Chapter Three

Tales si guardò intorno disorientato. Il luogo era tutt’altro che ospitale. La puzza di zolfo era opprimente e la cenere, oltre a ricoprire ogni cose, era mossa dal vento, limitando decisamente la visuale.

Una capanna di legno sorgeva malamente in bilico sul versante del monte.

Il ragazzo la fissò per diversi istanti, chiedendosi se fosse il caso di entrarvi. Decisosi, si avviò verso la catapecchia, incespicando per salita. Arrivato a destinazione aprì la porta, che consisteva semplicemente in quattro assi legate assieme, e ciò che vide lo lasciò senza fiato.

Quella che a prima vista era sembrata una semplice baracca era in realtà il peggior porcile conosciuto a memoria d’uomo. Le ragnatele erano talmente fitte da nascondere in parte i buchi del soffitto le cui trave erano marcite al punto di cedere e crollare sul pavimento. Ma pavimento era una parola troppo generosa in effetti. I piedi di Tales infatti poggiavano direttamente sul terreno del monte. Il che voleva dire che oltre ad essere sporco, irregolare e ricoperto di cenere, il pavimento era pure inclinato, rendendo abbastanza difficile capire come potessero i pochi mobili non scivolare contro il muro rivolto verso valle. Questo spartano mobilio era costituito da un tavolo rozzamente squadrato, una panca ed i resti di quella che doveva essere una brandina, oltre ad una specie di camino in un angolo.

Tales guardò l’esterno da un buco che fungeva da finestra. Nel limite del suo campo visivo non si vedevano alberi. Con cosa pretendono che accenda il fuoco?

Gettò un’ultima occhiata a ciò che lo circondava maledicendo il suo maestro.

"Dannato vecchio, questa me la paghi!"

 

Una settimana prima

Il sole stava sorgendo sulle terre di Grecia, spazzando l’oscurità dell’ora più buia ed offuscando le stelle che per poche effimere ore avevano abitato la volta celeste. Quelle stesse stelle che affollavano i pensieri di Tales. Sovrappensiero estrasse dalla tasca un portasigarette argenteo. All’interno c’erano delle sigarette ed un accendino d’oro logorato dall’uso. Esso era un vecchio ricordo di tempi che furono e che il ragazzo usava abitualmente. Espirando il fumo dal naso si rilassò e volse il viso al cielo una volta ancora. Ormai erano più di cinque anni che dedicava tutte le sue forze alla conquista di un’armatura e sempre più spesso si domandava quale fosse la sua costellazione di appartenenza, quale sarebbe stata la sua guida per la vita. Era strano che ne fosse all’oscuro, in genere gli aspiranti cavalieri sapevano a cosa andavano in contro. Ma con Saga di Gemini non c’era mai niente di comune.

Sicuramente è uno dei soliti giochetti mentali di Saga per mettermi in difficoltà pensava, ma ciò non lo aiutava di certo a sentirsi meno confuso.

Il sole ormai faceva capolino tra i monti greci e tutto il Grande Tempio sembrava ridestarsi. Lo sguardo di Tales abbracciò le apparentemente infinite scalinate e gli antichi templi che costituivano il complesso delle Dodici Case dello Zodiaco, residenze dei più forti guerrieri della Terra e paladini della giustizia, i Cavalieri d’Oro.

La nona casa era, diversamente dalle altre, buia e silenziosa. Micene di Sagitter, il Cavaliere d’Oro più caro al Gran Sacerdote, aveva portato il fratello minore in un lungo viaggio d’addestramento. Erano diversi mesi che non li vedeva, ormai il suo unico pensiero era l’armatura. Anche le sue "visite" in città si erano drasticamente ridotte.

 

"Alzati, andiamo ad allenarci" gli ordinò Saga, avvicinatosi silenziosamente con il favore delle ultime avvisaglie della notte. "Buongiorno anche a te. Sei in ritardo comunque!" rispose il ragazzo, osservando il suo maestro. L’espressione triste e nervosa occupava sempre più spesso il suo volto rendendolo, se possibile, persino più scorbutico e misantropo.

<<Chissà che diavolo gli sta succedendo… Ci saranno problemi con il Grande Tempio?>>

Questo nuovo umore si ripercuoteva ovviamente sugli allentamenti, rendendoli più lunghi e massacranti. Spesso iniziavano prima dell’alba e terminavano al chiaro di Luna. Il ragazzo ne era decisamente provato, ma non avrebbe mai dato a Saga la soddisfazione di richiedere un carico di lavoro minore.

Ma tutto ciò stava per terminare.

"Quello di oggi è il tuo ultimo allenamento al Grande Tempio." Esordì infatti il Cavaliere d’Oro.

"Lo sapevo che ero pronto! Finalmente avrò la mia armatura?"

"Non ti illudere. Sei abbastanza forte, di certo superiore a buona parte dei Cavalieri d’Argento, ma ciò non è sufficiente. Per la tua armatura devi ancora fare il salto di qualità."

"Certo che non ti basta mai niente…- sbuffò Tales -In cosa consiste questo <<salto di qualità?>>"

"Lascerai il Grande Tempio diretto alle pendici del monte Etna, il Vulcano che ospitò la fucina del fabbro degli Dei, Efesto, e che imprigiona Tifone, dei Giganti sovrano e suprema minaccia per l’Olimpo. E proprio il potere di quel mostro dovrai ottenere. Solo se riuscirai a controllare le forze della natura ti verrà concesso il titolo di Cavaliere d’Atena!"

"Alla faccia… Tu vuoi che diventi forte nientepopòdimenoché quanto un dio?"

