.Camus

5.Aldebaran

6. Death Mask

 

Interludio

 

7.Aphrodite

8.Libra

9. Milo

10.Mur

11.Ioria

12.Saga

Inizio

 

 

 

Anassa

[Atena]

 

Non c’è un giorno stabilito.

Una notte accade. Una bambina piange; perché sente forza, e tristezza e caldo e indifferenza. E non conosce ancora parole e pensiero. Ma sente diverso.

E la pietra è fredda; e la statua è grande; e il volto non ha espressione.

Accade.

E Lei riconosce l’aria (pesante) sulla pelle (mortale).

Di nuovo.

Le mani urlare e pianto e rumore e imperfezione.

Rivede. E la bambina ha gli occhi chiusi.

Accede per gioco. In una notte qualsiasi.

E mani (scelte) diventeranno armi. E le armi (che sono le mani) faranno male.

Perché la bambina non pianga.

 

Nota al titolo:

In greco antico, anassa era un epiteto formulare, probabilmente di origine micenea. Riservato all’ambito unicamente sacrale e religioso, si può tradurre con il termine regina ed è inteso a rendere omaggio ad una divinità prettamente femminile. Un po’ il corrispettivo del minoico potnia, insomma.

De verbis

Ab ovo.

Il primo personaggio non rientra realmente nella raccolta. E’ piuttosto la cornice. Il motore da cui scaturisce il tutto. Ma le mani (e le armi) quelle no, non potevo proprio tacerle.

Inizialmente, la drabble non avrebbe dovuto avere una collocazione spaziale precisa, ma complice questa immagine ho ceduto.

Trattare di Atena in cento parole (di lei e della sua reincarnazione) è stato strano. Perché mi sembrava di vedere una scena infinita. Nemmeno il Gran sacerdote cambiava.

Mi sono divertita, questo è certo.

Spero solo che questo primo frustulum sia accettabile (non dico apprezzabile perché io per prima non ne sono pienamente soddisfatta. È probabile che lo riprenda in mano prima della fine della raccolta).

Ho cercato di rendere, assieme, lo smarrimento inconscio di una bambina appena nata che avverte il cosmo entrare in lei e le sensazioni di Atena nel recuperare una natura terrena. Su tutto, naturalmente, veglia il volto inespressivo del Gran Sacerdote.

 

 

1. Schèthon

[Sagitter no Aiolos]

 

Stringe il cielo nelle mani.

Da piccolo: abbraccia tutto il mondo. L’acqua bianca; la neve azzurra; il caldo giallo. E un fratellino che gattona. Gli piace stringere (tutto) con le mani. E il fratellino (che gattona) ha una mano piccola. E lui la culla.

Vuole stringere il vento, nelle mani. Vuole il mare. E il caldo, e la neve e il sudore. E vicino un fratellino (che non gattona più).

Adesso stringe la luce (sottile) di un tendine.

Stringe una mano piccola – non è più il fratellino.

E ha imparato: a lasciare.

La luce sottile; la mano (piccola) della bambina.

 

 

Nota al titolo:

In greco antico, schèthon è il participio nominativo maschile singolare del verbo schetho [schezho] e significa colui che trattiene. Viene impiegato per indicare sia l’azione di saper trattenere un’arma in combattimento, sia di saperla respingere sia il saper frenare sé stessi e la propria emotività.

De verbis

Non potevo iniziare se non da lui: Aiolos. Il primo. Per molti aspetti, il motore della storia come Atena è il motore della vicenda in sé.

Avevo chiara nella mente l’idea di dare di Aiolos non l’immagine stereotipata di chi da sempre è pronto al sacrificio. Al contrario, io sono convinta che Aiolos non sia una vittima; almeno non nel senso comune del termine. E per questo mi rifiuto (categoricamente – quasi - ) di disegnarlo come arrendevole al suo destino.

