Capitolo 21 – Intermezzo 2

L’Avaiki di Rongo, dio della Pace, sull’Isola di Pasqua era un luogo il cui libero accesso era limitato a pochi uomini, coloro che non portavano la violenza nei loro cuori.

Dalla sua fondazione, infatti, quello specifico tempio possedeva dei portoni in cui i diversi Areoi consacrati a Rongo lasciavano fluire i loro cosmi che, connessi a quelli della divinità che servivano, creava una gigantesca barriera protettiva contro ogni forma di violenza, incapace di essere oltrepassata.

Prima dell’arrivo della Quinta Armata, il giorno delle battaglie in Polinesia, celati dall’esplodere dello scontro finale ad Anduruna, tre figure incappucciate si erano portate dinanzi a quei portoni consacrati alla pace, tre figure i cui compagni si sarebbero mossi, di lì a poco, verso Cuzco ed il Jamir, tre figure che erano immobili.

La prima, più sulla sinistra, con un corpo massiccio e muscoloso, stava continuamente scatenando scariche elettriche contro quella parete, sorda alla violenza dell’ospite non invitato; la seconda, quella più sulla destra, invece, infieriva contro quelle mura con una scintillante e ben affilata lama orientale, cercando di rompere il sacro cosmo che difendeva quei luoghi, ma nessuno dei due sembrava avere successo; il terzo, infine, quello centrale, era rimasto più indietro, osservandoli in silenzio.

Fu proprio l’ultima figura a farsi avanti, quando gli altri due ripresero fiato, "Se avete finito di sfogare la vostra ira, confratelli, lasciate che sia io ad aprirci un varco in questo tempio.", suggerì l’uomo impassibile, ben celato nel suo mantello, "E come pensi di fare? Come credi di vincere lì dove i frutti del Mito non hanno avuto successo?", domandò colui che aveva scatenato una tempesta di fulmini su quell’uscio sacro.

"Questo luogo è consacrato alla pace e la violenza con cui cercate di valicarlo sarà per voi fautrice solo di inutili fatiche, lasciate che sia il mio leggiadro tocco, portatore di sollievo e riposo, ad aprirvi la strada perché possiate poi compiere un eccidio all’interno di questi luoghi, lasciando pochi sopravvissuti per i servitori del Signore della Guerra africana.", suggerì colui che parlava più pacatamente, allungando le mani verso le ampie porte e lasciando fluire dal proprio corpo un cosmo purpureo e silenzioso, mentre una nenia leggera nasceva dalle labbra ben celate, una nenia che, infine, spalancò le porte del tempio ai tre invasori e subito i due compagni che fino allora avevano fallito nell’entrarvi, furono nell’Avaiki, massacrando chi gli si trovava davanti.

"Ricordate, confratelli, fulminateli, decapitateli, uccideteli, ma non distruggeteli.", asserì il terzo, entrando per ultimo, "Sapete bene cosa di loro ci serve di più.", concluse, aprendo la mano verso due Areoi che gli si avvicinavano ed osservandoli cadere a terra, per un sonno che si sarebbe rivelato eterno, avvolti dal cosmo purpureo di lui.

Ben poco, per quanto Ntoro non lo rivelò al proprio Sovrano, lì la Quinta Armata ebbe da combattere.

***

Tutti e sette i cavalieri d’argento si portarono alle porte della città di Accad, assieme ad Ascanus di Scorpio ed al Re di quei luoghi, Marduk, e grande fu lo stupore sui volti di tutti quando le due sagome incappucciate si fermarono ad alcuni passi da loro, ed una delle due alzò un braccio, in segno di saluto, prima di rivelare il proprio volto, il volto di Abar di Perseo, che, come si scoprì pochi attimi dopo, era accompagnato dalla sua allieva, Serima della Lucertola.

Furono fatti entrare i due santi d’argento e fatti accomodare in una delle sale ancora integre presso il piano terra di Anduruna, il grande palazzo, tutti, cavalieri ed Ummanu, gli si sedettero intorno, desiderosi di notizie, esclusi i soli Aruru di Golem, ancora intento a riparare le armature, e Damocle della Croce del Sud, che rimase di guardia alle Mura della città.

