Capitolo 10: Battaglia sul lago interno

Ignaro degli avvenimenti che si susseguivano a breve distanza da lui, Gustave della Lira stava osservando ancora il gruppo di guerrieri nemici che stanziava davanti ad un piccolo specchio d’acqua, a cui si era da poco unita una nuova figura, decisamente sgraziata agli occhi del musico.

Ed a ben osservare, il cavaliere aveva buone ragioni per considerare sgraziato il nuovo giunto: un individuo a dir poco massiccio, ma il cui corpo non sembrava affatto quello di un muscoloso guerriero, quanto di chi nell’ozio aveva passato una lunga parte della propria vita.

Era tozzo e paffuto, l’armatura nera sembrava deformarsi all’inverosimile nella zona addominale e pettorale a causa della carne in eccesso che quel guerriero, orrido agli occhi del musico, aveva collezionato in anni di ozio ed ingordigia, di questo Gustave ne era certo, in confronto, persino i due avversari affrontati dal santo del Centauro e da quel suo inatteso alleato indigeno parevano al cavaliere della Lira dei guerrieri snelli ed aggraziati.

Il combattente africano aveva un’armatura che, malgrado il colore scuro, lasciava risaltare lo stesso le rotondità dello stomaco, dati gli strati metallici che sembravano unirsi, l’uno sull’altro, per renderla ancora più spessa, così come sulle spalle e su quasi l’intero tronco, completamente coperto da quella che sembrava ricalcare una pelle glabra di un qualche animale d’Africa.

Un animale i cui arti erano decisamente corti, tant’è che sulle gambe risaltavano, all’altezza delle ginocchiere, i punti in cui le forme delle zampe si congiungevano, per coprirle interamente.

Dalla zona delle braccia, comunque, si dipanava qualcosa di artisticamente curioso, agli occhi del santo d’argento, sembravano le due parti di un grande muso, enorme a dir poco, caratterizzato da un numero inusuale di giganteschi denti, come si poteva notare da quelle mascelle che, coprendo completamente gli arti superiori del guerriero, scendevano verso i pugni, nascondendoli in quei denti immensi ed appuntiti, tanto che le mani dell’africano erano invisibili al cavaliere di Atena.

Ben visibile era invece il volto di costui, rotondo, scuro e privo di alcun capello o filo di barba, solo gli occhi erano celati da una maschera parziale che ricalcava il volto dell’animale, assieme a due piccole e buffe orecchie che si trovavano sopra la testa rasata del massiccio individuo.

I soldati dalle vestigia di formica ancora vivi si scambiarono degli sguardi che, probabilmente, al di sotto delle loro maschere, sarebbero apparsi segnati da perplessità e preoccupazione per chi era giunto in loro soccorso, comunque fecero lo stesso un inchino di deferenza verso il nuovo giunto.

"Allora, cosa succede qui?", furono le prime parole del paffuto guerriero, "Chi ha decimato questa colonia di formiche?", ridacchiò fra se, guardando i cadaveri intorno a quello specchio d’acqua.

"Non lo sappiamo, signore, probabilmente c’è qualche membro dell’esercito indigeno nascosto da queste parti …", balbettò uno di loro, "Ogni volta che ci avviciniamo a questo laghetto, un’esplosione di luce colpisce i meno attenti.", spiegò un secondo.

"Davvero? Ebbene dovrò scomodarmi io stesso, ma chiunque sia, sbaglia a sperare di aver ragione di Ayabba dell’Ippopotamo proprio nei pressi di una fonte d’acqua.", ridacchiò di rimando il tozzo guerriero, avanzando verso la superficie limpida e fu allora che, di nuovo, un’esplosione di luce bianca annebbiò la visuale del cavaliere di Atena.

Ci vollero alcuni secondi perché tutto tornasse visibile a Gustave che, con sua stessa sorpresa, notò che solo una figura era rimasta in piedi di tutti quei guerrieri neri, ed era proprio quella meno aggraziata del paffuto Ayabba.

"Questo è il meglio che sai fare, tu che ti nascondi sott’acqua? Qualche strale d’energia cosmica e pensi di avere ragione di me, che sotto il potente Moyna, Comandante della Seconda Armata, combatto!", esclamò divertito il guerriero africano, prima che una nuova esplosione d’energia scaturisse dalle acque.

Questa volta il cavaliere d’argento riuscì a distinguere ciò che stava accadendo: tre colonne d’acqua, simili a delle creature dalle fattezze serpentine, si scagliarono contro il guerriero africano, colpendo con indicibile violenza la massiccia corazza nera e gettandolo qualche metro indietro, tanto che, per non essere coinvolto nell’incontro, né essere visto, Gustave preferì indietreggiare di qualche metro egli stesso.

L’Africano, comunque, si rialzò dopo pochi secondi, apparentemente illeso, "Non basta, guerriero nascosto, non è sufficiente per ferirmi questa tua sottospecie di attacco. Puoi avere ragione delle nostre colonie di soldati semplici, ma contro di me non potrai, perché ben più forte sono io di questi individui e ben più motivato; in fondo, sono qui per il bene della mia terra natia!", esclamò alla fine, ormai di nuovo in piedi.