Mi sono imbattuta in una frase di Midrash Rabba e l’ho fusa con quest’immagine (ebbene sì: molti di questi frammenti hanno un corrispettivo iconografico). Il risultato, è stato questo Aiolos.

Un cavaliere che forse è più simile a un bambino che sogna.

Ho immaginato Aiolos immerso nel suo mondo infantile, e con quei piccoli strani sogni propri di un bambino. Voleva fare il marinaio, il mio Aiolos. E stringere cielo, mare e vento. E avere il suo fratellino accanto.

Il vento ha imparato a stringerlo. Così ho deciso di rappresentare il suo arco (il tendine è quello di bue che anticamente si usava come filamento dell’arma). E la mano di Aiolia trapassa in quella di Atena infante.

Il titolo?

Deriva dalla frase cui facevo riferimento:

Quando l’uomo viene al mondo, le sue mani sono chiuse, come per dire: il mondo intero è mio, voglio tenerlo per me. Quando lascia il mondo, le sue mani sono aperte, come per dire: non ho conservato niente di ciò che esiste in questo mondo.

Questo Aiolos potrebbe trattenere quello che desidera. Da bambino, stringe tanti sogni. Da ragazzo, stringe una declinazione del suo sogno (l’arco e la freccia). E in morte stringe la cosa più profonda: se stesso. E stringendo, lascia andare. E qui si ritorna al titolo e alla frase: la mano chiusa che stringe per abbandonare.

Temo sia un po’ macchinosa, ma l’idea che volevo trasmettere era quella di un Aiolos che alla vita è legato, e lasciarla andare, accettare di trattenersi dal vivere, gli costa sacrificio. Questo credo sia il vero sacrificio di Aiolos: trattenere se stesso.

 

 

 

2. Engaño

[Capricorn no Shura]

 

La bruja non sa scherzare.

Sulla mano (piccola) legge: taglierà. E la linea (che dovrebbe esser lunga) è a metà. E la bruja è seria, mentre guarda e nella mano (con la linea spezzata) vede desperaciòn. Ma ci sono churros (dolci dolci), e i tori e chupinazo alti e alla mano (che taglierà) non ci pensa. Non ci crede.

Perché la Spagna è roja; e il rosso è vida.

Ma il rojo è sulla mano (che ha tagliato). E la linea (a metà) non si vede, ma brucia.

E capisce: la mano (una spada roja) sa uccidere.

Ma può sbagliare.

 

 

 

Nota al titolo:

In spagnolo, engaño è (dovrebbe essere) il participio nominativo maschile singolare del verbo engañar, e significa colui che si inganna.

De verbis

Seconda drabble, secondo personaggio. E dopo Aiolos, la vittima, Shura: il carnefice.

Anche se, in verità, penso che su Shura pesi una malesi dizione ben più complessa e ossessiva che su Aiolos.

Di nuovo, c’è un riferimento "iconografico", più precisamente questo. Partendo da qui, ho provato a creare l’antefatto (se si può chiamare così)

Volevo rendere un’infanzia leggera, ma al tempo stesso minata da qualcosa di preannunciato e ignorato. Da qui l’idea della bruja (strega in spagnolo) e della chirologia, con la linea della vita spezzata. Perché la vita di Shura è spezzata: dal tradimento di Aiolos prima, con l’altalenante convinzione di essere nel giusto e l’impossibilità di vedere l’esempio infangato; dalla verità che gli crolla addosso con Shiryu e dalla morte poi.

Questa realtà di divisione che, ho immaginato, viene ritenuta uno scherzo da Shura ancora bambino; un gioco durante una fiesta.

Tagli e lame da una parte, quindi; e rosso (rojo) dall’altra: il colore della Spagna, il colore della corrida e del sangue dei tori. Per Shura, ho immaginato che il rosso fosse, nella sua infanzia, il simbolo della vita, della vitalità nella sua essenza più violenta e pregna. E accanto c’è la nuova realtà: la mano sporca del sangue di Aiolos (e non è più vita) e l’ultima consapevolezza, quando la spada è ormai persa.