"Cosa vi porta fin qui, cavaliere di Perseo? Preoccupazione per non averci visto tornare?", chiese curioso Wolfgang, "I miei fidi segugi stanno bene, oso sperare.", incalzò prontamente, memore dei due levrieri lasciati presso la casa di Abar una settimana addietro.

"Sì, cavaliere dei Cani Venatici, i tuoi fidi amici stanno più che bene, li ho nutriti in questi giorni e poi lasciati alle abili cure di un mio conoscente di fiducia, prima di partire, con la mia allieva, per una missione affidatami dal Sommo Sacerdote di Atene, tramite una nuova missiva.", spiegò il discepolo di Megatos del Toro.

"Sapevo che il Sommo Oracolo aveva inviato voi una missione, cavaliere di Perseo, ma non ne conosco i particolari, poiché, in quei giorni, ero troppo preoccupato, ed occupato, a scoprire cosa stesse succedendo nel mondo, su ordine dello stesso Primo Ministro della dea.", ricordò Ascanus, prendendo la parola.

"Lo stesso ordine fu dato anche a me, nobile cavaliere: mi fu detto di cercare nuove informazioni presso le terre d’Africa e del vicino Oriente su questo nero esercito che, tutti ormai, siamo abbastanza sicuri sia legato a questi Ladri di Divinità.", confermò Abar, "E notizie ho trovato, a cui si sono unite quelle scoperte da Amara del Triangolo e Iulia dell’Altare nelle loro ricerche, ora posso dire di avere un quadro quasi completo sui fatti di questi ultimi anni.", continuò, lasciando stupiti molti, fra cui lo stesso Marduk.

"Te ne prego, dunque, straniero, rivela anche a me, che non del vostro ordine guerriero faccio parte, cosa sono questi Ladri di Divinità, che, attraverso la persona di Baal, hanno derubato la mia gente dell’amicizia fra i suoi guerrieri, dell’ordine degli Ummanu nella sua quasi interezza e, soprattutto, del divino Shamash.", invocò lesto il Re di Smeraldo.

Il cavaliere di Perseo fece un cenno d’assenso con il capo, prima di continuare: "Come probabilmente alcuni di voi sapranno, il primo contatto che uno dei cavalieri ebbe con questi misteriosi nemici, fu in Cina, dove per caso il Vecchio Maestro incontrò uno di loro, probabilmente lo stesso che, poco meno di un anno dopo, uccise Lei-Ho, discepolo dell’anziano di Goro-Ho e aspirante alle vestigia del Serpentario.", raccontò, mentre una nota di tristezza si dipingeva sul volto di Zong Wu che non aveva mai conosciuto il precedente allievo del suo insegnante, ma ben sapeva come l’anziano Dauko avesse posto una candela per ogni discepolo che, nei secoli, era morto, ma quella di Lei-Ho era una candela particolare, poiché questi era stato l’unico, in più di cento anni, a cadere per mano nemica, dopo un lungo periodo di pace.

Spesso il cavaliere dell’Auriga si chiedeva quanto potesse essere triste la vita del suo insegnante, una vita di solitudine, interrotta da allievi che, negli anni, erano passati sotto la sua guida, per poi abbandonare la vita, per le intemperie del tempo: non osa immaginare cosa costringesse il saggio anziano a soffrire tutte queste privazioni ed abbandoni.

"Dopo quel singolo fatto, due cavalieri furono mandati a cercare risposte per il mondo e furono trovati diversi luoghi che segnavano il passaggio di questi Ladri di Divinità, luoghi in cui loro avevano agito ben prima di quella apparizione in Cina, fra cui la Mongolia e l’Etruria, luoghi distribuiti per tutto il mondo, dall’Asia all’America, dall’Europa all’Africa, ma solo in due posti sono state trovati chiari segni del loro passaggio.

Il primo è stato individuato poco meno di una settimana fa, quando ormai voi eravate già partiti verso questa città nascosta, nelle terre dell’Africa meridionale, una caverna che sembrava fare parte del Mito di un mostro di nome Ga-Gorib, il secondo luogo, invece, fu da me trovato due giorni orsono, non molto lontano da qui, un luogo che, probabilmente ha dei legami con voi Ummanu.", spiegò ancora Abar, prima d’interrompersi.