"Per il bene della tua terra natia, hai invaso la mia?", tuonò una voce deformata dalla distanza, poiché chiaramente proveniente dalle profondità acquatiche, "Ti prendi forse gioco di me, straniero?", urlò ancora, prima che una nuova ondata di serpentiformi acque si scatenasse contro di lui.

"Adesso basta…", sussurrò a quel punto Ayabba, espandendo il proprio cosmo ed allargando le tozze braccia, che poi si congiunsero, creando un’ondata d’energia cosmica che, investendo le forme acquatiche, le deviò verso la loro stessa sorgente, lasciando che esplodessero a contatto con il piccolo lago.

L’esplosione di energia scura produsse una leggera pioggerella che andò a disperdersi intorno al bordo dello specchio d’acqua, mentre una figura dalle bianche vestigia si delineava, dallo stesso, per poi uscirvi con un balzo acrobatico, finendo dinanzi all’altro guerriero.

Quella che il combattente africano si trovò davanti era, senza dubbio, una donna, seppur di femminile aveva ben poco nei duri lineamenti di guerriera e nell’esile armatura che faceva risaltare la possente muscolatura di combattente.

Le vestigia erano bianche e pressoché integrali, solo alcuni brevi spazi erano lasciati visibili di quel corpo abituato alle lotte, l’armatura, di per se, non aveva particolari fantasie, sembrava ricalcare le forme di un animale marino dall’aspetto di un grosso e lungo serpente, un animale la cui testa ed i piccoli occhi erano posti sopra il capo della guerriera, mentre le squame ne celavano le forme, per altro poco pronunciate rispetto alla muscolatura, che risaltava delle grandi e robuste braccia e dal corpo snello, sotto le decorazioni di onde che adornavano il candido metallo.

L’elmo a forma del volto dell’animale, d’un tratto, si aprì di scatto, rivelando il volto della donna sotto quella che sembrava una maschera; gli occhi erano sottili e verdi, ben si accostavano con la pelle abbronzata ed i tatuaggi, simili ad affilate lame ricurve, facevano ancora di più risaltare la beltà di quel volto, mentre anche qualche biondo ciuffo di capelli appena s’intravedeva uscire da sotto quella testa di animale acquatico.

"Ti sei dunque mostrata, mia avversaria, ora perché non mi dici anche il tuo nome, donna?", domandò, spavaldo, Ayabba, "Vuoi forse riferire agli dei che segui che fu Peré del Grongo a tagliare il filo della tua vita, invasore?", ribatté l’Areoi, alzandosi infine in tutta la sua statura, che superava di diverse spanne quella dell’altro, il quale, a malapena, gli arrivava al petto.

"Il grongo? E che animale è mai questo?", la schernì il guerriero africano, "Non saperlo sarà la causa della tua sconfitta, straniero!", ringhiò di rimando la donna, colpendolo con un violento mal rovescio allo sterno, ma trovandosi d’improvviso con la mano bloccata da una struttura ben più resistente di quanto lei potesse mai aspettarsi.

"Temo invece, donna del Grongo, che non conoscere la natura degli Ippopotami sarà la causa della tua sconfitta.", rise divertito il basso e tozzo africano, espandendo il proprio cosmo e caricandolo nel pugno sinistro, prima che un violento colpo discendente, al pari di un maglio, investisse in pieno il volto di Peré facendola capitombolare fino allo specchio d’acqua.

"Prima lezione: la pelle dell’ippopotamo ha uno strato protettivo di grasso che difende gli organi interni, al pari della mia armatura, che possiede diversi strati di metallo che, fra loro incastonati, generano una più potente difesa per me.", spiegò con voce tranquilla Ayabba, avvicinandosi all’avversaria, che restava immobile vicino al bordo dell’acqua.

Solo quando l’africano fu abbastanza vicino, l’Areoi sferrò un violento calcio ascendente, colpendolo con il tacco alla parte scoperta del viso, per poi compiere, in un unico elegante movimento, una capriola che la portò con i piedi nell’acqua.

"Un’altra cosa che devi sapere degli Ippopotami è che non temono affatto l’acqua!", minacciò il tozzo uomo, caricando frontalmente verso l’avversaria e gettandosi con un balzo nel laghetto, dove anche la guerriera, in pochi istanti, s’immerse, proprio per evitare l’impatto.

A quel punto, Gustave non poté più vedere cosa i due combattenti consacrati ad altre divinità stessero facendo, ma rimase comunque lì, immobile, preso dalla curiosità per l’esito di quello scontro fra creature, dalla sua visuale, così inferiori, l’uno perché sgraziato, l’altra semplicemente perché era una donna.

Lo scontro, intanto, continuava sott’acqua: Ayabba, infatti, entrato nelle profondità di quello che sembrava un laghetto, si ritrovò davanti alla propria avversaria, il cui elmo si era ora di nuovo chiuso dinanzi al volto.

Peré, dal canto suo, scattò in un guizzo contro il corpulento avversario, caricandolo frontalmente ed investendone l’addome con l’intera propria figura, sbilanciandolo e lasciandolo leggermente barcollare, mentre lei, con una velocissima virata, gli si gettava di nuovo addosso, investendolo una seconda volta.