Il mio Shura è tagliato. Ma non è questa, ritengo la sua essenza. Credo che piuttosto sia l’inganno, motivo per cui ho scelto il titolo sopra specificato.

Fin da bambino, il mio Shura si inganna. E continua a vivere nell’inganno, anche se lo avverte; lo ignora semplicemente. E ritengo che questo sia il suo dramma.

Infine: i churros sono dei tipici dolci spagnoli, prevalentemente carnevaleschi, ma diffusi tutto l’anno; chupinazo invece è il nome di un particolare fuoco d’artificio che viene fatto scoppiare a Pamplona in Luglio, il primo giorno della festa dedicata a San Firmino.

Rileggendo, mi sono accorta di aver abbondato un po’ con lo spagnolo. Ho comunque deciso di mantenere; non tanto per realismo; piuttosto per ispirare l’aura ispanica.

 

3. Grahit

[Virgo no Shaka]

L’acarya ripete silenzio.

Perché la voce è pericolosa, fuori dal mantra. Mentre lo juzu si sgrana nella mano e la voce (una litania) è potere.

Ma al potere (brutto) della voce non ci crede.

E il silenzio non gli piace.

Perché è curioso e vuole parlare. Anche se nella stupa l’acarya ripete silenzio. E allora impara: un’altra voce (per sapere). Le mani si muovono; e le parole (le mani) raccontano.

L’acarya ripete: silenzio; ma le sue mani (silenziose) chiedono e danzano. E dicono ohm e insegnano e pensano, le mani (pericolose) che parlano.

E scoprono di saper dire anche: khan.

 

 

Nota al titolo:

In sanscrito, grahitṛ è una parola religiosa, derivata dalla cristallizzazione del participio e significa colui che comprende.

Il sanscrito è la più antica lingua dell’India; appartenente al ceppo definito indo-europeo, e secondo vari filologi è la lingua da cui deriverebbero i vari idiomi indiani moderni e le stesse lingue europee, fra cui il greco e il nostro italiano.

 

De verbis

Terza drabble: l’equilibrio, se vogliamo. Anche se, in origine, lo scopo della drabble era proprio di rendere l’idea dello spezzato.

E in parte credo di esserci riuscita. Anche se, in verità, penso che Shaka sia troppo sfaccettato per esser racchiuso in cento parole. Questo è davvero uno spaccato, concentrato su un particolare ben preciso: la gestualità.

Di nuovo, c’è un riferimento "iconografico", più precisamente questo, cui va sommata una mia modesta riflessione sulle puntate di Hades relative al cavaliere. Mani. Mani, mani e mani riprese in varie pose e angolazioni. Mani in continuo movimento. Shaka non parla; Shaka è gesto che si esprime.

Sono i mundra, le posture che nella dottrina buddhista corrispondono a un discorso intero. E mi sono chiesta: perché un asceta (se vogliamo chiamarlo così) si concentra sul gesto? Ecco: sono partita da qui.

Volevo dare un senso più specifico al ricorrere di Shaka alle mani. Certo, la sua fede; certo, le armi. Ma anche il solo modo che ha di parlare, di comunicare durante l’infanzia trascorsa nel silenzio del tempio (il silenzio di Buddha).

Il mio Shaka è curioso. Principalmente perché è un bambino; e come ogni bambino, davanti ad un divieto, cerca la scappatoia.

E io gliel’ho data nelle mani, la fuga. Adattandomi anche alla simbologia indiana che carica la voce di retaggi magici e sottintende al gesto un potere mistico ed evocativo. La danza stessa (e le mani di Shaka danzano) è formata di gesti che parlano. Non testo; solo gesti. Altrimenti sarebbe come avere due canzoni in sincrono.