"Che intende dire?", domandò ancora una volta il Re degli Anunnaki, "Ho compiuto delle ricerche e ho trovato un luogo nei pressi delle antiche terre degli israeliti, una torre dispersa nelle vastità del deserto, un luogo che i più degli uomini non avrebbero di certo individuato, un luogo che credo sia l’antica Torre di Babele.

Secondo i testi sacri delle religioni monoteistiche, in quel luogo gli uomini cercano di raggiungere l’Unica divinità e da questa furono puniti con la nascita delle diverse lingue e con la diaspora di questi uomini che a tanto avevano attentato.", iniziò a spiegare il maestro di Serima, che, intanto, restava in silenzio ad ascoltare i fatti esposti, fatti che lei ben conosceva.

"Ricordo quella storia.", interruppe in quel momento Dorida che, nella sua infanzia in Spagna, aveva ricevuto una, seppur breve, educazione cristiana, "Cosa può, però, avere a che fare con questi nemici del Santuario?", domandò ancora la spagnola.

"Rifletti, allieva di Bao Xe, cosa cercano di fare i nemici che avete incontrato? Rubare il ruolo delle divinità, derubarli del loro cosmo e prendere per se stessi quel potere ancestrale, forse quella Torre era la base di un gruppo di individui che li precedette in questo blasfemo piano e che furono vinti dall’Unica Divinità e puniti per le loro azioni.

Al di là di ciò, però, fra i resti di quella costruzione ho trovato incisa una scritta, che, da ciò che mi è stato riferito, coincideva in parte con quello che Amara e gli altri hanno trovato nella grotta dell’Africa Meridionale, una scritta che parlava di un’alleanza fra tre uomini, fra cui uno che fu definito il Coccodrillo Sovrano di Accad.", rispose Abar, sbalordendo Ninkarakk e Marduk più di tutti.

"Tiamat! Era dunque anche lui alleato di questi Ladri di Divinità?", domandò l’Ummanu di Khuluppu, "Ma come è possibile? Ho memoria dei suoi poteri e non erano minimamente paragonabili a quelli di Baal. Io, da fanciullo, riuscii a vincerlo, mentre ora non ho avuto possibilità alcuna contro il Traditore degli Appalaku.", sottolineò sorpreso l’ultimo dei Re di Anduruna.

"Questo non saprei spiegarvelo, sovrano di queste terre, ma, ipotizzo, che questi Ladri di Divinità si siano prima alleati con questo Tiamat e solo dopo, alla sua sconfitta, abbiano puntato le loro aspettative sul vero Re dell’esercito d’Africa, che, una volta ricostruite le proprie truppe, ha iniziato una lunga campagna di conquiste.", suppose il santo di Perseo.

"E durante questa lunga serie di battaglie, cercando le vestigia degli Appalaku, hanno trovato un uomo avido di potere come Baal, scegliendo di farlo unire a loro.", continuò Leif con tono calmo.

Sorpresa, a quelle parole, si dipinse sul volto del discepolo di Megatos, "Cercavano delle vestigia? Che intendi dire, cavaliere?", chiese lesto, ricevendo in risposta il resoconto della storia che l’autoproclamato Sole di Accad gli aveva esposto sul suo incontro con l’Esercito Nero ed il loro Sovrano.

"Questo dà ancora più forza ad un’altra mia teoria…", sussurrò fra se, quasi, Abar, "Quali teorie, discepolo del Toro? Cosa conforme ai tuoi pensieri?", incalzò curioso Ascanus, ricevendo un cenno di assenso, dopo alcuni secondi di silenzio, da parte dell’interlocutore.

"Dovete sapere che, in ogni resoconto, sia quelli relativi alle apparizioni dell’Esercito Nero, sia in tutte le più recenti, degli ultimi nove anni circa, apparizioni dei Ladri di Divinità, o presunti tali, oltre alla completa distruzione dei luoghi in cui si muovevano ed alla scomparsa dei cosmi divini lì presenti, c’era un’altra caratteristica comune: alcune loro vittime erano prive di vestigia, ma non si trattava di casi in cui le stesse erano state distrutte, no, gli erano state sottratte, rubate, seppur non se ne comprende il motivo. Forse, però, c’è un disegno anche dietro quello specifico gesto.", suppose il cavaliere di Perseo.