Stava per colpirlo una terza volta, quando il nemico si spostò con inattesa prontezza, rivelando un sorriso divertito nei confronti della guerriera polinesiana, "Che cosa?", riuscì appena a replicare la donna, rivolgendo il proprio sguardo all’altro che appariva sia illeso, sia per nulla in difficoltà nel trovarsi sott’acqua.

Forse fu questa la cosa che più sbalordì l’Areoi, lei, come tutti i servitori di Ukupanipo, aveva delle vestigia in grado di chiudersi a protezione del volto e permettergli di respirare sott’acqua, ma quel suo nemico come poteva possedere una protezione simile?

Nessuna parte di quello che era la sua piccola maschera facciale si era piazzato a coprire il naso o la bocca, dunque come poteva resistere sott’acqua? Era forse in apnea? E quanto sperava di reggere in quelle condizioni?

Questa ultima domanda, però, nella mente della guerriera ebbe una risposta semplice, quanto immediata, portandola a decidere per un attacco diretto che fosse ben più complesso di una semplice carica subacquea; così, dalla posizione in cui nuotava, a pochi metri dal nemico, Peré iniziò a roteare su se stessa, arrivando a creare un leggero vortice intorno alla propria figura, un vortice che, quando la ragazza virò il proprio asse in una posizione ortogonale a quella del nemico, fu rilasciato, assieme all’energia cosmica che si liberò dal corpo dell’Areoi, lanciandosi con violenza contro il nemico.

"Spire acquatiche!", tuonò la combattente del Grongo, mentre il suo attacco correva verso il proprio bersaglio.

Come in superficie, ancora una volta delle spirali simili a lunghi serpenti si mossero verso il guerriero di origini africane, ma, stavolta, con velocità ancora maggiore e, se possibile, quasi invisibili nell’acqua che le circondava, tanto che Ayabba non ebbe il tempo di difendersi da quella violenta carica, proveniente da più punti contemporaneamente, carica che lo spinse indietro nell’acqua, a dondolare, mentre l’ossigeno veniva gettato fuori dai polmoni, seppur come poté poco dopo notare Peré, era stata solo la sorpresa dell’attacco a provocare quella reazione.

Eppure l’Areoi ne era certa, aveva visto degli schizzi di sangue partire dal corpo del nemico, ma questi sembrava illeso, come se, ancora una volta, l’armatura lo avesse difeso dall’attacco; non riusciva a capacitarsi di ciò.

Fu di quel breve momento di distrazione che l’altro approfittò, per caricare il cosmo nelle ampie mascelle d’Ippopotamo che celavano le sue mani, mascelle che furono unite davanti al corpo tozzo del guerriero, pronte a colpire con violenza.

"Fauci delle Grandi Acque!", urlò il combattente della Seconda Armata, scatenando un’ondata d’energia color rubino, che scaturì dalle mani a gran velocità, correndo verso la sua avversaria, che, distratta da quel colore simile al sangue, si mosse solo all’ultimo.

Ayabba non poteva sapere che Peré era ritenuta nell’Avaiki la seconda guerriera più veloce nell’acqua seppur, in generale, non poteva aspirare che non al titolo di quinta nuotatrice più veloce dei consacrati ad Ukupanipo, tanto che non ebbe difficoltà, malgrado il ritardo, ad evitare quel potente attacco, che sollevò mareggiate in quel piccolo lago salato che collegava all’esterno, prima di frantumare una parete di roccia molto più in profondità.

Era l’attacco più potente del guerriero dell’Ippopotamo e vederlo fallire in questo modo lo portò a valutare meglio la situazione a cui si trovava dinanzi: la sua avversaria non era riuscita a superare le difese che lo proteggevano, ma per evitare in quel modo le Fauci delle Grandi Acque, doveva essere molto, troppo, veloce per lui, al pari di Shango ed Akongo, probabilmente.

Proprio quel paragone, però, portò Ayabba ad una riflessione su quanto effettivamente fosse veloce la sua avversaria: Shango, ad esempio, era più lento di Akongo sul terreno, ma non per questo si muoveva meno velocemente quando si librava in cielo, anzi gli era superiore e, allo stesso modo, perché una guerriera consacrata ad una divinità marittima doveva essere altrettanto veloce sulla terra ferma? In fondo, quando aveva combattuto al di fuori di quello specchio d’acqua lui era quasi riuscito a seguire i movimenti dell’altra.

Con questa speranza di successo in mente, Ayabba iniziò a nuotare verso la superficie di quello specchio d’acqua.

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Non avrebbe mai potuto riferire quanto aveva visto al suo comandante Toru, né ad alcun altro compagno Areoi del suo Avaiki o di qualsiasi altro, di fatto, mentre ancora ondeggiava, prossimo a cadere al suolo, si chiese se vi fossero più Areoi o Avaiki.

Lo avevano mandato a chiedere aiuto e, eventualmente, a darne, presso l’Avaiki della dea Ira, signora del Cielo e delle Stelle, in fondo lui proveniva dalla stessa isola dove si trovava quel tempio, le Isole Samoa, ed era uno dei più veloci fra i nuotatori, il quarto, poteva dire senza vana gloria.

