Capitolo 15: Guerriere velenose

Anansi era sconcertato. Non capiva come fosse successo, eppure qualcuno aveva individuato il suo cosmo ed interrotto il legame che aveva connesso con le quattro vittime, spezzando l’inganno in cui erano stati intrappolati.

L’unica soddisfazione dell’allievo di Ntoro era che aveva saputo reagire rapidamente a questo inatteso attacco, spingendo verso quattro direzioni differenti, per quanto possibile, le sue vittime; o almeno così aveva potuto fare con i due europei, ma non altrettanto si poteva dire relativamente al percorso della coppia di indigeni, per quanto, malgrado fossero ancora relativamente vicini, solo un corridoio li divideva, ma un triste destino li accomunava: lui sembrava essere caduto, inaspettatamente, fra le mani di un suo compagno d’arme traditore, mentre lei stava per incontrare quella che il guerriero della Quinta Armata sperava fosse la sua ultima battaglia.

L’allieva di Mawu del Mamba Nero la attendeva e, probabilmente, sarebbe stato uno scontro mortale per quella guerriera dall’armatura bianca, uno scontro di cui lui non si sarebbe preoccupato di scoprire l’esito, troppo concentrato ad individuare chi lo aveva scoperto ed intrappolarlo in una ben peggiore illusione. Che quello sciocco uomo capisse con chi aveva a che fare!

***

Aveva vagato per nemmeno lei sapeva quanto, ed ora era lì, immobile in una strada ben diversa da quella in cui aveva camminato per lungo tempo, o da quella dove si trovava, precedentemente, assieme a Maru.

Tara di Diodon aveva ricordi confusi delle ultime ore di quella guerra: ricordava di aver combattuto con molti di quei neri invasori, uccidendone alcuni e vedendo il suo amato compagno eliminare gli altri; ricordava di aver avvertito una potente esplosione di energia in uno dei corridoi vicini, chiedendosi chi mai potesse averla generata, dato che non aveva riconosciuto né il cosmo di fiamme, né quello di luce.

Dopo di ciò, però, non ricordava davvero niente! Si era ritrovata in un corridoio molto lungo e privo di alcuna uscita assieme al suo amato, avevano corso in quel punto per pochi minuti prima di rendersi entrambi conto che quel luogo non apparteneva al loro Avaiki, era una zona che non avevano mai visitato e loro due, o per addestrarsi, o per nascondersi agli occhi dei compagni in cerca d’intimità, potevano ben dire di aver visitato l’intero tempio consacrato al dio Ukupanipo.

Quando, però, si erano fermati, d’improvviso, dopo le prime parole, anche Maru scomparve dalla vista di Tara che si ritrovò alla fine sola, in una zona priva di uscite, o di punti di riferimento, oltre che di nemici o amici.

Solo pochi istanti fa quel corridoio senza fine si era tramutato in un luogo conosciuto e forse, "tramutato", era la parola più esatta, poiché non aveva fatto altro che correre lei, finché non era successo qualcosa di piacevolmente inatteso: aveva finalmente sentito un rumore, il rumore dell’acqua che s’agitava sulla sua destra e, guardandosi intorno, aveva compreso, finalmente, dove si trovava.

Seguendo il suono dell’acqua che scorreva, Tara aveva raggiunto il ponte che si affacciava su una cascata interna dell’Avaiki, per quanto questo non spiegasse come, essendo partita dal sesto corridoio, ora si trovasse proprio nel ponte che si poteva raggiungere dal secondo corridoio. Questo, inoltre, le fece chiedere dove fosse Maru, se ancora stesse avanzando nel tragitto che avevano scelto di prendere assieme, o se anche lui si trovasse in qualche altro luogo dell’Avaiki.

Tutti questi dubbi, però, fuggirono dalla mente della giovane guerriera nel momento stesso in cui avvertì una presenza lanciarsi in picchiata verso di lei.

Con un balzo indietro di alcuni passi, Tara evitò quella nera sagoma che, calando dall’alto, aveva provato a buttarla giù dal ponte, riuscendo solo a scuotere lo stesso leggermente, prima di poggiarsi leggiadra su uno dei due corrimani dello stesso.

Quella che aveva davanti era una guerriera di quel nero esercito invasore, come poté notare subito, osservandone le scure vestigia.

Aveva qualcosa di simile a lunghe ali cartilaginee che si aprivano sulla schiena, probabilmente grazie a quella aveva planato così leggiadramente fino al ponte, oltre ciò, le vestigia erano costituite da lunghe protezioni per le braccia, che coprivano dalle mani fino alle spalle, leggermente scoperte, poiché il tronco dell’armatura era sprovvisto di alcun tipo di spalliere, ma copriva dalla gola fino all’inguine con una struttura a cerchi concentrici, che non ne lasciavano affatto risaltare le forme femminili.

I gambali, poi, coprivano da metà coscia fino al piede stesso, lasciando un leggero pezzo di pelle scura scoperta, anch’essi con la medesima semplice fantasia di forme del resto dell’armatura; sul volto indossava una maschera a forma di farfalla, che ne celava i lineamenti del viso, ma niente di più, a malapena impediva ai corti capelli castani di portarsi dinanzi agli occhi scuri, mentre le labbra, ben visibili, erano rigide in una forma inespressiva.

"Chi sei straniera?", domandò, dopo averla ben squadrata, l’Areoi, "Akuj della Licenide, membro della Prima Armata ed allieva della potente Mawu del Mamba Nero!", rispose l’altra, compiendo un leggero balzo per atterrare in piedi sul ponte, a pochissima distanza dall’avversaria.