"Una notizia da riferire al Santuario di certo.", osservò il Custode dell’Ottava Casa, "Dovresti partire subito per Atene, Abar di Perseo, non vi è motivo per cui induca oltre in questi luoghi, non appena i cavalieri d’argento avranno le vestigia riparate ti raggiungeremo.", incalzò il santo d’oro.

"Non posso, nobile Ascanus: parte dei miei ordini era, dopo le ricerche, di riunirmi a voi, tanto più che il grosso dei restanti santi miei pari per grado sono partiti, come ho scoperto stamane, per la Polinesia, a fronteggiare l’Esercito Nero in uno scontro diretto.", concluse l’altro, sbalordendo alcuni dei presenti.

"Dunque Ludwig è sceso in battaglia?", domandò preoccupato Wolfgang, "E Rudmil con lui?", aggiunse Leif, "E Gustave?", suppose timidamente Gwen del Corvo; "Sì, cavalieri, tutti loro ed anche gli altri nostri parigrado, solo il mio compagno d’addestramento, Degos di Orione è rimasto al Santuario, per dirigere i santi di Bronzo in caso d’emergenza.", rispose lesto Abar.

"Dobbiamo sbrigarci quindi a raggiungere Atene, prima, e questo campo di battaglia dopo.", sentenziò ansioso il santo dei Cani Venatici, volgendo, come i propri compagni negli scontri ad Anduruna, il volto verso i luoghi dove altri cosmi s’accendevano in dure lotte.

***

"Questo moccioso è veramente nemico da poco!", questo l’unico commento che la figura celata nel mantello rivolse al giovane Ilo dinanzi al palazzo del Jamir, lì dove, al suolo ferito, il secondo discepolo di Sion osservava la nemica che lo aveva al suolo costretto e le sue due compagne, l’una appoggiata alla massiccia spada europea, l’altra in silenzio avvolta dal mantello che impediva di distinguerne perfino il volto.

"Sei così debole che, prima del passare di un’ora, di te non resterà niente e, in ancor minor tempo, maledirai l’uomo per cui stai combattendo come affettuoso discepolo.", minacciò l’avversaria, ricevendo uno sguardo di sfida come risposta, uno sguardo che fu subito seguito dall’esplodere del cosmo del ragazzo che richiamò, da una delle finestre del palazzo, delle vestigia su di se, un’armatura della più bassa delle caste sacre ad Atena, un’armatura di bronzo.

"Coreana, dici che questa ci servirà?", domandò la donna che per prima aveva attaccato battaglia con Ilo, rivolgendosi a quella più silenziosa delle tre, "No, ne dubito, Inuit, piuttosto mi preme che ora tu ti muova, abbiamo trovato come entrare nel palazzo: da quella finestra.", concluse la seconda, sollevando un braccio dal candido colorito.

"Mai! Ilo dello Scultore non permetterà che voi varchiate quella soglia sacra!", urlò il giovane discepolo lasciando esplodere il proprio cosmo e scatenando un fascio d’energia contro quel bianco arto, che, però, fu presto circondato da un alone nero e gelido, profondo come un abisso senza fine, in cui l’attacco del santo di Bronzo si perse.

"Lo finirai tu, dunque, o vuoi che sia io ad occuparmene?", domandò infastidita la guerriera che si era appena difesa, "No, me ne occuperò io, non avere timore di questo, ma temo che non mi sia concesso molto tempo per divertirmi, se ciò che cerchiamo lì si trova ed il Rito in Polinesia sarà presto concluso.", suppose la prima avversaria, rivelando un cosmo impetuoso come le onde del mare in tempesta, un cosmo che increspò persino il mantello sulla schiena di lei, rivelando delle mani dalle dita deformate da lunghe cicatrici.

"La morte giungerà in meno di un’ora per te, piccolo.", furono le uniche parole che la terza, che portava con se lo spadone, disse, osservando la compagnia andare all’attacco.