Quando era giunto, però, osservare la distruzione che aveva dilaniato quel luogo aveva inclinato la sua determinazione con un velo di tristezza: l’Avaiki di Ira era, da sempre, un luogo bellissimo, che s’ergeva solitario ed imperioso su un altopiano e, quando il cielo era privo di nuvole, permetteva di osservare tutte le stelle della volta Celeste, o almeno questo gli era sembrato la prima volta che vi aveva messo piede.

Per lui, scoprire che non si sarebbe consacrato alla Sovrana dei Cieli, ma al Signore dei Mari era stato un duro colpo, malgrado non volesse contraddire il volere degli dei polinesiani, non aveva mai negato di aver sofferto all’idea di allontanarsi dalla propria casa per vivere nelle subacquee grotte sacre ad Ukupanipo, poi, però, l’incontro con Toru, Maru, Tuna e gli altri Areoi lo aveva rasserenato, quasi reso felice, di vivere in quelle lande acquatiche; aveva accettato con orgoglio le vestigia del Barracuda e consacrato la propria vita ad onorare tutte le divinità delle sue terre. Queste erano state le decisioni che avevano segnato la vita di Io del Barracuda.

Per questi motivi era tornato nella sua terra natia per proteggere l’Avaiki di Ira: aveva abbattuto decine di quei piccoli guerrieri dall’aspetto di insulse formiche con la ferocia del predatore acquatico che rappresentavano le bianche vestigia che indossava, allo stesso tempo aveva combattuto contro un paio degli invasori dall’armatura diversa, fino ad incontrarne tre più particolari, che sembravano quasi invincibili, per quanto uno fosse veloce, un altro volasse ed il terzo paresse quasi invulnerabile, ma nessuno di loro lo aveva finito, no, l’attacco letale era giunto alle sue spalle.

Quando voltandosi aveva visto un’armatura bianca e non nera come la notte, un guerriero che doveva essere consacrato alle sue stesse divinità e non un invasore, non aveva avuto il coraggio di credervi: un traditore nel tempio della dea Ira!

Quello stesso traditore, adesso, stava camminando quieto verso di lui, ultimo sopravvissuto dell’Avaiki, "Ancora non sei caduto, servitore di Ukupanipo?", domandò beffardo quello, avvicinandosi tranquillo.

Io ritrasse il braccio, pronto a sferrare un’ondata d’energia cosmica, ma nulla scaturì e con gran disgusto, l’Areoi si rese conto che gli era stato divelto quell’arto già da tempo per quanto sangue colava dalla ferita, eppure lui non sentiva dolore… "Perché?", domandò d’un tratto, volgendosi al volto parzialmente nascosto del traditore.

"Il mondo cambierà, gli antichi dei non hanno più motivo d’esistere. Credi che sia stato l’unico a rendersene conto? No, la voce del nuovo ordine che sta per sorgere è cresciuta fra tutti e cinque gli Avaiki, scaturendo da quello di Lono e trovando alleati dappertutto.

Anche fra le file di voi, guerrieri di Ukupanipo, ci sono degli uomini che abbracciano questo nuovo mondo.

Probabilmente saranno loro ad uccidere i tuoi compagni rimasti lì.", queste le ultime parole, prima che oltrepassasse il corpo del guerriero del Barracuda, caduto ora al suolo, prossimo a lasciarsi andare.

Le ultime cose che Io del Barracuda poté vedere, mentre già delle lacrime, dinanzi a quella consapevolezza, gli rigavano gli occhi, furono i movimenti del traditore che si sporgeva dalle mura distrutte del tempio, gettandosi verso il mare sotto di lui.

****

Gustave della Lira rivide il guerriero nero salire in superficie e per un attimo rimase sorpreso di come qualcuno potesse essere sconfitto da quel flaccido individuo: aveva visto una gigantesca ondata d’energia increspare quelle acque, ma che un combattente, fosse anche una donna, si facesse battere semplicemente da un così poco elegante tipo d’attacco, risultava al musico francese quasi assurdo e disdicevole.

Quei pensieri, comunque, durarono poco meno di alcuni secondi, prima che anche la bianca sagoma dell’Areoi uscisse dallo specchio d’acqua, rivelandosi ancora viva ed apparentemente illesa al santo di Atene.

"Dunque la tua sicurezza sul combattere sott’acqua è svanita, invasore straniero?", domandò beffarda Peré, osservando l’altro che, ora al di fuori dell’acqua, sembrava decisamente privo di ferita alcuna, per quanto lei fosse certa di aver visto qualcosa di simile a sangue scivolare dal corpo del nemico al momento dell’impatto con le Spire acquatiche.

Ayabba sorrise soddisfatto, espandendo il proprio cosmo scarlatto, "Forse non ti sono pari in velocità nelle profondità acquatiche, in fondo un ippopotamo non è un pesce, ma proprio per questo, nella natura anfibia del mio essere, ti sarò di certo superiore sulla terraferma!", esclamò deciso, prima che l’energia che intorno a lui brillava confluisse sulle mani, prendendo la forma di grossi ed appuntiti denti.

"Affondate, Lame Rosse!", tuonò il guerriero nero, spazzando l’aria intorno a se con quelle lame d’energia che si scagliarono in avanti, dilaniando qualsiasi frammento di roccia si parasse dinanzi a loro.