"Sei stata tu a condurmi fin qui con l’inganno?", incalzò ancora Tara, ricevendo una silenziosa sorpresa come unica risposta, prima che l’altra, ripresasi dal momentaneo stupore, replicasse anche a parole: "Se parli d’inganni, probabilmente sarai stata vittima di Anansi della Quinta Armata, mia bella sciocca!", ridacchiò la guerriera nera, "Sorte infelice ha scelto per te l’Ingannatore, poiché ora il venefico potere della Licenide ti strapperà alla vita.", minacciò decisa, espandendo il suo cosmo, che si rivelò sotto forma di due più ampie e nere ali da farfalla.

"Anche tu, dunque, usi il veleno in battaglia? Che divertente coincidenza.", sentenziò decisa la guerriera di Diodon, ampliando a sua volta il proprio cosmo venefico che come ondate s’agitava dalle vestigia bianche, "Chissà quale veleno sarà mortale e per chi.", concluse, pronta ormai alla battaglia, cosciente che, prima l’avesse finita, prima si sarebbe potuta dedicare a ricercare Maru, per quanto non fosse in pensiero per lui, ma solo desiderosa di rivederlo.

"Pioggia di Larve, adombra il suo futuro!", ordinò secca Akuj, aprendo le mani dinanzi a se, così da generare una fitta condensazione di energia cosmica che andò a piovere, come sottili gocce, verso l’avversaria dalle bianche vestigia, che, però, non fu da meno nel sollevare le proprie difese: "Sfera di Aculei!", invocò infatti Tara, mentre alcune parti delle vestigia, più cartilaginee, andavano gonfiandosi, così come gli aculei sulla stessa, che andarono ingrandendosi, finché un sottile strato di venefico cosmo andò ad ampliarsi da questi, coprendo per intero la figura dell’Areoi, in una sorta di palla.

A chi conosceva il Pesce Istrice, quella forma, probabilmente, avrebbe ricordato l’aspetto dell’animale stesso che, nel momento in cui deve difendersi, amplia la propria struttura fisica, diventando del tutto simile ad una piccola palla piena di punte acuminate, così che i predatori desiderosi di mangiarlo debbano rinunciare, per l’aumento di dimensioni e le pericolose difese.

Su quella struttura difensiva cadde la pioggia d’energia scatenata dalla guerriera della Prima Armata Savanas, senza che Tara notasse, o avvertisse, alcun danno alla propria persona, tanto che, quando l’attacco fu concluso, la polinesiana si rialzò senza problema alcuno dalla posizione chinata in cui s’era portata, pronta a continuare lo scontro ed abbastanza sicura di poterlo terminare in tempi brevi.

"Tutto qui ciò che sai fare, guerriera nera? Ebbene, penso che dovrò darti una dimostrazione di cosa sia un vero veleno!", minacciò prontamente l’Areoi, sollevando le braccia dinanzi a se, su cui le vestigia si andavano gonfiando oltremodo, lì dove la struttura cartilaginea lo permetteva.

Non ebbe però il tempo di attaccare Tara, poiché rapida si mosse Akuj, spiccando un agile salto verso l’alto e tentando di colpirla, subito dopo, con un violento calcio a martello al capo, un attacco, che, comunque, andò a vuoto, grazie alla velocità di reazione della polinesiana, che, con un singolo balzo, si spostò, evitando l’altra.

L’allieva di Mawu del Mamba Nero, però, non si perse d’animo e subito tentò un nuovo assalto, un montante che inutilmente si perse a pochi centimetri dall’Areoi che, sfruttando a sua volta la vicinanza, sferrò un violento gancio allo stomaco dell’avversaria, spingendola indietro di qualche passo.

"Non sono velleità adatte ad una donna quelle del corpo a corpo, per chi usa il veleno in battaglia, o comunque per chi ha cura di se stessa, lo scontro dovrebbe portarsi avanti più sulle lunghe distanze.", avvisò con una nota critica la guerriera del Diodon, non ricevendo inizialmente alcuna risposta, se non un agile salto, ad ali spiegate, dell’avversaria, il cui mantello sembrò gonfiarsi per l’aria che vi passava sotto, permettendo all’africana una capriola a mezz’aria e poi un elegante atterraggio su uno dei due corrimani del lungo ponte. Proprio da quella posizione, Akuj tentò un calcio verso il volto dell’Areoi, che fu svelta nell’abbassarsi, evitando quel colpo e tentando poi di sbilanciare l’altra con un gancio alla gamba d’appoggio, la stessa che l’allieva di Mawu sfruttò per compiere un nuovo salto, provando ad atterrare, a piedi uniti, proprio sulle vestigia del Pesce Istrice, senza però riuscire nel suo intento, poiché più svelta fu l’altra a spostarsi di nuovo.

"Parole vanesie e sciocche le tue, indigena. Di chi non sa cosa una vera battaglia sia. La mia maestra, la potente Mawu del Mamba Nero, è suprema signora di mortale veleno, ma non per questo rifiuta lo scontro fisico con chi desideri combatterla, poiché questa è la vera natura dei guerrieri: accettare e vivere pienamente la battaglia; non sfuggirgli con colpi speciali e scuse simili, che ti permettono d’affrontare i nemici sulla distanza!", l’ammonì Akuj, allargando le braccia ai lati del corpo, e con esse, l’ampio mantello.

"Le mie parole, forse, saranno sciocche e vanesie.", lamentò Tara, imitando sarcasticamente la gestualità dell’altra, "ma finora non hai portato a segno un solo attacco, guerriera nera!", sottolineò decisa, espandendo ancora una volta il proprio cosmo.

