Chapter Five

 

Tales si guardò intorno, sorridendo stancamente. I suoi compagni di bevute erano crollati uno ad uno dal sonno, compresi J.J. e Pez.

Il ragazzo finì di raccogliere le sue cose. Escludendo la corazza di cuoio tutti i suoi averi entravano tranquillamente in una sacca da marinaio. Da ultimo prese una giacca in pelle marrone scuro con due strisce gialle sulle maniche. Ultima eredità del padre, era un oggetto molto caro a Tales, il quale la indossava sempre, nonostante fosse logora e consumata.

Con la sacca in spalla, il ragazzo si avvicinò all’uscita, spalancando la porta

"Continui a provare a scappare di soppiatto eh?"

Tales si girò su se stesso, notando Pez in piedi dietro di lui.

"E tu continui a cogliermi in flagrante. Ma sai com’è, non amo gli addii."

"Siamo in due. Però questo non è un addio, al massimo un arrivederci."

"Allora ciao."

"Ciao."

"Niente abbracci o cose del genere vero?"

"Ci mancherebbe altro! Sei troppo virile per i miei gusti!" provò a scherzare Pez con poca convinzione.

"Stammi bene."

Tales fece per girarsi ed andarsene, ma Pez fece uno scatto improvviso e lo abbracciò forte.

"Non si era detto niente abbracci?"

"Scusa ma non ho resistito! Mi – tirò su con il naso- mancherai fratello!"

"Anche tu mi mancherai Pez! Ma al massimo ti posso chiamare cugino. Di secondo grado. Ma adesso lasciami o rischio di soffocare!"

"Ecco cosa non mi mancherà di te, il tuo pessimo senso dell’umorismo!"

"Smettila di lamentarti! A me tocca sopportare i tuoi continui e terribili canti!"

"Come osi? Sono il miglior cantante che si sia mai visto al mio paese!" sbottò inorridito Pez.

"Resterei qui a prenderti in giro tutto il giorno, purtroppo il vecchio mi attende, se tardassi ancora potrebbe farmi secco."

Così Tales aprì la porta ed uscì.

Mentre camminava diretto verso il passaggio che permetteva di uscire dal Grande Tempio fece un cenno di saluto con la mano senza nemmeno voltarsi.

Era ormai perso nei suoi pensieri, quando un urlo poderoso lo riscosse.

"CI VEDIAMO VECCHIO MIO!!!!"

Voltandosi, Tales vide il suo amico, sul ciglio di una roccia che lo sovrastava, sbracciarsi in segno di saluto. Gli fece un ultimo cenno con il capo, poi si voltò e riprese il suo cammino.

La prossima volta che ci rivedremo saremo entrambi cavalieri. O entrambi morti.

 

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Chissà perché Saga mi ha dato appuntamento in un posto del genere? Si chiese Tales guardandosi intorno. Si trovava sul molo più isolato e buio del porto, un posto più adatto ad un contrabbandiere che a dei cavalieri d’Atena.

 

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L’uscita segreta portava al retrobottega di un negozio nei sobborghi di Atene. Da li si diresse in direzione sud-ovest verso il Pireo, il celeberrimo porto di Atene, ove aveva appuntamento con Saga.

Mentre camminava verso il mare osservava la moltitudine che affollava le strade. La stagione turistica era già terminata e la quasi totalità delle persone che incrociava erano greci.

Lui parlava correntemente la loro lingua, ma non aveva interesse a rispondere ai commercianti che provavano ad attirarlo all’interno dei loro negozi o agli ambulanti pronti a spillargli soldi in un modo o nell’altro, così faceva finta di non capirli e tirava dritto, mormorando scuse in inglese o spagnolo, lingua che aveva imparato dal Cavaliere d’Oro di Capricorn al Grande Tempio sotto richiesta dello stesso Micene, a seconda dei casi.

Arrivato finalmente al Pireo iniziò la ricerca del molo giusto, il 17.

Certo che questo viaggio inizia proprio sotto i migliori auspici pensò appena arrivato a destinazione.

Chissà perché Saga mi ha dato appuntamento in un posto del genere?

 

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"Sei in ritardo!"