***

Si era rialzato dalle macerie, unico fra i due contendenti, non sapeva per quanto tempo fosse rimasto svenuto, ma, stavolta, non aveva avuto bisogno dell’aiuto del proprio compagno di addestramenti per rimettersi in piedi: da solo Vincent di Scutum si era rialzato e questa, per lui, era già una vittoria.

Il corpo senza vita di Buadza, il Bufalo Nero della Quarta Armata, era stato schiacciato dalle rocce, che ne avevano strappato via la vita assieme al capo, divelto dal collo, anche grazie alla potenza del suo stesso attacco, al contrario, l’armatura d’argento aveva saputo fare da buona difesa al giovane cavaliere, permettendogli di rialzarsi di nuovo e continuare la sua corsa.

Ed ora correva il giovane, o forse più correttamente zoppicava, per nulla sicuro sulla sopravvivenza dei propri compagni di cui non sapeva niente, ignaro sulle sorti del santo della Lira da cui si era diviso da molto, come lo era su quelle di tutti gli altri che da ben più tempo non vedeva, né sapeva delle molte battaglie da loro vissute fino ad allora; solo di una cosa il giovane olandese era certo, della sua meta, così verso quella si stava dirigendo, auspicando di poter ben presto incontrare di nuovo i parigrado e con loro concludere positivamente quella missione.

Correva, ignaro che, a seguito delle diverse frane causate dal suo scontro con Buadza, ormai non si trovava più nel quarto corridoio, ma bensì nel terzo.

Aveva seguito l’ordine di Amara, lo aveva lasciato andare verso il nemico che aveva percepito da solo, ma non per questo Iulia era particolarmente sicura sulle sorti del più potente fra loro, non per diffidenza verso di lui, o verso le storie che lo volevano quasi pari ad un cavaliere d’oro, bensì perché incerta sulle vere abilità di questi nemici neri: in fondo, la sua nemica, Chikara dell’Istrice, le aveva accennato di guerrieri che la superavano per abilità persino fra le semplici schiere, il che implicava una particolare superiorità dei loro Cinque Generali e, ancor di più, del Re che tutto quel gruppo di africani serviva.

A questi dubbi si aggiungeva, da alcuni minuti, un più pesante timore, qualcosa di silenzioso, che le scorreva lungo la schiena, qualcosa di legato a luoghi lontani e, le uniche persone di cui si sarebbe potuta preoccupare erano, in effetti, ben distanti da quel tempio subacqueo: il suo maestro, Sion Sommo Sacerdote di Atena, che ancora si trovava al Santuario, ed il giovane Ilo, che, in fondo, le era simpatico e per nulla ne era gelosa delle maggiori cure che il comune insegnante gli rivolgeva, addestrandolo nell’arte di riparare armature. Iulia ben sapeva che lei non sarebbe dovuta diventare custode dei misteri del popolo di Mu, sapeva che quel destino spettava ad Ilo ed altre genti di quel popolo ormai disperso, così come era spettato al loro maestro ed al maestro di questi, Hakurei, prima di lui, ed a ritroso fino al primo uomo che aveva fabbricato le sacre vestigia per i seguaci della divina Atena.

Proprio per questo affetto verso quel giovane e ben più cheto discepolo del loro comune maestro la faceva, ora, preoccupare, per quanto il Jamir le sembrasse un luogo fin troppo celato al mondo per essere soggetto ad attacchi di chissà quale nemico.

Questi i suoi pensieri mentre correva lungo il terzo corridoio.

"Vuoi forse morire assiderato? Alzati!", questa la voce che risuonò nella sua mente, un memento degli anni d’addestramento in Siberia, un monito di Leif, che spesso si rivolgeva lui con ben poca cordialità, ma, non per questo, aveva evitato di aiutarlo a migliorarsi durante gli anni di addestramento.

Questa la voce che fece ridestare Rudmil della Corona Boreale, che, aperti gli occhi, si tastò il corpo ferito, guardandosi poi intorno e vedendo, fra i ghiacci nati sullo specchio d’acqua, il cadavere del traditore Areoi che aveva affrontato.

Accennò un sorriso dinanzi alla sua fortuna, l’unica cosa che gli aveva permesso di sopravvivere, probabilmente, per quanto non sarebbe stato orgoglioso, forse, di ammetterlo.