"Al contrario, mia sciocca e superba avversaria, la tela di un destino avverso è già ben stata preparata attorno a te, attende solo di chiudersi.", affermò divertita Akuj, prima che il contrasto fra il cosmo del Diodon e quello della Licenide non rendesse ben visibili delle leggere polveri che andavano combinandosi, diventando una fitta seta, che sempre più si chiudeva su Tara.

"Che cosa? Quando?", riuscì appena a balbettare sorpresa l’Areoi, incapace di espandere il proprio cosmo in tempo per lo stupore, "Crisalide di Venefica Morte!", urlò semplicemente Akuj, di rimando, chiudendo le mani, così come andava a chiudersi la trappola sulla sua avversaria, stringendola in fitte maglie dal venefico tessuto.

"La tua sorte era segnata nel momento stesso in cui hai sottovalutato la forza della Prima Armata.", sentenziò soddisfatta la guerriera dei Savanas, restando ad osservare la sorte della nemica.

***

Correva nei corridoi dell’Avaiki da diversi minuti: era ferita, solo, stanca e si chiedeva cosa ne fosse stato dei suoi cinque giovani allievi.

Da quanto tempo non li vedeva? Waku della Balenottera azzurra era subito partito verso l’ingresso del tempio, ad udire il rumore di quel misterioso assalto, Kohu, Kanae ed Aitu erano rimasti nella zona degli alloggi dei guerrieri, mentre lei si era mossa assieme alla sua allieva più grande, Kaede di Hippocampus.

In effetti l’addestramento di tutti e cinque era da molto concluso, specie per Kaede e Waku, ma non per questo lei li sentiva meno come propri allievi, però ciò non era bastato per proteggerli tutti e salvarli, no, non ce l’aveva fatta ed ora si chiedeva come stessero, così come si chiedeva quale fosse stata la sorte di Parò, Peré, Tara, Arohihori, tutte guerriere come lei e, ognuna a modo proprio, sue amiche.

Troppi pensieri per la testa, dove fermarsi un attimo e riprendere fiato, si disse, poggiandosi ad una parete poco distante ed osservando le proprie vestigia.

Dell’armatura di cui era custode, quella del Mola Mola, il Pesce Luna, ben poco restava della grandiosità di un tempo: la possente struttura semiovale che copriva tronco, spalle e parte delle gambe era ormai piena di crepe e con alcuni pezzi mancanti nella zona dell’addome e della spalla sinistra; i gambali, che assieme combinavano la pinna dorsale dell’animale, erano in pezzi in più punti, così come le protezioni per le braccia, costituiti dalla grossa pinna caudale della creatura; l’elmo poi, che prendeva la forma del becco dell’animale, era ormai in pezzi, disperso da qualche parte, vicino al cadavere della sua allieva prediletta.

Il ricordo del cadavere senza vita di Kaede le produsse un senso di vuoto sotto i piedi, una sofferenza che la costrinse a riprendere fiato di nuovo; si erano trovate circondate da quei guerrieri neri dalle vestigia tutte simile ed avevano saputo ben rispondere, usando la potenza dell’energia luminosa che lei sapeva generare, combinata con le sfere d’acqua che l’allieva emetteva ad alta velocità, non era stata una vittoria difficile, ma poi era arrivato un altro guerriero, qualcuno di così rapido nei movimenti che lei non era nemmeno riuscito a distinguerne l’aspetto, qualcuno che aveva senza difficoltà dilaniato in più punti le vestigia di entrambe.

Le aveva definite facili prede e già l’allieva si era posta a sua difesa, "Maestra Atanea, non si preoccupi, la difenderò a costo della vita.", aveva detto, riempiendola di orgoglio, ma non aveva potuto dirglielo, né aveva potuto fare altro, poiché, nel momento stesso in cui quel rapidissimo nero nemico stava per assalirle, aveva intravisto un’altra ombra scura sferrare un qualche fendente verso di loro.

I due attacchi, per quanto non coordinati, ma piuttosto concorrenti fra loro verso il medesimo premio, le avevano colpite entrambe, ma le vestigia del Mola Mola erano più grandi, meglio corazzate di quelle di Hippocampus, tanto che l’insegnante era sopravvissuta all’allieva, il cui corpo era stato letteralmente fatto a pezzi.

Ricordava che i due poi avevano litigato fra loro, allontanandosi e dandole la possibilità, poi, di lasciare quel luogo a sua volta, con il viso rigato di lacrime; si chiedeva cosa avrebbe fatto al suo posto la sua insegnante, Hina del Lactoria, o cosa avrebbero fatto i suoi due compagni di addestramento: Tara del Diodon ed il guerriero del Balistes, ma nessuna di queste risposte avrebbe ridato vita all’allieva.

Un rumore, però, la riscosse dalle domande che si poneva e dai tristi ricordi, un rumore che si rivelò essere fatto non da un nemico, ma da un volto conosciuto e, in qualche modo, amico, un volto che le sorrideva malizioso, come sempre.

"Atanea, cosa ci fai qui da sola? Io ho perso il resto del gruppo con cui mi stavo muovendo, è successo lo stesso anche a te?", domandò quel nuovo arrivato, "Kaede è …", poi si fermò, "Sto cercando Kohu e gli altri miei allievi, penso che siano lontani dalle sale del comandante Toru, se vuoi, possiamo cercare gli altri assieme, Popoa.", spiegò semplicemente, troppo debole per dire a qualcuno di ciò che era successo, ricevendo un cenno d’assenso dall’altro, che la fece andare avanti, nei pressi di un piccolo specchio d’acqua da cui provenivano delle orme.