"Così siamo pari allora."

"Sei pronto a partire?" chiese Saga a Tales.

"Pronto forse è una parola grossa, ma diciamo di si. Ma perché non ci siamo visti direttamente all’aeroporto?"

"Non ne vedo il motivo. Io non devo prendere un aereo ed a quanto mi risulta nemmeno tu."

"E come dovrei arrivare in Sicilia? A nuoto forse?"

"In effetti sarebbe stato un buon allenamento, ma il Gran Sacerdote me lo ha impedito" borbottò di rimando il maestro. "Comunque il tuo mezzo, la Old Mary ti aspetta laggiù."

Tales scrutò il molo apparentemente deserto. "Ma non c’è nien…"

Fu allora che la vide. Poco più di un guscio di noce, la Old Mary sembrava restare a galla per la grazia degli dei. Vent’anni prima doveva esser stato un bel loop da quindici metri, forse proprietà di un facoltoso appassionato ma ora, dopo 20 anni e decine, forse centinaia, di migliaia di miglia marine percorse non sembrava certo in grado di attraversare il Mediterraneo.

"Dannati burocrati del Grande Tempio, siete sempre più tirchi! Non potevo prendere semplicemente un volo di linea o un traghetto?"

"Avresti attirato troppa attenzione."

"E secondo te una barca a vela che sembra un reduce dell’epoca colonialistica non attira l’attenzione? Non ti sembra leggermente insolito?"

"Sempre che ti lamenti! Era l’unico modo per evitare controlli ai documenti. Ti ricordo che ufficialmente tu NON esisti. Ed ora IMBARCATI!!!!" sbottò Saga, infastidito dalle proteste.

"Amico, hai decisamente bisogno di una dormita, sei persino più irritabile del solito! E poi- aggiunse guardandolo attenta temente- hai gli occhi tutti arrossati, sembrano quasi iniettati di sangue, un po’ di collirio ti servirebbe."

"Qui non si tratta di me! Io sto benissimo, fatti gli affari tuoi! Ed ora Sali su quello schifo di barca, il viaggio sarà lungo e non ti voglio più tra i piedi. Addio."

E si voltò, allontanandosi in direzione della città.

"Ciao Vecchio…" sussurrò Tales di rimando, prima di attraversare la passerella che collegava la Old Mary alla terra ferma.

 

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L’imbarcazione procedeva tranquillamente, dolcemente cullata dalle onde. In mezzo a quella processione ininterrotta la Old Mary sembrava una misera goccia in mezzo al mare, ma dal punto di vista di Tales era l’unica possibilità di sopravvivere.

Il ragazzo era infatti appoggiato ad una paratia della nave e guardava sorridendo il mare. Lentamente il sorriso si spense ed il ragazzo sbiancò prima di sporgersi oltre il parapetto ed offrire il suo degno ed abbondante tributo a Poseidone per l’ennesima volta.

"Ehi ragazzino, stai ancora male? Se soffri il mal di mare perché diavolo ti sei imbarcato?"

"Non soffro il mal di marene!!! E’ solo un caso, devo aver mangiato qualcosa di avariato!" sbottò Tales al timoniere, un italiano basso e tracagnotto che lo osservava sghignazzando.

"Sarà, ma guarda che lo puoi anche ammettere che soffri, non c’è niente di male ad avere debolezze. Tutti ne abbiamo!"

"Non io. Non me le posso permettere…"

Il marinaio volse lo sguardo al cielo rassegnato.

"Se lo dici tu…"

"Non ti intromettere Giovanni, non son…" la voce di Tales fu soffocata da un nuovo conato di vomito, il quale lo costrinse a gettarsi ancora contro il parapetto.

Gino. Un anziano marinaio siculo specializzato nel contrabbando di sigarette e di alcolici, parlava un discreto greco, quanto bastava per discorrere con Tales, a differenza degli altri due membri dell’equipaggio che parlavano solo il dialetto siciliano. Ciò gli permetteva di parlare con Tales in tutta tranquillità.

"Certo che devi essere un pezzo grosso, oppure un pezzo in grossi guai, il tuo amico sembrava avere molta fretta di vederti partire in fretta e con discrezione."