Cercò di alzarsi, a quel punto, il cavaliere, avvertendo però una fitta alla zona ferita durante l’ultimo attacco, più intensa delle altre e guardò le sue gambe ferite, fin troppo per potergli permettere di correre, ma non abbastanza da farlo restare immobile, seduto ad attendere l’esito dello scontro.

Più e più volte il maestro Vladmir gli aveva ripetuto di rendersi distaccato, freddo, alle avversità del mondo, impassibile a ciò che succedeva, alienarsi dai sentimenti perché il suo cosmo diventasse, così, ancora più gelido e potente e, questa volta, il giovane cavaliere russo decise di dare ascolto, il più possibile, alle parole del suo insegnante, disinteressandosi del dolore e costringendosi ad avanzare, incerto, lungo il percorso che ora si trovava davanti, un percorso che non faceva più parte del secondo corridoio, bensì, del terzo.

Camminavano di nuovo assieme, l’una sostenuta dall’altro, correvano lungo il corridoio a cui avevano avuto accesso dopo aver superato il ponte sulla cascata e già si erano vicendevolmente informati sui fatti scoperti, sulla presenza di traditori nelle loro schiere, questa l’unica nota di tristezza che piegava il rincontro fra Tara del Diodon e Maru del Narvalo.

"I fratelli Aremata dei traditori… come è possibile?", si domandò la guerriera, "Non lo so, nemmeno ci crederei se non fosse che Rorua ha cercato di uccidermi e Popoa ha massacrato Atanea prima di cercare di fare altrettanto con te!", rispose dispiaciuto l’amato di lei.

"Dall’elezione di Toru ci sono stati dei dissapori, ma questa è follia! Un nuovo mondo, un Ordine diverso al comando degli Areoi, cancellare addirittura le divinità? Come? Perché?", domandò sconvolta Tara, volgendosi verso Maru, che, prontamente e gentilmente le poggiò le mani sulle spalle, avvicinandola a lei e lasciando che poggiasse sul suo petto il capo.

"Hanno ucciso Atanea, la comandante Tiotio, il tuo maestro Afa e chissà quanti altri! Perché adesso? Perché tutta questa violenza assieme contro la nostra casa?", si chiese la ragazza, mentre l’altro le accarezzava i capelli, per nulla intimorito dal venefico cosmo di lei, "Lo sai, non sono uno molto sveglio, quindi non capisco cosa possa averli spinti a fare tutto questo, ma ti assicuro che non permetteremo alla Lucertola Malefica ed a chiunque altro sia rimasto di questi traditori, di distruggere la nostra casa.", le disse Maru, attendendo che poi si calmasse ed accennando verso di lei un sorriso, per tranquillizzarla, prima di continuare assieme la loro corsa lungo il secondo corridoio.

Si fermarono d’improvviso i tre, "Che ti succede?", domandò preoccupata Cassandra di Canis Maior, "Niente, sorella, sono solo un po’ stanca…", la rassicurò Agesilea dell’Aquila, ricevendo, altresì, uno sguardo pacato di Juno di Cerbero: era evidente che la minore delle due avesse subito ferite più gravi di quanto non volesse dare a vedere, ma non per questo si stava rifiutando di continuare l’avanzata assieme a loro, né cercava di essere un peso lungo il percorso che li avrebbe condotti alla sala del Comandante dell’Avaiki.

Per un attimo, alla mente dell’allievo di Edward di Cefeo, tornò il ricordo di Nirra del Camaleonte e di come, prima fra loro ad essere ferita nello scontro con la Salamandra Nera, anni prima, non avesse in alcun modo voluto far pesare la propria situazione, per quanto il loro maestro capì subito i limiti dei propri discepoli e, forse, quel motivo lo spinse all’azione che aveva compiuto: sacrificarsi per salvarli tutti.
Questo, però, non scioglieva un dubbio sulla vera forza dei nemici che si trovavano davanti e su come, effettivamente, potessero essere avvenuti i fatti allora in quel villaggio africano.

I dubbi di Juno furono però accantonati quando sentì una voce chiamarlo, quella di Agesilea: "Cavaliere!", urlò, per attirarne l’attenzione, "Dove si trova il santo della Corona Boreale? Se ben ricordo era in coppia con te al momento della nostra divisione in più gruppi.", ricordò la sacerdotessa guerriero.