***

 

Stava per voltare le spalle alla crisalide da lei formata, Akuj della Licenide, quando sentì delle semplici parole provenire dalla stessa, parole che aveva già udito ben pochi minuti prima: "Sfera di Aculei!", poche parole che preannunciarono la rottura della trappola che aveva tessuto e la liberazione di Tara di Diodon.

L’Areoi, infatti, libera da quella venefica tela, si rialzò in piedi senza particolari problemi: "Mi scuso per come mi sono comportata finora ed ammetto che, di certo, l’astuzia non ti manca, guerriera nera, se hai portato dei così banali attacchi fisici, approfittando della tua agilità, per distribuire il venefico cosmo che emanavi agitando quella mantella, intorno a me, rinchiudendomi in questa crisalide di veleno.", affermò la polinesiana, espandendo il proprio cosmo che iniziò a filtrare dai piccoli aghi delle zone rigonfie dell’armatura.

"Peccato che ben poca cosa era la mistura che trasudava da quel bozzo di morte; forse chi è inesperto, o impreparato, contro venefici poteri potrà trovare la morte per così poco, ma non di certo io, mia scaltra avversaria.", la ammonì in seguito.

"Vedo, in effetti, che ancora sei in piedi a menar consigli e blaterar inutili osservazioni; la resistenza ai veleni non ti è difetto, questo te lo concedo, ma non per tale motivo avrai facile vita contro di me, indigena. Ben più pericolose armi ho da mostrarti, già da tempo segnato è il tuo destino.", sentenziò decisa l’allieva di Mawu, espandendo a sua volta il proprio cosmo, che s’ampliò dalle ali a farfalla dell’armatura.

"Aculei Venefici! Abbattetevi sulla mia nemica!", ordinò secca Tara, lasciando esplodere il proprio attacco e liberando dall’armatura decine di aculei d’energia che volarono, come un muro invalicabile, ed inevitabile, contro la guerriera nera, che, però, non fece minimamente niente per allontanarsi.

"Farfalle di Morte, alzatevi in volo e combattete per me!", ringhiò di rimando Akuj, mentre dal vasto mantello prendevano forma decine di nere farfalle che si lanciavano all’assalto contro il bianco muro dell’altra.

I dardi venefici generati da Tara andarono a scontrarsi con le farfalle energetiche dell’avversaria, farfalle che si schiantarono quasi volontariamente contro quella barriera che caricava contro di loro, ma non ne furono oltrepassate, bensì, ognuna di quelle creazioni di Akuj che veniva colpita, si scioglieva, scivolando intorno all’aculeo che l’aveva trapassata, inglobandolo in una sorta di piccola sfera che ricadde sul ponte fra le due guerriere, finché di quello scontro di forze non rimase solo quello: un ammasso informe che lentamente sciolse una parte della pavimentazione del luogo dove stavano combattendo.

"Mi dispiace per il tuo attacco, indigena, ma ben poco puoi fare contro la potenza delle mie Farfalle di Morte!", urlò ancora una volta l’allieva di Mawu, scatenando ancora le proprie creature contro l’Areoi, che rapida sollevò le proprie difese intorno a se.

La Sfera di aculei fu ben presto circondata dalle piccole creazioni di Akuj, che sulla stessa si poggiarono, iniziando a sciogliersi, ancora una volta, per ricoprirla per intero, cercando di rendere la difesa della guerriera del Diodon, una trappola in cui s’era cacciata da sola.

"Inutile tentativo il tuo, indigena, dovresti averlo capito ormai! Le Farfalle di Morte si sciolgono a contatto con il loro bersaglio, insinuando il veleno attraverso lo stesso. Così com’è successo per quei tuoi aculei d’energia cosmica, lo stesso accadrà ora a quella sfera che ti difende ed alle vestigia che indossi, ben triste destino ti aspetta ormai!", minacciò sicura di se Akuj, ma quella stessa sicurezza le morì sulle labbra quando vide ciò che stava succedendo dinanzi a lei.

La sfera verdastra che, infatti, s’era andata creando grazie alle sue Farfalle di Morte, stava ora crepandosi, perforata dall’interno da nuovi aculei, più lunghi e densi, di un colore fra il blu ed il porpora, che s’andava facendo strada finché il malsano attacco dell’africana non fu distrutto, disperdendosi nell’area circostante Tara, che ora, era di nuovo in piedi, con le vestigia incredibilmente gonfie, quasi oltre i limiti che si sarebbe immaginato potessero avere.

"Mi chiedi se ho capito tutto dei tuoi colpi? Ebbene, straniera, sì. Ho scoperto il segreto che rende il tuo veleno così debole.", ribatté decisa l’Areoi, sollevando le braccia, mentre lo spirare del suo cosmo ricreava di nuovo la muraglia di aculei dinanzi a lei.

"Aculei Venefici, ecco la vostra vittima! Abbattetela!", ordinò secca la guerriera polinesiana, scatenando ancora una volta il proprio attacco che fu stavolta troppo veloce per l’altra, incapace di reagire, stupita dalle parole rivolte lei poco prima, tanto da trovarsi d’improvviso circondata da quel veleno muro di aghi, che la travolse, spingendola indietro di alcuni metri, con la sola protezione del mantello ad ali che le impedisse di subire direttamente tutti quei sottili fendenti.

Tara di Diodon osservò in silenzio, finché l’altra non fu ormai in ginocchio, di certo infettata dal veleno di lei, allora parlò: "Il tuo errore, guerriera africana, è stato quello di usare un potere che non ti era proprio, come ho potuto capire solo dopo aver subito due volte i veleni che sai generare. Immagino che la manifestazione del tuo cosmo dovesse essere qualcosa di simile ad acqua, o condensazioni di energia che potevi liquefare, ma perché da ciò sei passata ad addestrarti nel perfezionare un’energia venefica, non lo immagino, per quanto, proprio quello è stato l’errore.", iniziò a spiegare.