Mani, silenzi e parole da una parte; e dall’altra la comprensione. Il mio Shaka comprende. Ma non intendo il sapere che lo porta ad essere il cavaliere più vicino agli dei, l’illuminato. Credo che piuttosto sia la comprensione di non essere vincolati, di poter aggirare un ostacolo in qualche modo. Ecco il motivo per cui ho scelto il titolo sopra specificato.

Fin da bambino, Shaka dimostra di comprendere che non c’è una sola faccia del reale. Puoi vedere senza gli occhi; puoi parlare senza usare la voce.

Ritengo proprio che una delle grandezze di questo personaggio sia la profondità ingenua e disarmante che lo caratterizza. Quasi un bambino troppo cresciuto, ma che resta un bambino. E si stupisce e spaventa di saper raffigurare nelle mani l’inizio della vita (ohm) e di poter dare realmente la morte, con le mani (khan).

Infine: acarya è uno dei due maestri che seguono la crescita di un novizio nel buddhismo, mentre il mantra è una litania religiosa, recitata con lo juzu (termine giapponese per indicare il rosario a 108 grani proprio del credo buddhista) nella stupa, il luogo sacro dove si conservano le reliquie del Buddha. Per ultimi: ohm e khan, rispettivamente, inizio e apertura o vuoto (riducendo all’essenziale i due termini, che possono corrispondere in una certa banalizzazione all’ alpha e all’omega, alla vita e alla morte) sono due formule proprie del mantra. In esse ho voluta rappresentare la capacità di Shaka di essere in sospeso fra i due mondi.

 

 

Dialogando

 

La drabble promessa sul Cavaliere di Virgo. Una vera impresa, se mi è concesso. La parte più difficile è stato raccogliere tutto il materiale relativo alla simbologia della voce e della parola in India, e rispolverare la mia grammatica sanscrita.

Alla fine, questo è il risultato. Spero che sia accettabile.

Un’ultima piccola annotazione: so bene che Khan indica anche una delle maggiori tecniche difensive di Shaka di Virgo, ma qui intende la capacità del cavaliere di creare il vuoto (nel movimento delle mani e nella voce) e quindi di dare la morte con quelle stesse mani che chiedono e si interrogano sulla vita.

Prossimo personaggio: Aquarius no Camus

 

Alla vostra gentilezza.

 

4. Brûlant

[Acquarius no Camus]

L’izba è calda.

Mentre la neve si distende; mentre il samovar borbotta. E la stufa (oranžev’ij) abbrustolisce il kalač. E c’è uchityep’ nell’ izba. Con il kvas (dolce) e quella parola strana: capirai.

Perché la kosovorotka (di neve) non riscalda. Perché le mani (blu) alla stufa (che borbotta) non gliele avvicina. Uchityep’ ripete: capirai

Ma capirai non lo connaît. E le mani (fredde) restano blu, nell’izba (calda). E fanno male. Perché il ljod (blu) è cattivo e le mani se le mangia.

E del bleu (delle mani) ha paura. Perché significa: mort.

Ma capirà.

E le mani (calde) diranno: vivi.

 

 

Nota al titolo:

In francese, brûlant è il participio presente del verbo brûler, e significa colui che brucia.

 

De verbis

Quarta drabble.

Complessa, ad esser sincera. Perchè ci sono tanti elementi che concorrono. Camus non appartiene a un solo mondo; e in più è magnetico. Proprio come il ghiaccio.

Di nuovo l’infanzia. La primissima infanzia, in specialmodo. E il gioco dei termini, francese e russo, che si rincorrono.

Di nuovo, l’idea è nata da quest’immagine. Assieme ad una mia (opinabile) idea su Camus.

Il mio Camus è ribelle; ma soprattutto è un bambino spaventato. Da una lingua che non conosce e non capisce. Da un mondo che non ha mai visto. E dalla morte. Soprattutto dalla morte. Che sente (forte) nelle mani fredde e semiassiderate.

