Capitolo II

Se il dolore fosse oro, Angelo sarebbe più ricco di tutti i potenti della terra. Tutti insieme.

Dolore acuto, dolore che risiedeva nelle profondità dell’anima di quel bambino, dolore che compariva sempre, come una vecchia ferita che, pur ormai guarita, ritornava a farti male, nel cuore della notte, per non farti mai dimenticare che c’è e come l’hai avuta. Di tale dolore era pieno il piccolo Angelo, dolore che non mostrava alla madre, per evitare di rattristarla ancora di più, ma che c’era, e, come la vecchia ferita già citata, che tornava ogni volta che si vedeva nello specchio, ogni volta che vedeva suo padre ringiovanito e vivo in lui, ed ogni giorno il dolore era ancora più forte, poiché ogni giorno assomigliava sempre di più all’oggetto del suo dolore. Anche la madre soffriva, si poteva avvertire la sua sofferenza come un alone intorno alla sua bella figura, ma esattamente come il figlio fingeva che andava tutto bene.

Chi dirà, d’ora in poi, che fingere sarà sempre causa di male, dato che solo grazie a quella finzione la famiglia ferita riuscì a sopravvivere?

La famiglia continuò a resistere, nonostante senza il padre non guadagnasse più abbastanza, grazie alla gente che portava sempre qualcosa da mangiare. Mai un contadino mancava di regalare alla madre qualche uovo "in più"; mai degli amici non li invitava a pranzo la Domenica dopo la messa.

Era tutta gente buona e timorosa di Dio, semplice, e non si può accusare solo perché non avevano il coraggio di ribellarsi. Voi nelle loro condizioni avreste fatto altrettanto? Avreste mai il coraggio di ribellarvi a qualcuno che potrebbe uccidere come maiali i vostri cari e i vostri amici? Credo di no…

Ma, nonostante i piaceri degli amici, perché piaceri degli amici erano, non elemosina, la famiglia era povera.

La madre di Angelo lavorava ormai da qualche anno come domestica a casa di un vecchio conte, che abitava in un villetta poco fuori il paese. Il vecchio era famoso per la sua "bramosia" di donne, ma lei non disse mai, ne al figlio ne ad alcuno, che l’anziano porco l’avesse toccata. Il ragazzo non volle saperne di più, forse perché capiva sua madre, o, molto più probabilmente, perché sapeva che il suo animo non avrebbe sopportato altre tragedie. Lo sapeva istintivamente, e la sua mente non cadeva mia su quegli avvenimenti, anche perché, deceduto il padre, doveva lavorare la terra di famiglia, lasciando la scuola, benché avesse promesso al padre, e a se stesso, di lasciare la terra per diventare medico. Un sogno che non si potrà mai realizzare.

Orami Angelo lavorava tutto il giorno alla terra, come suo padre prima di lui, per far mangiare lui e sua madre, accerchiato da responsabilità, tormentato dal dolore e dai sensi di colpa.

Si, sensi di colpa.

Perché suo padre era morto? Perché sua madre soffriva fino a consumarsi?

Per colpa sua.

E non si poteva neanche levare la sua stupida vita, per ottenere l’oblio dei sensi, perché non avrebbe mai permesso a sua madre di soffrire ancora. Quindi doveva sopportare il suo dolore, fino all’inverosimili, spedendolo nella parte più profonda del proprio animo.

Ma ogni notte, dopo una giornata di fatica e sudore, dopo un cena in silenzio con la madre, dopo che lei si fosse addormentata, sgattaiolava fuori dalla vecchia casa, andava nei campi e si fermava li, di fianco ad un vecchio cipresso.

Gli erano sempre piaciuti i cipressi, li quell’albero, per ricordare sempre ai suoi benché fossero per la tradizione piantati nei cimiteri, ma suo padre gli spiegava sempre che erano il simbolo della sua famiglia, fin da quando un loro avo piantò discendenti che la vita e solo un passaggio momentaneo, per ottenere o la vita eterna o la morte eterna.

Vita e Morte.

Vita.

Morte.

A volte rimaneva li fino all’alba, colpendo selvaggiamente la corteccia della pianta con calci, pugni, testate, gomitate, tutto per scaricare la propria tensione, il proprio dolore. Tutta la notte, contornato dal canto dei grilli e dallo splendore del notturno e stellato cielo siciliano.

Tutta la notte. Per tutte le notti. Notti insonne e senza sogni ne incubi, perché già la vita era un vero incubo.

Una notte, però, accadde qualcosa di particolare.

Qualcosa che cambierà il mondo.

Nel bene e nel male.

Angelo continuava a combattere la sua battaglia persa in partenza contro il dolore, colpendo la dura pelle del gigante verde fino a scheggiarsi la pelle e a perdere sangue, quando, a un certo punto, qualcosa, o qualcuno, interruppe il profondo silenzio della notte stellata. Un colpo di tosse.

Il ragazzo smise subito a colpire l’albero, cercando di sentire meglio lo strano rumore.

Altro colpo di tosse.

Questa volta Angelo capì bene dove proveniva il suono, e si avvicinò furtivamente.

Nelle tenebre, il giovane vide un figura nascosta fra l’erba, stesa, che stava guardando con ammirazione il cielo stellato della campagna. La debole luce lunare mostrava una figura vecchia, non molto alta, di pelle e capelli scuri, vestito con strani abiti ignoti al ragazzo, ma che noi potremo riconoscere come medio-orientali.

Di sicuro non era uno del clan, pensò giustamente Angelo, quindi nient’altro poteva essere che un barbone che proveniva da fuori.

Il ragazzo si avvicinava sempre di più, nel più assoluto silenzio.

Poi il vecchio, senza neanche girarsi verso di lui, parlò:

"Buona sera" disse con gentilezza.

"ehm…. Buona sera" disse senza molta convinzione Angelo, guardando fra l’incuriosito e lo spaventato il vecchio sconosciuto, per poi dire con più determinazione "Guardi che siete in una proprietà privata. Mi dispiace, ma vene dovete andare."

" Proprietà Privata? Credi davvero che questa terra è tua? O è di chi c’era prima della tua famiglia o di chi verrà dopo di te? Giusto, piccolo?"

Strane persona, doveva ammettere Angelo.

Ma non ebbe tempo di fargli altre domande, perché furono interrotti da un urlo di donna provenienti dalla vecchia casa, dove c’era sua madre a dormire…