"Non sono certo così folle! Ma se mi accontentassi non sarei un buon maestro. Micene vide del potenziale in te quando, ancora fanciullo, ti trovò nell’ambito di una missione per conto del Gran Sacerdote. Ed io sono fermamente deciso a concretizzare questo potenziale!"

"Micene" sussurrò Tales, e con la mente riandò a diversi anni prima, ai tempi della usa infanzia. All’epoca era solo un bambino mezzo morto che vagava in un sobborgo di Cape Town tutto solo, abbandonato al suo destino.

Era stata una giornata torrida, ma il rapido crepuscolo africano regalava la possibilità di una notte rinfrescante. Micene, Cavaliere d’Oro in missione per il Gran Sacerdote di Atene, passeggiava tranquillamente in mezzo ad una marea di capanne e baracche, affollate da nugoli di ragazzini di varie etnie dal sorriso sfacciato di chi non ha nulla da perdere tendendo la mano alla ricerca di spiccioli o dolciumi.

Senza prestare troppa attenzione alla piccola folla intorno a lui, Micene si guardò intorno. La luce scemava in fretta, ormai della celeberrima Montagna della Tavola si distinguevano a malapena le forme mentre la Tovaglia, l’altrettanto celebre cumulo di nubi permanenti stazionate sul massiccio roccioso, sembrava un suggestivo batuffolo di cotone sporcato di sangue dal bagliore degli ultimi raggi luminosi.

Il giovane sospirò stancamente, la forze disperse nella cappa di calore che ancora aleggiava sulle loro teste.

Una improvvisa macchia candida attirò la sua attenzione.

In condizioni normali la avrebbe forse ignorata, al pari di un granello di sabbia durante il khamsin

Sahariano, ma da quando si era addentrato nella baraccopoli aveva visto gente delle razze più disparate, spesso mescolate. Così aveva visto innumerevoli ottentotti del luogo, immigrati indiani o orientali, boscimani, matabele e zulu del nord, ma non bianchi, loro non si avventuravano da quelle parti senza un buon motivo.

Osservò più attentamente. La macchia si era rivelata in un ragazzino. Stava in disparte, senza unirsi ai giochi degli altri bambini, come se non avesse nulla a che fare con loro.

Era coperto dei resti di quelli che dovevano essere stati vestiti costosi e di buona fattura, ormai ridotti a cenci lisi e sformati. L’unico capo ancora in buono stato era giubbotto in pelle visibilmente troppo grosso per il ragazzo.

Egli osservava con sguardo spento e disinteressato ciò che lo circondava.

Micene gli si avvicinò incuriosito. Da vicino ne notò il colorito spento e la magrezza. Non sapendo bene in che lingua comunicare provò a sfruttare quelle poche parole che conosceva per salutarlo in Afrikaans, l’Olandese imbastardito tipico delle popolazioni boere, ottenendo come risposta solo uno sguardo interrogativo. Escludendo a priori il Greco in uso al Grande Tempio, tentò con l’inglese.

"Ciao" disse.

"Salve"

"Ehi, sei ancora su questo pianeta?"

Ci pensò Saga ad interrompere i pensieri di Tales.

"E chi si è mosso?"

"Allora, hai capito ciò che ti attende?"

Tales lo osservò attentamente. Sembrava volerlo allontanare il più velocemente possibile e ciò era strano. Non che il suo maestro gli si fosse affezionato o fosse felice di addestrarlo, ma ne conosceva l’indole e sapeva che sopperiva ai suo compiti con efficienza e dedizione assoluta.

Il suo addestramento ne era la prova inconfutabile. Tales poteva ambire al massimo ad un’armatura d’argento, più probabilmente una di bronzo, eppure aveva affrontato un addestramento che lo aveva portato ad un livello decisamente superiori a quelli degli altri cavalieri d’argento. E non era ancora abbastanza!

Saga di Gemini doveva sempre fare le cose meglio degli altri e, per far ciò, non delegava mai a nessuno i suoi compiti, li eseguiva al meglio personalmente.

Nonostante tutto adesso la lasciava improvvisamente padrone del suo destino. Non credette nemmeno per un attimo che potesse essere una dimostrazione di fiducia nei suoi confronti, doveva esserci un altro motivo sotto.

"Appena finirai di preparare le tue cose dovrai partire!"

Così, all’improvviso? Non avrebbe nemmeno potuto rivedere Ioria e Micene per poterli salutare!

"Non ho neanche un paio di giorni per sistemare certe faccende personali?"

"Non parti mica per una vacanza! Dovrai andartene entro il tramonto!"

"Cosa? Avresti dovuto dirmelo prima, chiedermi cosa ne pensavo!"

"Me ne frego di quello che pensi! Se vuoi diventare Cavaliere devi partire, altrimenti puoi anche tornartene a casa con la coda tra le gambe."

"Lo sai benissimo che non abbandonerò mai il mio sogno di ottenere l’armatura! Come al solito non mi dai possibilità di scelta!"

Tales girò sui tacchi e si lanciò giù, diretto verso la zona abitata. Saga lo guardò discendere la montagna sorridendo. Non il solito sorrisetto sarcastico e spavaldo, ma un inquietante ghigno, capace di far gelare il sangue persino ad una statua di marmo. Ma ciò che davvero avrebbe terrorizzato anche l’uomo più coraggioso era lo sguardo. Scrutare dentro quegli occhi improvvisamente demoniaci ed iniettati di sangue era come precipitare all’interno del pozzo senza fondo degli inferi, senza alcuna possibilità di salvezza.

Fine Chapter Three