"Come lo hai capito?", domandò, cercando di rimettersi in piedi, la guerriera dei Savanas, "E’ stato il tuo stesso veleno a dirmelo. Quando il primo attacco che hai portato non ha avuto successo, non l’ho compreso, ma già dal secondo, quella specie di bozzolo in cui mi hai rinchiusa, lì ho iniziato ad intuirlo.

La mia maestra diceva sempre che ci sono solo due modi in cui un guerriero la cui impronta cosmica è densa d’energia venefica può manifestarlo: con veleni che s’inoculano per piccole dosi, facendo soffrire e morire lentamente i nemici, oppure con degli attacchi ad ampio raggio, il cui potere mortale abbatte uno, o più nemici in un singolo istante.

E proprio di questo secondo tipo ho pensato fosse quella Crisalide, come l’hai chiamata, ma poi ho notato che non aveva alcun effetto e, per quanto le vestigia di cui sono custode hanno delle caratteristiche atte a non far traspirare i veleni ed io stessa sono difficile da esserne infettata, la completa assenza di effetti mi ha lasciato sorpresa.

Quando poi ho visto il modo in cui si comportavano quelle Farfalle e l’ho provato sulla mia difesa ho capito: tu mascheri, per qualche motivo, la tua vera impronta d’energia cosmica con una venefica, anche se questo ti porta ad attacchi decisamente più deboli e, alla fine, ti ha portato alla sconf…", sull’ultima parola, però, fu Tara a doversi inginocchiare, perché, d’improvviso un dolore accecante le pervase le membra, divorandola dall’interno.

"Quasi tutto ciò che hai detto, indigena, era giusto: uso un’impronta che non mi è naturalmente propria, esatto, ma hai sbagliato su due cose ben più fondamentali.

Innanzi tutto hai creduto che fossi sconfitta, quando il mantello di cui sono in possesso ha contenuto buona parte del veleno che hai emesso, poiché, al pari delle tue vestigia, anch’esso è fatto per impedire il passaggio dell’essenza venefica, in ambo i sensi, almeno che io non lo voglia; ma l’errore più grande è stato credere che la Pioggia di Larve non avesse funzionato su di te, invece, come ti avevo preannunciato, ha adombrato il tuo destino.

Covavi dentro di te la morte che ti avrebbe raggiunto, per quanto è stata una covatura più lunga della norma, lo ammetto, ma ormai le larve stanno ti dilanieranno dall’interno!", minacciò sicura di se Akuj, rimettendosi in piedi.

"Com’è possibile?", balbettò appena Tara, guardando l’avversaria, "E’ nella natura stessa della Cacyreus marshalli, anche detta Licenide dei Gerani, un tipo di farfalla del Sud Africa, depositare le proprie uova dentro i gerani, per l’appunto, e poi lasciare che le larve, una volta nate, si nutrano della vita stessa di quei fiori, per poi sorgere al loro vero aspetto.

Ho fatto lo stesso con te: la Pioggia di Larve ha lasciato trasudare in te una piccola parte del mio cosmo che, attraverso l’acqua di cui è composto il corpo umano si è diffuso come un veleno che solo ora sta dimostrando la sua mortale potenza, quindi accetta la tua fine, guerriera di questo tempio, poiché il più potente attacco che possiedo è stato il primo che hai subito!", concluse decisa.

Tara era ancora al suolo, i pugni chiusi che colpivano il ponte, incapace ancora a rimettersi in piedi ed Akuj la osservava, sorpresa da quanto resistenza ancora quella donna facesse contro il suo veleno, sorpresa in positivo.

"Ti farò un dono, per premiare la tua voglia di combattere ancora, polinesiana, ti spiegherò perché ho sviluppato un potere cosmico affine al veleno, anche se non era quello verso cui ero naturalmente portata, ma sarà una storia lunga, l’ultima che sentirai in vita, che ti accompagni come una dolce fiaba, verso il Guscio Infinito.", concluse la guerriera africana, iniziando il suo racconto.

"La mia famiglia faceva parte delle tribù nomadi Turkana, stanziate nelle vastità del Kenya e come tale anch’io crebbi nomade, per molto, moltissimo tempo.

Un giorno, quando avevo poco più di otto anni, la mia gente fu assalita da dei guerrieri Masai, non seppi mai il motivo di quel loro gesto feroce e, a distanza di anni, ormai non ha più valore per me; so solo che quel giorno il mondo come lo conoscevo finì ed io fui ridotta in schiavitù.

Tre anni vissi in uno stato che era fra quello del bestiame e di un oggetto, niente di più, forse poco di meno, un premio di guerra, inizialmente, poi un mezzo di baratto, finché non la incontrai: perfetta, potente e feroce come nessun altro! Aveva qualche anno più di me e guidava in battaglia altri due guerrieri che la chiamavano Maestra, due uomini asserviti ad una donna, qualcosa che non avevo mai visto prima.

Giunse al campo Masai in cui ero tenuta con il solo fine di parlare, predicare l’avvento di un nuovo ordine in cui un solo Sovrano avrebbe unito tutte le genti d’Africa in un’unica grande popolazione, senza più distinzioni di tribù, o etnia, senza differenze di lingua, o di culti religiosi, avrebbero addirittura eliminato le divinità, per renderci tutti simili, devoti alla stessa fede, allo stesso Re.