La guerriera del Grongo non fu però lenta nel reagire, scattando indietro di alcuni passi, poiché da ambo i lati provenivano i fendenti, che andavano chiudendosi come una tenaglia, pronta a recidere il capo del grosso serpentiforme animale marino; "Inutile tentativo il tuo, donna! Lunghi sono i denti dell’ippopotamo e forti quanto basta per uccidere un uomo, solo la natura pacata di questo animale impedisce che tali virtù siano di norma note, ma, non di Ayabba è tale natura, che combatte per la salvezza della propria terra!", avvisò, mentre già le lame di luce sembravano aumentare d’estensione.

Con uno scatto inaspettato, la guerriera spiccò un salto verso la parte superiore della caverna in cui si trovavano, subito seguita dalle lame destre, che prime si mossero verso l’alto, raggiunte di lì a poco da quelle di sinistra, il cui moto aprì dei sempre maggiori solchi fra suolo e tetto di quel piccolo angolo dell’Avaiki, iniziando a far crollare frammenti sul capo del soldato della Seconda Armata d’Africa.

Di quei frammenti approfittò l’Areoi del Grongo, iniziando a poggiarsi sull’uno o sull’altro, nella loro caduta, seguita ad ogni movimento dalle lame nemiche, che andavano distruggendo i macigni e provocando sempre un maggior caos, tale da occultare alla vita di Ayabba la figura della nemica, finché questa non si trovò proprio sopra il suo avversario e, a tal punto, colpì, con un calcio a martello ravvicinato, investendo in pieno volto l’africano, la cui maschera cadde al suolo.

Sfruttando l’impatto, Peré compì a mezz’aria una capriola per riatterrare al suolo, ma, nel far tale movimento, non s’accorse che le lame alla sua sinistra stavano ancora avvicinandosi a lei e non poté evitare che alcune di quelle la ferissero al fianco, lasciandola cadere malamente al suolo sanguinante, mentre un profondo taglio si apriva dalla cinta fino al ginocchio destro dell’Areoi.

Gustave osservò lo scontro con inattesa curiosità: era sorprendente come quel paffuto individuo possedesse lame tanto affilato e, ancora più incredibile, che una donna riuscisse a difendersi così bene, addirittura arrivando a colpire il nemico, ma, nell’eseguire tale gesto, subendo di rimando un ben più grave danno: sbuffò fra se il santo d’argento, in fondo era pur sempre una donna, quindi compiva esagerate azioni per ricevere più danni che guadagni.

I pensieri del cavaliere di origini francesi, però, furono interrotti quando intravide il volto dell’africano e notò come una leggera cicatrice ne rovinasse i lineamenti già sgradevoli: quel guerriero era privo della vista dall’occhio sinistro.

Peré strinse i denti, poggiandosi sulle ginocchia, il destro ululava quasi dal dolore, ma aveva affrontato di peggio negli anni dell’addestramento, si disse, alzando lo sguardo verso il nemico, che trovò privo della maschera che ne copriva il volto e, inaspettatamente, con una cicatrice che ne divideva a metà l’occhio sinistro, evidentemente cieco.

"Questo è un ricordo.", esordì il guerriero dell’Ippopotamo, "Una reminescenza di come, talune volte, si faccia di tutto pur d’essere accettati da chi ci sta intorno.", affermò con voce cupa l’uomo, indicando la cicatrice, prima di lasciar di nuovo fluire il cosmo dal proprio corpo.

"Per questo combatti? Per essere accettato?", domandò l’Areoi, cercando faticosamente di rialzasse, non che le interessasse realmente, ma cercava di prendere tempo, mentre riprendeva una posizione eretta. Solo dell’Avaiki e dei suoi compagni le interessava realmente.

"No, donna, non per l’accettazione combatto, ma per onorare il sogno di pace ed unità che guida il mio comandante, un sogno che ha saputo catturare me, Akongo, Shango e tutti gli altri guerrieri della Seconda Armata, senza distinzione alcuna.", spiegò l’altro, pronto a sferrare di nuovo le Lame Rosse contro l’avversaria.

"Ancora vaneggi della pace delle tue terre, maledetto?", sbottò Peré, irritata da parole che non comprendeva: come poteva portare la guerra nei sacri templi della Polinesia dare la pace nelle lontane terre di quei guerrieri neri?

Probabilmente l’incapacità di capire quelle parole si leggeva persino sul volto tatuato della guerriera, poiché, per un attimo, Ayabba parve tristemente divertito, prima di riprendere a parlare: "Ebbene, ascolta le mie parole, donna, così che, una volta nel Guscio Infinito, tu possa soffrire meno, grazie alla comprensione della verità dei fatti.

Per secoli, forse fin dall’inizio delle Ere mitologiche, le terre d’Africa furono oggetto di invasioni, di guerre, portate per lo più da stranieri, fin da quando i Romani conquistarono l’Egitto, o distrussero Cartagine, forse anche prima di allora, ma di certo, mai e poi mai si sentì di un grande esercito che dall’Africa aveva ottenuto così ampie conquiste in terre straniere al pari del nostro.

Questa è stata la grande intuizione del nostro Sovrano, il Leone Nero! Un’idea nata dalla disfatta di avuta dopo una fallimentare alleanza con un guerriero a cui furono donate le vestigia del Coccodrillo.