"Nessuna delle due. Sono solo un turista che non ama i posti affollati come aeroporti e traghetti." Rispose bruscamente Tales.

"Ok, ok, non ti alterare, era solo curiosità la mia." Si arrese il marinaio. O almeno finse di arrendersi.

Deve essere uno importante, forse se chiamo qualche amico riesco a trovare un modo per ricavarci qualche soldo! Meglio avvertire i ragazzi di tenersi pronti al molo. Chissà se questo idiota parla italiano? Non resta che rischiare un po’…

"Ehi minchione, la smetti di vomitare come una donnetta?" urlò in italiano, ma non notò alcuna reazione degna di nota dal ragazzo ancora intento a porgere gli omaggi al dio del mare.

Un largo sorriso prese posto sul viso mentre prendeva la radio, la metteva su una frequenza sicura ed iniziava a chiamare certi suoi "colleghi".

"Ehi Mimmo ci sei?"

"E che domande fai? Certo che ci sono!"

"Perfetto, ho trovato un lavoretto per te ed i tuoi amici."

 

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Molo 34, Porto di Catania.

La notte era ormai calata, il porto rifulgeva della luce dei fari predisposti a favorire i lavori intorno alle navi merci in attesa di scaricare merci provenienti da ogni parte del mondo o, viceversa, pronte a caricare merci locali da portare ai mercati più lontani.

Una discreta folla di manovali ed agenti portuali si affollava intorno alla gigantesca porta-container Gran Torino. Registrata ad Amalfi, la nave faceva la spola tra il Nord Africa e la Sicilia, trasportando pasta, pomodori, arance e latticini e derivati a ristoranti ed alberghi frequentati prevalentemente da turisti italiani.

Uno di questi lavoratori, che aveva appena terminato di collegare un container alla gru tramite dei ganci metallici, arcuò la schiena per stiracchiarsi e notò una piccola fonte di luce proveniente da dietro alcune casse.

Dannati sfaticati, sempre pronti a prendersi una pausa per fumare. Ma che credono, che neanche io abbia voglia di una sigaretta? Ma ci pagano per lavorare, non per oziare! Se entro cinque minuti non sono tornati lo faccio notare al supervisore!

Ma si sbagliava. I fumatori non lavoravano al porto. Anzi a dirla tutta non lavoravano nemmeno. Non nel senso tradizionale del termine almeno.

La luce infatti proveniva dalla sigaretta di un uomo pelato e muscoloso il quale indossava gli occhiali da sole nonostante la luce solare sole fosse soltanto un ricordo a quell’ora della notte. Intorno a lui una mezza dozzina di ragazzi giovani e ben piazzati aspettavano nell’ombra. E nessuno di essi aveva un’aria rassicurante.

 

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L’alba infine giunse sulla penisola. La luce solare, riflettendosi sulle onde, si spezzava in una serie apparentemente infinita di piccoli soli rossastri.

I lavoratori che circondavano la Gran Torino salutarono entusiati la fine del loro massacrante turno. Uno di essi si stiracchio dolcemente la schiena, pregustando il succulento arrosto che la moglie gli aveva promesso di preparargli. Aveva già l’acquolina in bocca.

Dirigendosi verso l’ufficio, ove avrebbe timbrato il cartellino per potersene andare a casa, si trovò la strada ostacolata.

8 uomini giacevano a terra svenuti. Sul volto portavano i segni di una colluttazione.

Si saranno azzuffati tra di loro?

Ma l’impressione era che i ragazzi a terra avessero subito un pesante pestaggio, forse da una banda rivale.

Deve essere un regolamento di conti. Ed ora che faccio? Di chiamare la polizia non se ne parla nemmeno, dubito che questi tizi ne sarebbero felici, forse è meglio se mi faccio i fatti miei.

Stava per andarsene quando vide un pezzo di carta accanto al più grosso e malconcio di loro. Si chinò e lo raccolse. Sopra vi era scritto:

Ragazzi, non vi abbattete, poteva andarvi peggio! Ad esempio

Potevate beccarmi in una giornata storta!

PS: Ho fatto un piccolo prelievo dai vostri portafogli,

spero che non vi dispiaccia troppo!