I guerrieri che mi erano padroni, allora, non accettarono quelle proposte ed assalirono la donna ed i suoi due seguaci, venendo, uno dopo l’altro, uccisi, schiacciati al suolo da un veleno mortale che li massacrava, dilaniandone le carni senza ritegno alcuno.

Lei passava fra i suoi nemici tranquilla, camminando senza paura e dopo pochi passi, ogni avversario cadeva al suolo, esanime.

Forse fui abbagliata dalla sua magnificenza, forse incantata da quelle parole e dal sogno di unità e libertà che, dopo tre anni, mi sembrava tanto lontano, ma, proprio quando uno di quei guerrieri stava per tentare di colpirla alle spalle, io gli saltai addosso e lo uccisi, usando solo un grosso sasso che avevo trovato lì vicino. Ovviamente, allora non capivo che quella donna non avrebbe temuto, né rischiato la vita contro quel vile.

Il mattino dopo, la donna ed i suoi due seguaci stavano abbandonando l’accampamento, ormai privo di guerrieri, ed io corsi loro dietro, chiedendo che mi portassero con loro, che mi permettessero di partecipare a quel loro sogno di unità dell’Africa e colei che li comandava, che solo allora scoprii chiamarsi Mawu del Mamba Nero, acconsentì, presentandomi a quelli che definì i propri discepoli: Kwoth della Ceraste Cornuta e Chuku del Naja Haje, il Cobra Egiziano.

Fui iniziata ai segreti del cosmo, ed anche se, come più volte mi disse il saggio Chuku, il mio potere era simile al Lago Turkana, da cui la mia gente prendeva il nome ed alle cui coste era nata quella cultura a cui appartenevo, io desideravo essere simile alla donna che avevo preso come modello, alla grande Mawu, ma lei non avrebbe mai addestrato direttamente chi non possedeva un cosmo velenoso.

Chuku e Kwoth furono per me, e per Chikara che fu liberata dagli schiavisti, maestri per un lungo periodo, finché non riuscii ad ottenere ciò che tanto anelavo: avere un cosmo che potesse essere degnamente notato dalla mia vera insegnante, il Primo Comandante dei Savanas.", finì di raccontare Akuj, prima che una leggera nota di tristezza le rigasse le parole, "Ora Chuku e Kwoth sono morti, così come la maggioranza dei membri della nostra Armata. La mia comandante avanzerebbe anche da sola per il nostro Re, per il suo sovrano, ma questo non posso permetterlo, né io, né Chikara possiamo, per questo combattiamo.", concluse.

"E per questo, sono spiacente, ma cadrai, Akuj della Licenide.", sussurrò di rimando Tara, rialzandosi infine.

La guerriera africana indietreggiò stupita: "Com’è possibile?", si chiese soltanto, guardando, per la prima volta, qualcuno sopravvivere al veleno che s’insinuava dentro il corpo della Pioggia di Larve; sapeva che i suoi attacchi non erano paragonabili a quelli della grande Mawu, nemmeno lontanamente, ma quel singolo suo colpo aveva la capacità di raggiungere il fattore velenoso degli attacchi di Chuku e Kwoth, allora perché mai quella donna, l’Areoi che aveva davanti, era ancora viva contro l’attacco che così tanti nemici aveva eliminato negli anni?

"Il tuo veleno è potente, per quanto di origine artificiosa, come tu stessa hai ammesso, e forse in dose maggiore, avrebbe anche potuto diventare mortale per me, ma hai sbagliato a credere che fosse entrato, per una qualche sorta di sudorazione inversa, attraverso le mie vestigia. Come ti ho detto, l’armatura che possiedo impedisce che i cosmi venefici passino, in ambo le direzioni, quindi solo una minima dose, probabilmente capace di raggiungermi al volto, è riuscita a superare la Sfera di Aculei ed insinuarsi nel mio sangue, una dose insufficiente, rispetto al veleno che già scorre in me, per uccidermi più velocemente di quanto già quello non stia facendo.", spiegò secca l’Areoi di Diodon, avanzando all’indietreggiare dell’altra.

"Che vuoi dire con questo?", domandò perplessa Akuj, "Che, al contrario di te, non ho mai cercato di avere un cosmo velenoso, ma mi è stato dato in dono per natura, un cosmo mortale, che uccide tutto e tutti, anche me, che lo trattengo nel corpo, evitando che s’insinui nelle persone che mi stanno attorno, costringendomi all’isolamento in queste vestigia.

Solo un uomo ha accettato di condividere il mio destino e da lui devo tornare, e tu, guerriera nera, mi sei di ostacolo in tal fine.", concluse decisa Tana, pronta a continuare lo scontro.

A quelle parole, l’allieva di Mawu si fermò, "Dunque vuoi ancora combattere? Bene, non mi farò da parte! La mia maestra loda i coraggiosi ed i combattenti, non i vigliacchi. Pensi di poter vincere? Eppure per quanto i miei veleni non ti abbiano sconfitto, lo stesso si deve dire dei tuoi, quindi vedremo chi di noi per prima impartirà il colpo mortale sull’altra.", minacciò decisa la Savanas, espandendo il proprio cosmo che si rivelò sotto forma di molteplici farfalle.

"Sbagli ancora una volta, mia avversaria, non realmente i nostri colpi sono stati inutili gli uni contro gli altri, ma più semplicemente ancora il mio veleno non ti ha raggiunto, al contrario del tuo, inefficace su di me. Ora scoprirai l’essenza stessa del potere di cui sono padrona e vittima al qual tempo, ora vedrai la tecnica che mi fu lasciata in eredità dalla mia insegnante, Hina del Lactoria.", avvisò di rimando Tara, sganciando con la mano sinistra il coprispalla destro, che si sgonfiò non appena poggiato al suolo, dinanzi allo sguardo curioso e guardingo della nemica.