É un Camus ribelle, il mio. Che di capire, in fondo, non ne ha molta intenzione. E rimpiange la sua lingua madre, il suo mondo dove le mani non diventano mai così fredde. E il blu e il bianco non sono morte, ma cielo e mare e nebbie e gabbiani. Forse l’impressione che posso dare è di non apprezzare molto il personaggio: la freddezza che lo caratterizza.

In realtà, è uno degli elementi che più mi attira. L’ho detto: Camus, per me, è un magnete.

Non amo la freddezza in sè; ma sono convinta che l’atteggiamento di Camus sia costruito. Non per tenere lontani gli altri (certo: il risultato è quello), ma per avvicinare la Siberia, per cercare (imparare) ad amare quella terra dove deve vivere. Perchè il mio Camus ha bisogno di affetto e di capire. In mdo disperato (quasi). E mi sono divertita a immaginare come fosse prima, appena arrivato in Siberia. E il risultato è questo bambino terrorizzato.

Non voglio sminuirlo. Al contrario. Credo fermamente che Camus sia uno di quei personaggi la cui profondità sia immensa, ma difficile da cogliere. Perchè è facile bloccarsi al ghiaccio e vederlo freddo.

Io non credo che Camus sia freddo; non nel senso di indifferente, almeno. In fondo, ritengo che la chiave di lettura (della drabble, ma anche del personaggio) sia nel ghiaccio stesso.

Schermo, muro invalicabile, indica la lontananza da qualcosa e la perdita della – di una – vita (qui è la Francia e la vita di prima, dell’infanzia). Ma è anche immagine di rinascita, di continuità, di volontà di vivere. Solo che il ghiaccio cela, nasconde, gioca. E la forza che possiede emerge solo alla fine, quando si scioglie, e consegna, in morte (e solo in morte) i suoi segreti.

Le mani di Camus sono fredde (lo dice di riflesso la Taizen, dove afferma che le armature dei ghiacci, con una temperatura inferiore alle normali corazze, sono solitamente indossate da chi è temprato al gelo e ne ha buona resistenza); nelle mani Camus concentra sovente il suo potere. E con le mani uccide e insieme sa dare vita: il sarcofago di ghiaccio non lo intendo come una tomba, ma come vita.

E mi piace pensare che le mani fredde di Camus, il suo ghiaccio, sia in realtà caldo. E che quando muore contro Hyoga non fa altro che insegnarli che bisogna continuare, consegnandoli la fertilità dei suoi segreti.

Camus, per me, brucia. Per questo ho scelto il titolo sopra indicato. Camus arde: di paura all’inizio; di freddezza (e no, non lo vedo come ossimoro); di orgoglio; di determinazione. Di vita. Di voglia di vivere appieno; nonostante il suo mondo freddo. Perchè la Siberia non è riuscita a togliergli tutto il caldo della Francia.

Per questo l’altalena linguistica. Il russo all’inizio, dove l’attenzione è concentrata sul maestro; il francese dopo, quando Camus si presenta in scena direttamente. Perchè Camus è ancora un bambino e la nuova lingua ancora non la conosce e i suoi ragionamenti e le sue parole sono francesi.

Infine, con ordine. L’izba è la tradizionale casa contadina russa, costruita in tronchi e con tetto (di solito) di paglia, mentre il samovar indica una particolare teiera usata per scaldare l’acqua, soprattutto per il tè. Il kalač [калач] и un tipo di pane russo bianco, fatto con farima di frumento e a forma di maniglia; il kvas [Квас] и una bevanda russa fermentata a bassa gradazione alcolica, di origine vegetale, prodotta in casa. La kosovorotka [косоворотка] и la tipica casacca russa maschile a maniche lunga, asimmetrica e abbottonata laterale, mentre uchityep’ [учитель] significa maestro, ljod [лёд] ghiaccio e oranžev’ij [оранжевый] arancio (il colore) in lingua russa.

In francese, invece, connaît è la terza persona singolare del verbo connaître, che significa conoscere; blue significa blu e mort un sostantivo, che significa morte.