Capitolo II

Parigi, 14 Luglio 1789

Keimon dell’Acquario osservava il popolo di Parigi che si preparava ad assaltare la Bastiglia, il più duro carcere del regno di Francia, simbolo massimo del potere che i nobili e i re esercitavano sulla povera gente. Quando erano cominciati i disordini, il Grande Sacerdote aveva capito subito che non si trattava della solita ribellione popolare. La rabbia dei poveri era infine esplosa, e questa volta nessuno, nemmeno i cavalieri di Athena, avrebbe potuto contenerla. Keimon, benché greco, era di lontane origini francesi, e Tien-Zin, che lo sapeva, lo aveva inviato d’urgenza a Parigi perché riferisse sulla situazione: le notizie correvano, e bisognava assolutamente evitare che la follia rivoluzionaria contagiasse anche il Grande Tempio.

Da molti anni infatti i cavalieri d’argento e di bronzo avevano cominciato a diventare sempre più insofferenti dello strapotere dei Cavalieri d’Oro. Li vedevano vivere nel lusso delle Dodici Case, mentre loro si dovevano accontentare di misere capanne di fango col tetto di paglia. Vedevano i loro figli dedicarsi all’addestramento solo quando avevano voglia, mentre per loro quegli anni erano stati durissimi. Nessuno di loro aveva mai visto il Grande Sacerdote, chiuso nel suo palazzo e inavvicinabile quanto la stessa dea Athena. Soprattutto, ritenevano, e con ragione, che i Cavalieri d’Oro avessero dimenticato la missione fondamentale dei guerrieri della Dea: proteggere la Terra e gli uomini dalle Forze Oscure, sempre desiderose di estendere il loro dominio sul mondo intero. Secoli e secoli di ininterrotta pace avevano infiacchito gli animi e le coscienze, illanguidito i costumi, lasciato cadere nel dimenticatoio tradizioni millenarie.

I cavalieri d’argento e di bronzo non ci stavano, e veneravano come eroi Sion dell’Ariete, Dauko della Bilancia e Adam dello Scorpione, gli unici che ancora tenevano alto, per quanto possibile, il nome e il prestigio della più alta schiera dei cavalieri di Athena.

Quando la prima cannonata scosse le mura della Bastiglia, Keimon sussultò. Per non dare nell’occhio, si era travestito da frate, abbandonando per necessità di servizio i suoi abiti sontuosi, e ora camminava per la prima volta in mezzo alla folla. Nelle strade erano state erette delle barricate con materiali di fortuna, la gente correva gridando da tutte le parti, anche le donne seguivano i mariti imbracciando le armi. Molti dei reparti dell’esercito inviati a sedare i disordini disertavano e si univano ai ribelli. La confusione era totale, ovunque regnava l’anarchia.

Il rombo dei cannoni continuò per tutto il giorno, finché con un boato spaventoso le mura della Bastiglia crollarono. Il popolo si precipitò all’interno, ognuno cercava un parente o un amico rinchiuso in quella oscura prigione. Dalle piazze principali, Maximilien Robespierre e il suo seguito arringavano i cittadini, esortandoli a combattere per la Francia.

Keimon fissò Robespierre, e per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. L’uomo che aveva dato inizio alla Rivoluzione Francese fronteggiò il Cavaliere d’Oro dell’Acquario: non sapeva chi fosse, ma da quello sguardo capì che non era certamente un frate. Scese dal palco e camminò lentamente verso di lui, mentre i suoi aiutanti lo guardavano senza capire.

Keimon comprese che il suo travestimento non gli serviva più, e lo gettò via. Sotto il saio portava dei semplici abiti da viaggio, ma il suo portamento, la sua espressione altera, le sue mani lisce che non avevano mai conosciuto la fatica del lavoro lo qualificavano senza dubbio come un nobile. Pur vivendo nello stesso modo della maggior parte dei suoi pari, aveva un carattere freddo e controllato, che non lasciava trasparire alcuna emozione. Godeva dei piaceri che si poteva permettere, ma non si abbandonava mai alle sfrenatezze. Coraggioso, scaltro e tenace, era un avversario pericoloso per chiunque, e anche chi poteva dire di essergli amico non sapeva mai cosa aspettarsi da lui.

Robespierre gli si avvicinò, senza mai distogliere lo sguardo. Intorno a loro infuriavano i combattimenti, le pallottole fischiavano, il fumo dei cannoni rendeva l’aria pesante. Ma nessuno dei due se ne curava.

Keimon cominciava a intravedere un senso nelle parole di Robespierre. Improvvisamente, non gli pareva più tutto così assurdo. Il suo sguardo si fermò sulle barricate erette in mezzo alle strade, dalle quali il popolo di Parigi sparava sui soldati del re. Gli uomini combattevano, le donne ricaricavano i fucili, persino i bambini portavano le munizioni.

Con queste parole, Robespierre si accomiatò, e tornò dai suoi seguaci, che lo subissarono di domande sul misterioso straniero. Ma lui non rispose, e seguito dagli altri si dileguò tra le strette e tortuose vie di Parigi.

In quello stesso giorno di luglio del 1789 Shiddarta aveva superato la prova ultima. Nell’arena del Grande Tempio, di fronte al pubblico delle grandi occasioni, il Grande Sacerdote gli aveva consegnato personalmente lo scrigno contenente l’Armatura d’Oro della costellazione della Vergine, insieme alla consueta predica sui doveri di un cavaliere. Shiddarta era l’unico che aveva preso sul serio quelle parole: i figli degli altri Cavalieri d’Oro, che avevano ricevuto l’investitura un anno prima, avevano ascoltato la predica sbadigliando e grattandosi, sognando il momento in cui fosse arrivata qualche occasione ufficiale per poter finalmente indossare l’armatura. Guerre Sacre non ce n’erano più da secoli, e il ricordo di quelle passate era ormai materia per i libri di storia e per le opere dei poeti.

Quella sera Shiddarta, con lo scrigno d’oro sulle spalle, entrò per la prima volta nella Sesta Casa della Vergine. Il palazzo era disabitato da quando Tien-Zin era stato eletto Grande Sacerdote, e veniva mandato avanti dai servitori. Erano tutti schierati sulla porta, pronti ad accogliere il nuovo padrone. Al centro della sala principale c’era una strana scultura in pietra, un enorme fiore di loto dai petali aperti.

Senza aggiungere altro, Shiddarta posò lo scrigno al centro della sala e passò nelle stanze da letto. Si spogliò ed entrò nel bagno caldo che gli avevano preparato le ancelle, che strofinarono con delicatezza la sua pelle bianca come il latte, pettinandogli i lunghi capelli biondi. Quando uscì dal bagno, gli fecero indossare una lunga veste bianca, fermata sulla spalla da una spilla d’oro. Vestito solo di quello, Shiddarta salì sul fiore di loto, sedendosi a gambe incrociate, e chiuse gli occhi, unendo le mani nella prima posa che gli aveva insegnato Tien-Zin. Sprofondò nella meditazione, senza vedere il sole del tramonto che lasciava il posto alla notte.