"Cosa pensi di fare? Stupirmi con la tua bellezza, guerriera?", domandò ironica Akuj, per quanto era innegabile la delicatezza ed il fascino che anche la sola spalla della giovane Areoi sapevano trasmettere, "No, seguace di un Re invasore, ora ti spiegherò perché, finora, ho sempre detto che le vestigia del Diodon erano fatte apposta per impedire che il veleno passasse, in ambo i sensi, ora ti mostrerò perché la mia armatura si gonfia di continuo quando sferro gli attacchi, ora vedrai il fluire del mortale veleno di cui sono portatrice!", urlò alla fine Tara, espandendo il proprio cosmo.

Solo allora, in quel semplice gesto, Akuj notò che le vestigia andavano gonfiandosi, come aveva visto spesso nel corso di quello scontro, ma, allo stesso tempo, una sorta di nebbia violacea andava espandendosi a partire dalla spalla scoperta, una nebbia che stava velocemente circondando il corpo della guerriera polinesiana.

"Il Diodon, o pesce istrice, come molti altri pesci della famiglia dei tetraodontiformi, ha poche caratteristiche quali una bocca con solo quattro denti, che formano una sorta di becco, ed una pelle per lo più cartilaginea che si gonfia, per impedire ai predatori più grossi, di mangiarli impuniti.

Da molte generazioni, i seguaci di Ukupanipo che possiedono un cosmo venefico, prediligono questa tipologia di pesci per le loro armature, poiché è sia difesa, per chi gli sta intorno, ma è anche un mezzo per sorprendere i nemici, che credono che le leggere emanazioni azzurre, o di simili colori, che filtrano dai piccoli pori delle vestigia, siano l’unica forma possibile di veleno che sappiamo emanare, ma ben più potente arma possediamo e nascondiamo, in vero, la stessa che ora proverai su di te.", spiegò infine la bianca guerriera.

"Belle parole le tue, ricche di informazioni che però non cambiano un fatto: hai scoperto la tua pelle, ora so dove colpire! Farfalle di Morte, eliminate questa nemica!", ordinò secca Akuj, "Inutile speranza la tua, niente può sopraffare i Flutti Purpurei!", tuonò di rimando Tara, dirigendo quella violacea nebbia contro l’avversaria.

Nel momento stesso in cui liberò il suo attacco, così come le altre rarissime volte in cui ne aveva fatto uso, la guerriera del Diodon ricordò quel giorno lontano, cinque anni prima.

Erano passati tre giorni da quando la maestra Hina le aveva trasmesso la sua arma ultima, liberando per primo il proprio veleno in una piccola sala dell’Avaiki, dove si trovavano solo loro due e rivelandole come controllare, a propria volta, quel letale potere.

Tre giorni ed ora la sua maestra, quasi lo avesse previsto, era sul letto di morte, incapace di rialzarsi.

Tara era arrivata al bordo di quel letto non appena aveva saputo la notizia e come lei anche Atanea ed il guerriero di Balistides, ma Hina del Lactoria era rimasta immobile, in silenzio, il respiro debole che, di quando in quando, s’abbandonava a qualche rantolo di dolore.

Durante il corso di quella terribile giornata, tutti gli Areoi del tempio erano giunti a farle visita: la comandante Tiotio della Piovra con la sua allieva, il potente Afa dello Squalo Tigre con tutti i discepoli, Anguilla, Grongo, Conchiglia e la loro insegnante, tutti quanti, insomma, fino alla sera, quando Hina aveva parlato, con le sue ultime, poche, parole di commiato.

"Vi saluto, miei amati allievi, è tempo che io raggiunga la Caverna di Milu…", aveva sussurrato, citando il luogo di riposo dei defunti nelle terre dell’Oltretomba polinesiana, poi aveva cercato con la propria mano destra quella di Tara, "Piccola mia, ti lascio un destino difficile da seguire, una sorte di solitudine come la mia …", le aveva detto, prima che il fiato le venisse a mancare, lasciando la guerriera del Diodon in lacrime, con il capo chino sulla mano, ormai senza vita dell’insegnante.

Quando la vita era spirata via dal corpo di Hina, i tre discepoli si erano allontanati dal corpo, affinché fosse preparato per i riti funebri e Tara si era ritrovata sola, in un angolo dell’Avaiki, a piangere per la sua condizione.

Fin da piccola, ricordava, nell’isola di Niue, dov’era nata, tutti l’avevano lodata per la sua bellezza, una bellezza che andava oltre il credibile, una bellezza che, a detta di qualcuno, aveva portato alla fanciulla una grande sfortuna, poiché, chiunque le si avvicinava, moriva in pochi giorni fra atroci dolori.

Inizialmente si era pensato ad un maleficio, ad una sorte sfortunata, questo pensavano i popolani più legati alle vecchie tradizioni, ma, quando questa voce era giunta agli Avaiki, alcuni Areoi avevano avvicinato la giovane, scoprendo l’innata capacità di emanare il proprio cosmo, anche se priva di alcun tipo di controllo.

Era stata portata presso il tempio di Pili, nelle Isole Hawaii, credendo che il suo potere fosse legato agli spiriti non morti, sarebbe stato il vecchio e saggio Ono di Kapuku, sacerdote del tempio, ad occuparsi di addestrarla, ma ben presto anche l’anziano Areoi si rese conto che l’emanazione cosmica della fanciulla era un’emanazione di tipo venefico, così fu Hina del Lactoria a diventarne l’insegnante.