Una generazione dopo quella sconfitta, il nostro nuovo sovrano ha trovato il modo di renderci uniti e più forti: dandoci una comune missione, espandere il potere dell’Africa al di là dei suoi confini, mostrare a tutti i possibili invasori che c’è chi protegge quelle terre, chi ha il potere di distruggere i nemici del nostro continente!", tuonò deciso il combattente dell’Ippopotamo, pronto a dare il colpo di grazia, contro un’avversaria ora, di nuovo, in piedi.

"Colpire per primi per non essere colpiti di rimando? Quale folle piano è mai questo? Quanti guerrieri avete perso per giungere fino ai templi consacrati alle divinità delle mie terre? Quanti sperate di averne ancora al vostro ritorno?", domandò affaticata Peré, "Il vostro piano è un folle e suicida progetto che potrebbe gettare le vostre terre ancora di più nel caos! Quale Re sano di mente farebbe mai una cosa del genere?", tuonò ancora, espandendo il proprio cosmo.

Una luce bianca ed immensa si sollevò dalle acque, come se fosse in simbiosi con l’energia dell’Areoi, decine di colonne d’acqua andarono prendendo forma, simili ad altrettanti serpenti, "Sollevati, Conger, alzati ed attacca.

Scagliatevi in tutta la vostra furia contro questo folle invasore, che il suo sciocco sogno si schiuda in un’ineluttabile realtà dinanzi a lui, che possa capire quale errore compie l’esercito che segue.", le decine di colonne, nel frattempo, andavano curvandosi, unendosi le une sulle altre, per riunirsi in un’unica grande colonna d’acqua.

"Conger devastatore, colpisci!", urlò ancora la guerriera del Grongo, scatenando l’unica gigantesca colonna d’acqua contro l’altro, che, in tutta risposta, mosse le Rosse Lame contro il proprio bersaglio.

I denti energetici dell’Ippopotamo d’Africa, però, per quanto potenti ed incontenibili, erano ben poca cosa dinanzi all’agilità con cui si muoveva il Grongo d’acqua della Polinesia, che, agile e scattante, scivolava fra una lama rossa e l’altra, correndo instancabile verso il proprio bersaglio; solo in quel momento, quando l’attacco era prossimo a colpire l’altro, Peré parve scorgere nello sguardo di questi un lampo di preoccupazione, poi, le Lame Rosse si estinsero e l’Areoi fu convinta di aver colpito il proprio nemico, che già volava contro una parete rocciosa alle sue spalle, schiantandosi, per poi rialzarsi, ancora una volta illeso. Eppure, ancora una volta la guerriera era certa di essere andata a segno, ancora una volta aveva visto delle scintille rosse, simili a sangue!

Gustave si dovette allontanare, silenzioso, non appena s’avvide che il nero invasore stava per schiantarsi proprio sulla parete dietro cui lui osservava lo scontro, ma non gli sfuggì niente di quel nuovo scambio di attacchi: né il potente attacco dell’indigena, né la risposta dell’altro, che prontamente era passato dall’offensiva alla difesa non appena aveva capito le virtù del colpo dell’altra, ma la donna, a giudicare dallo sguardo interrogativo che volgeva al suo nemico, non aveva ancora compreso il segreto di quel tozzo individuo, in fondo, si rammentò fra se il cavaliere d’argento, era pur sempre una femmina.

Peré ancora non capiva, osservava ormai stanca il nemico che, a parte l’affaticamento per il prolungato scontro, non aveva la minima ferita, eppure lei lo aveva colpito con due delle sue più potenti tecniche, era certa di aver visto del sangue scorrere, ma l’altro era ancora illeso!

"Puoi anche definire i progetti del nostro Sovrano folli, ma sono in realtà progetti grandiosi, forse incomprensibili per chi vive in una grotta, lontano dalla realtà e dai veri problemi di un popolo tanto variegato quale è quello dell’Africa.

Non crucciarti però della tua incapace di capire, poiché ben presto la tua vita giungerà a termine, cadrai, schiacciata fra le fauci dell’Ippopotamo d’Africa, una fine che non lascia scampo.", minacciò ponendo le due parti della bocca dell’animale che le sue vestigia rappresentavano l’una sopra l’altra, al pari di come aveva già fatto nello scontro subacqueo.

Peré riconobbe la posizione di quel colpo, ma, fuori dal suo ambiente naturale, la guerriera non poteva muoversi altrettanto velocemente, "Fauci delle Grandi Acque!!!", urlò Ayabba, scatenando il proprio potente attacco contro il bersaglio dalle bianche vestigia.

L’Areoi, di rimando, cercò un modo per rallentare l’assalto nemico, se non proprio bloccarlo, richiamando a se le Spire Acquatiche, che con prontezza s’alzarono a difesa della loro padrona, per poi essere, una dopo l’altra, disperse dall’ondata energetica, che, travolte quelle deboli manifestazioni del cosmo della guerriera, si schiantò contro la stessa, investendola con inaudita violenza, fino a gettarla sullo specchio d’acqua, dentro cui scomparve.

La battaglia sembrava finita al cavaliere d’argento che li osservava, eppure il guerriero africano non si muoveva e lui, d’altro canto, non aveva idea di come superare le difese di questi, considerando ciò che aveva compreso, specie considerando le ferite subite nello scontro precedente.