"Siamo stati divisi.", ammise con rammarico il giovane santo di Cerbero, "Non so dove si trovi, ma spero che se ciò che m’intrappolava in un’illusione si è sciolto, lo stesso sia successo anche a lui.", auspicò, prima di concludere: "Mi auguro di trovarlo durante il nostro avanzare."

"Credi che anche lui sia, come te, giunto nel corridoio in cui io e mia sorella correvamo?", domandò sorpresa la minore delle due, "No, in vero noi siamo cadute dalla parte opposta del muro che divideva il nostro percorso da quello in cui loro erano impiegati a muoversi.", la corresse Cassandra, riprendendo ad avanzare.

Solo a quelle parole, Agesilea si rese conto di non essere più nel primo corridoio, bensì nel secondo.

Un tonfo sordo accompagnò il cadere al suolo di due soldati formica, fatti a pezzi da delle piume color smeraldo, prima che altri cinque loro simili fossero fulminati e lanciati a diversi metri di distanza senza vita, ultimi membri della classe più infima dell’esercito invasore.

"Spiegami di nuovo, com’è costituito questo vostro Avaiki?", domandò, dopo quel breve scontro, la voce della guerriera all’individuo con cui stava avanzando, "Sei corridoi che si aprono dall’unico ingresso superficiale, oltre a decine di specchi d’acqua lungo gli stessi, tutti vanno ad unirsi in tre vie maestre verso la sala del nostro comandante.", rispose l’altro.

"Questo se non si conta l’apertura sulla sommità, la stessa da cui sono entrata, giusto, Torpedine?", continuò Laka di Poukai, fermandosi d’improvviso: "Se, quindi, il nemico si trova nella sala principale, noi ci stiamo dirigendo ad affrontarlo, in due?", domandò perplessa l’Areoi che proveniva dal tempio di Ira.

"No, sarebbe una follia, nessun essere vivente, neppure il più forte dei pesci, si getterebbe contro un agglomerato di altri predatori se ferito, o insicuro su cosa la aspetta.", rispose inizialmente Tawhiri della Torpedine, "Per ora ho intenzione di cercare altri membri di questo Avaiki, nella speranza di organizzare al meglio un assalto contro i possibili nemici che troveremo. Per questo stiamo dirigendoci più in profondità nel secondo corridoio.", spiegò pacatamente, riprendendo a camminare con, in mente, ancora ciò che aveva visto ed affrontato nell’Avaiki consacrato a Lono, dio dell’Agricoltura.

Correvano assieme, Toru, lo Squalo Bianco, apriva la fila, impavido, per nulla intimorito dalla possibilità di trovarsi dinanzi uno qualsiasi dei guerrieri neri, e Kohu dell’Istioforo assieme a Ludwig del Centauro gli stavano dietro; il primo abbagliato per la grandiosità del suo comandante, il più potente dei predatori marini e, a dire del giovane, il più potente degli Areoi, il secondo, invece, avanzava più titubante, guardandosi sempre attorno.

Troppe esplosioni, troppi cosmi intenti in battaglie, li aveva avvertiti, per quanto non così perfettamente, ne aveva avuto una qualche percezione, forse dettate più dalla sua natura di cacciatore, che non da altro, ma gli sembrava decisamente strano che non vi fosse nessun nemico sul loro cammino, il che implicava che, o l’esercito nero si era rintanato da qualche parte, attendendoli e stava preparando una bella trappola, come si fa con prede che ti superano in numero, oppure quei guerrieri africani erano stati sconfitti per la maggior parte, il che implicava la stessa conseguenza: i pochi rimasti si sarebbero chiusi sui difensori di quello stesso Avaiki, tutti, verosimilmente, diretti allo stesso punto.

Le riflessioni del santo d’argento furono però interrotte da una voce: "Comandante!", un singolo urlo che provenne da una sala laterale da cui apparve un altro Areoi.