Per Tara furono entrambe situazioni dense di paura e preoccupazione: già scoprire che non era stata la sorte maligna a darle la maledizione di uccidere il prossimo, ma era lei stessa la causa, l’aveva a dir poco intimidita, poi essere allontanata dal primo luogo in cui le avevano assicurato che l’avrebbero aiutata, per essere condotta da una donna che mai abbandonava un’armatura bianca a forma di pesce, la rendeva ancora più titubante; ci vollero mesi perché quella fanciulla potesse ancora sorridere e rendersi conto del proprio potere e di come questo, prima o poi, avrebbe ucciso anche lei, se avesse deciso di controllarlo per non fare del male al prossimo.

Doveva isolarsi nella propria armatura per fare in modo che il venefico potere, così devastante da dover essere sempre tenuto sotto controllo, non uccidesse chiunque le stava intorno, questo le aveva spiegato Hina, poiché anche lei viveva la medesima sorte, o, ormai, l’aveva vissuta, uccisa alla fine dal troppo veleno.

La consapevolezza di dover restare sola, il dubbio di aver in qualche modo accelerato il destino dell’insegnante sferrando i Flutti Purpurei, per apprenderli al meglio, tutto questo aveva fatto crollare Tara in un pianto incontrollabile e l’aveva spinta a nascondersi, ma non bene come pensava.

Riconobbe subito la figura che aveva davanti: lo vedeva ogni volta che i due Areoi di Tarpon e Balistes si fermavano a chiacchierare fra loro, notava che i suoi sguardi e gli accenni di sorriso, ma poi si voltava, un po’ imbarazzata per qualcosa a cui non era abituata, tanto più che tutti la evitavano, sapendo del venefico potere di cui era padrona. Quella figura era Maru del Narvalo, allievo di Afa, lo Squalo Tigre.

"Mi dispiace per la saggia Hina.", disse semplicemente il guerriero, ricevendo uno stentato grazie da Tara che lo guardò con occhi rossi ed allo stesso tempo stupefatti, mentre le si sedeva accanto.

"Che cosa fai? Non temi il veleno del Diodon?", domandò lei, singhiozzante, nel fare una domanda che, spesso, s’era posta anche verso se stessa.

Maru aveva guardato verso il basso qualche istante, poi aveva alzato lo sguardo e la ragazza lo vide arrossire: "Vedi, io sono forte, certo, non come il maestro Afa, o come Toru, ma sono forte, però non sono molto bravo a parlare, me la cavo meglio nelle battaglie …", aveva iniziato, "ma ho pensato una cosa, per quanto non sia nemmeno un gran pensatore, cioè che vederti sempre triste e sola mi farebbe solo soffrire, quindi ho deciso di restarti sempre vicino ed usare tutta la mia forza per reggere agli effetti di questo veleno che sai sprigionare.", concluse con un sorriso accennato.

Ci fu qualche istante di silenzio poi fra i due, prima che Maru le poggiasse una mano sulla spalliera destra, un contatto come mai ne aveva avuti da quasi dieci anni, un contatto che lei quasi stava per evitare, finché non vide gli occhi di lui, sicuri e per nulla intimoriti, occhi pieni di qualcosa di diverso dalla compassione, occhi che la fecero sorridere e portare a ricambiare quel primo contatto.

Con il tempo, quel piccolo gesto crebbe e crebbe anche il sentimento fra loro due.

E proprio per quel sentimento, proprio per ritornare dall’unica persona che l’aveva salvata dalla sua solitudine, Tara aveva scatenato i Flutti Purpurei contro Akuj della Licenide e ben presto anche la guerriera africana si avvide della potenza di quella nebbia violacea, una nebbia che sciolse nell’aria le Farfalle di morte, disperdendole nel nulla e che si gettò su di lei, senza intaccare in alcun modo le vestigia nere, ma lasciandola barcollare indietro, per poi cadere su quel ponte, in preda alle convulsioni.

L’Areoi le si avvicinò silenziosa: sapeva che la sua agonia non sarebbe durata a lungo, solo questo poteva concederle, un dolore intenso ma breve, che l’avrebbe uccisa in pochi battiti di cuore, che avrebbero disperso velocemente il veleno, accelerando.

"Addio, invasore. Non hai potuto aiutare la maestra che tanto lodavi, ma non per il poco potere del tuo veleno, bensì per il troppo potere del mio.", concluse la guerriera del Diodon, mentre gli occhi di Akuj si spegnevano e solo una lacrima aveva il tempo di scivolare dagli stessi sulla maschera intatta, come d’altronde lo era il resto dell’armatura a seguito di uno scontro basato sul saper usare venefici attacchi, più che violenti colpi.

Tara si voltò per raccogliere la propria spalliera, ma non ebbe nemmeno il tempo di indossarla che qualcosa la colpì alla zona di pelle scoperta, un dardo d’energia che ne trapassò le carni, facendola roteare più volte su se stessa, prima di prendere il corrimano nella stretta delle dita e guardare con occhi sofferenti verso lo specchio d’acqua alla base della cascata, dove incrociò uno sguardo, quello di Atanea di Mola Mola.

Era però uno sguardo spento quello che si scambiarono, lo sguardo che solo un morto può offrire: della sua compagnia, infatti, solo il cadavere restava, ma non era sola in quello specchio d’acqua, come subito notò anche l’Areoi, quando una seconda sagoma in bianco apparve ed un nuovo dardo colpì, con indicibile precisione, il punto già ferito in precedenza, spingendola a cadere di schiena sul ponte.

Non il nome del traditore disse, mentre perdeva i sensi a causa della fuoriuscita di sangue, bensì un nome per lei molto più importante: "Maru."