Peré non era però morta, il suo corpo scendeva lento nelle profondità di quel piccolo cunicolo che collegava al mare esterno, le vestigia si sperdevano intorno a lei, in frantumi in più punti, confondendosi in mezzo al rosso sangue di una grossa ferita che le dilaniava l’addome, ma la coscienza della guerriera, in qualche modo, era ancora presente, aggrappata ad un ricordo, cercava di risalire verso il presente.

L’Areoi si rivide in mezzo alle sue compagne guerriere: Kaede, piccola ed inesperta, Paro, la musica come la definiva, Arohirohi, la saggia, e Tara, contro cui stava combattendo.

Un semplice allenamento, niente di più, un momento in cui le donne di quel Avaiki subacqueo si confrontavano l’una con l’altra, così come molte altre di grado minore che erano lì, nei dintorni.

Lei aveva attaccato Tara, per essere abilmente, poi, surclassata da una delle venefiche tecniche dell’altra, che, dopo essersi difesa, l’aveva presa alla sprovvista, colpendola con un secondo attacco subito successivo.

Quel giorno, dopo averla aiutata a rialzarsi, la guerriera del Diodon aveva suggerito all’amica di allenarsi anche ad eseguire colpi dall’elevata utilità difensiva, che l’attacco senza una dovuta difesa non era per nulla utile, in più, Arohirohi aveva sottolineato come il veleno del cosmo di Tara, assieme alle particolarità delle vestigia, fossero una duplice ed efficace difesa per l’Areoi innamorata di Maru, mentre la prestanza fisica di Peré la portasse sempre e solo ad attaccare, dimenticata della propria sicurezza personale.

Fu con quelle parole in mente che aprì gli occhi, vedendo il sangue fluire dall’armatura in pezzi e quella dolorosa immagine le portò dinanzi la verità di ciò che aveva visto quando i suoi attacchi avevano colpito il nemico, una verità che, forse, le avrebbe dato modo di vincere e l’idea le diede nuove forze.

Un bagliore bianco, pochi istanti dopo, s’alzò dallo specchio d’acqua, catturando l’attenzione di Ayabba, che vide le Spire Acquatiche gettarsi contro di lui, che, lesto, utilizzò le Lame Rosse per recidere quei fastidiosi e piccoli serpenti d’acqua ed energia, prima che un ben più grande grongo si lanciasse su di lui, sollevandosi dall’alto ed uscendo dal raggio d’azione degli affilati denti dell’Ippopotamo.

Subito, però, il guerriero si mosse, innalzando le lame, contro quella coltre d’acqua, la cui offensiva fu d’improvviso interrotta, resa nulla non dall’africano, come questi poté capire quando sentì il terreno sotto di se frantumarsi ed un vero e proprio getto d’acqua, non simile ad alcun serpente, lo investì dal basso, schiantandolo contro la parete superiore, per poi farlo cadere malamente al suolo.

Con un balzo, la figura di Peré riapparve dinanzi al nemico, rossa del sangue che ormai macchiava sempre più copiosamente le vestigia, "Dunque avevo ragione, la tua cosiddetta invincibilità non risiedeva solo nell’armatura di cui tanto ti sei vantato all’inizio, ma anche in qualcosa di diverso, qualcosa di legato al tuo cosmo scarlatto! Quello avevo intravisto nel colpirti, non il sangue delle ferite!", lo accusò l’Areoi.

Una risata nacque dalle labbra di Ayabba, mentre si rialzava, chiaramente ferito in modo grave alle gambe, "La tua ignoranza sugli ippopotami ti ha portato a perdere così tanto tempo per comprendere le mie virtù difensive!", esclamò divertito, più da un ricordo del passato che non dai fatti presenti.

Era stata infatti la sua capacità di difendersi, subito individuata da Moyna, a far sì che il comandante della Seconda Armata gli proponesse le vestigia dell’animale anfibio, ma, in quel momento, come spesso era successo nella sua vita, Ayabba aveva visto in quella proposta un modo di ridere del suo aspetto fisico una derisione, come molte altre che aveva subito prima di allora.

Solo l’onesto sorriso del comandante dell’Aquila Urlante, prima, e le amichevoli pacche sulle spalle di Akongo lo avevano convinto delle parole di Moyna, portandolo ad accettare con gioia quelle vestigia.

"L’ippopotamo è solito disperdere molti sali minerali per equilibrare la sudorazione del corpo, una dispersione che sembra quasi sangue per come trasudi dal corpo con un caratteristico colore rosso.

Al pari suo, anch’io uso emanare il cosmo per difendermi ed equilibrare l’impatto con gli attacchi nemici, il che, unito ai diversi strati metallici dell’armatura, mi dà una difesa pressoché invalicabile.", ripeté l’uomo all’avversaria, memore delle parole del suo comandante.

"Invalicabile non è la tua difesa, come le ferite che ti ho inferto dimostrano. Portentosa di certo, ma non impossibile da evadere, quando sei distratto dal contrattaccarmi.", replicò decisa l’altra.

Ayabba per qualche attimo sorrise a quelle parole, poi sollevò le braccia, invitando a colpire, "Ebbene, ti sfido, supera il Sudario Cremisi! La mia assoluta difesa!", tuonò con decisione, espandendo, in modo stavolta ben visibile, il cosmo che lo circondava, che prese forma di una grossa semisfera attorno al guerriero nero.