Lo rigirò tra le mani. Anche il retro era scritto.

Dal vostro amichevole Mister T!

 

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Era ormai passato mezzogiorno, ma il sole batteva ancora forte. Il Monte Etna si ergeva imperioso davanti Tales.

Casa, dolce casa sono arrivato. Purtroppo.

Tales si guardò intorno disorientato. Il luogo era tutt’altro che ospitale. La puzza di zolfo era opprimente e la cenere, oltre a ricoprire ogni cose, era mossa dal vento, limitando decisamente la visuale.

Una capanna di legno sorgeva malamente in bilico sul versante del monte.

Il ragazzo la fissò per diversi istanti, chiedendosi se fosse il caso di entrarvi. Decisosi, si avviò verso la catapecchia, incespicando per salita. Arrivato a destinazione aprì la porta, che consisteva semplicemente in quattro assi legate assieme, e ciò che vide lo lasciò senza fiato.

Quella che a prima vista era sembrata una semplice baracca era in realtà il peggior porcile conosciuto a memoria d’uomo. Le ragnatele erano talmente fitte da nascondere in parte i buchi del soffitto le cui trave erano marcite al punto di cedere e crollare sul pavimento. Ma pavimento era una parola troppo generosa in effetti. I piedi di Tales infatti poggiavano direttamente sul terreno del monte. Il che voleva dire che oltre ad essere sporco, irregolare e ricoperto di cenere, il pavimento era pure inclinato, rendendo abbastanza difficile capire come potessero i pochi mobili non scivolare contro il muro rivolto verso valle. Questo spartano mobilio era costituito da un tavolo rozzamente squadrato, una panca ed i resti di quella che doveva essere una brandina, oltre ad una specie di camino in un angolo.

Tales guardò l’esterno da un buco che fungeva da finestra. Nel limite del suo campo visivo non si vedevano alberi. Con cosa pretendono che accenda il fuoco?

Gettò un’ultima occhiata a ciò che lo circondava maledicendo il suo maestro.

"Dannato vecchio, questa me la paghi!"

 

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Il fiume scorreva pigro ma implacabile nel suo letto, formando un ampio ed intricato delta, prima che le sue acque si congiungessero a quelle dell’oceano.

Il Sole alto e splendente illuminava con forza ogni cosa, costringendo Tales a socchiudere gli occhi.

Dalla sua posizione privilegiata su nel cielo poteva spingere il suo sguardo fino ai più remoti angoli di quella distesa infinita di acqua e terra. In lontananza distingueva chiaramente una strana città, formata da una miriade di costruzioni marrone chiaro.

All’improvviso il cielo si oscurò ed una luna violacea prese il posto del Sole. Le onde del fiume si fecero aguzze lame dai sinistri riflessi rosso sangue e Tales inizio a precipitarvi contro, avvicinandosi sempre più velocemente alla letale distesa.

Infine le colpì.

Tales si svegliò di soprassalto con il cuore che batteva a mille ed il respiro corto. Il sogno era stato così realistico che aveva ancora la sensazione di essere come bagnato. Poi capì.

Non era una sensazione, era davvero bagnato!

"Ce l’hai fatta a svegliarti! La prossima volta non sarò così gentile, ti svegliero di rettamente a calci!"

Finalmente Tales si accorse di non essere solo. Fuori stava sorgendo il Sole, dunque doveva essere mattina presto, chi poteva essere quell’uomo nell’ombra?

"Chi sei? Fatti vedere dannato!"

"Saga me lo aveva detto che non eri molto sveglio, ma credo si sbagliasse. Tu sei decisamente un idiota!"

Tales si alzò di scattò dal letto.

"Saga? Dunque sei tu il tizio che mi deve allenare?"

Lo sconosciuto fece un passo in avanti, permettendo all’ancora stordito Tales di poterlo osservare. Un uomo alto e robusto, con i capelli blu e gli occhi che sprizzavano lampi di follia. Il ragazzo lo trovò estremamente inquietante.

"Il solo ed unico purtroppo. Il mio nome è Death Mask di Cancer!" esclamò sogghignando.