"Sicuro di questa scelta? Avrai modo di pentirtene contro il mio colpo più potente.", avvisò lei, sollevando le mani sopra il capo, in una posizione che, probabilmente, a chi mai avesse visto l’Aurora execution, sarebbe risultato analoga al sacro colpo dell’Acquario.

"Anfora delle correnti dei mari d’ogni dove, forza devastante che tutto travolge, ecco quale forza ora dovrai affrontare, preparati! Poiché se quella è la tua miglior difesa, io sfodererò il miglior attacco!", minacciò, scatenando poi l’ondata d’energia vorticante.

Il vortice d’energia acquatica si schiantò con violenza contro la barriera rossa, piegandosi fino a diventare un cono, la cui ampia base ruotava con veemenza sulle difese dell’Ippopotamo, accelerando sempre di più di velocità, facendo continuamente vibrare la difesa scarlatta dell’altro.

"Inutile, niente può superare le mie difese!", avvisò il guerriero nero, "Ne sei certo, invasore? Al pari di come sei certo del piano del vostro Sovrano? Credi davvero che cercare la guerra sia il modo migliore per ottenere la pace? Credi che farvi massacrare, uno dopo l’altro, aiuterà le genti del tuo popolo, quando altri verranno a reclamare vendetta? La guerra porta solo alla guerra, desiderare la pace attraverso la guerra è ben diverso da ciò che noi, Areoi, abbiamo fatto qui: noi ci siamo preparati alla guerra per proteggere la nostra pace!", tuonò decisa Peré, memore delle parole, che un tempo, le aveva detto Arohirohi, parole che l’avevano portata a scegliere quella vita.

Il cosmo della donna, poi, ravvivato da quei ricordi, animò ancora di più la potenza dell’ondata d’energia, perforando alla fine il muro d’energia, grazie alla costante rotazione.

Ayabba rimase immobile, sbalordito, non riuscì in alcun modo a bloccare quel colpo che, superate le sue difese, lo investì in pieno, schiantandolo con violenza al suolo, le vestigia dell’Ippopotamo frantumate in più punti, il sangue che scorreva dal corpo.

"Le tue difese sono sconfitte, invasore, arrenditi e ti darò una morte veloce.", sentenziò secca l’Areoi, guardando l’altro che, invece, si alzava in piedi, congiungendo le mani dinanzi a se: voleva attaccare di nuovo con il suo colpo migliore? Allora Peré sarebbe stata pronta, difatti sollevò subito le braccia, pronta a sferrare anche lei il proprio attacco più potente.

Gustave aveva osservato il proseguire dello scontro, stupito dalla forza della donna e dalla determinazione del tozzo individuo dalle nere vestigia e, quando dopo il colpo andato a segno dell’indigena l’altro si rialzò, pronto a contrattaccare, il santo d’argento si fece indietro di diversi passi, cosciente che lo scontro di quelle due energie avrebbe potuto portare alla distruzione di quell’intera area.

Proprio spostandosi, il francese notò due sagome dalle armature bianche arrivare da un varco, invisibili ai due nemici che s’affrontavano al massimo della concentrazione.

La più grande delle due figure strinse il pugno ed un devastante attacco energetico, inaspettato e spietato, investì la testa dell’africano, staccandola di netto dal corpo.

Ayabba dell’Ippopotamo morì così: senza poter effettuare l’attacco, né difendersi dall’inatteso nuovo avversario; Peré fu bagnata dal sangue del nemico e subito si volse verso la coppia appena giunta: "Perché ci avete interrotto? Era mio dovere concludere la battaglia!", esclamò.

La sagoma più esile, senza nemmeno parlare, sollevò le braccia e delle scintille di luce volarono verso l’Areoi del Grongo, perforandone gambe e spalle, così da farla cadere in ginocchio, urlante dal dolore.

"Che significa tutto questo?", reclamò, incapace di capire, la donna.

"Significa che un nuovo mondo sta per nascere e non sarà Toru a comandare su questa Avaiki a quel punto, ma io, in nome dell’Areoi che per primo aprì gli occhi.", esordì una voce alle spalle della guerriera.

Un fascio d’energia frantumò la schiena di Peré del Grongo, fuoriuscendo dal petto squarciato da tale violenza e lei cadde con il corpo inarcato all’indietro, mentre gli spenti occhi non riuscivano a vedere la sagoma del suo assassino.

Gustave, al contrario, poté osservare l’aspetto di tutti e tre i traditori di quel piccolo tempio, tre guerrieri dalle bianche armature che rappresentavano dei pesci.

"Ricordate, l’ordine del nostro comandante è uno solo: nessuno deve lasciare questo tempio vivo, né l’esercito nero, né i nostri passati compagni. Il Nuovo Mondo non ha bisogno di questi seguaci del Leone Nero.", sentenziò la figura che era semiemersa dall’acqua, prima di scomparirvi all’interno, mentre già le altre due sagome si allontanavano da altri due cunicoli di quel labirintico tempio.

Solo allora anche il cavaliere di origini francese si mosse, ora consapevole che anche fra gli indigeni vi erano dei veri e propri nemici.