Era un uomo slanciato, decisamente alto ed indossava vestigia che ricalcavano quello che a Ludwig parve quasi un serpente più che un animale acquatico, tanto che delle squame parevano costituirne l’ampio pettorale e le semplici spalliere, così come le coperture per cinta, gambe e braccia, seppur queste ultime erano di un colore più opaco del resto; infine, un elmo dalla testa di serpente ne celava in parte il volto, permettendo di vedere giusto gli occhi grigi ed i capelli azzurri e sottili.

Subito, non appena lo vide, Kohu accennò una riverenza, mentre il santo d’argento, semplicemente si faceva indietro, ed il nuovo giunto accennava un inchino verso Toru, "Tuna dell’Anguilla!", esclamò lieto l’altro, riconoscendo l’uomo che lo aveva avvisato dell’assalto, uno dei quattro nuotatori che aveva mandato agli altri Avaiki.

Si avvicinarono i due Areoi, scambiandosi una stretta di mano, prima che lo Squalo Bianco continuasse a parlare: "Dove sono Tartaruga Marina, Torpedine e Barracuda?", domandò, "Non lo so, invero, ma temo che forse non abbiano avuto la mia stessa fortuna, di arrivare all’Avaiki che dovevano raggiungere dopo che la strage era stata compiuta. Più niente, io ho trovato, del tempio consacrato al divino Rongo, non oso immaginare cosa i miei compagni abbiano scoperto nei loro viaggi.", rispose semplicemente il guerriero dell’Anguilla.

"Fortuna?", ripeté perplesso Ludwig, ricevendo uno sguardo di disappunto dall’altro, "Comandante, chi è costui?", chiese Tuna, senza curarsi del tedesco, "Un guerriero di una divinità europea, un nemico di questi invasori, giunto inaspettatamente, e senza che gli fosse chiesto, ad aiutarci assieme ai suoi compagni. I nemici dei nostri nemici sono per noi un utile supporto.", rispose, tagliando corto, lo Squalo Bianco, facendo poi cenno ai tre di seguirlo, per poi riprendere la sua corsa lungo il quinto corridoio.

Era al quanto infastidito, Gustave della Lira: non solo era stato costretto ad abbandonare il castello del suo maestro nella bella Francia, ma dopo essere partito con otto parigrado, o presunti tali, data la presenza di ben tre femmine fra loro, adesso si trovava solo in giro per quel posto orrido e spoglio che era il tempio subacqueo in cui aveva vinto lo scontro con quella femmina africana ed aveva poi visto una battaglia in cui un guerriero bianco ne aveva ucciso un’altra.

Sulle prime, l’idea di seguire quei tre traditori del loro stesso esercito gli era sembrata la migliore, e su questo non ne dubitava il musico francese, ma due di loro avevano pensato bene di spostarsi, gettandosi in altre pozzanghere d’acqua, come lui le definiva, lungo il corridoio dove stavano avanzando, poi, il terzo fece altrettanto e Gustave non poteva certo seguirlo in acqua, non avrebbe mai bagnato le proprie vestigia, o il suo stesso corpo, pensò quindi di salire su uno dei muri che dividevano quei corridoi e correre sullo stesso.

Da lì il cavaliere d’argento vide il proseguire di diversi scontri: esplosioni d’energia, colonne di luce e fuoco, individui che, avvolti in cosmi forse a loro nemici, spiccavano il volo verso il cielo al di fuori di quel tempio, ma, più di tutto ciò, di cui ben poco gli interessava, Gustave vide una sagoma bianca simile a quella del terzo traditore uscire dall’acqua ed allora decise di seguirlo ancora, chissà che non avesse anche il modo di aiutare qualcuno dei propri compagni, se tanto stupido da farsi ingannare da quello stesso indigeno.

Si sarebbe divertito non poco, in quel caso, a sottolineare la propria ragione in tal senso.

***

Le porte si spalancarono, ma solo una delle due persone che si trovavano in quella sala si volse a guardare chi era entrato, notando le cinque sagome in nero.

Si allontanò questi dal trono dove l’uomo dalle bianche vestigia rimase immobile, preoccupandosi del proseguire del rito che lì avevano iniziato, giungendo a pochi passi dalle cinque figure appena giunte e con impassibile calma sollevò il proprio braccio destro, indicando con l’indice il terreno, "Mostratemi la vostra fedeltà.", ordinò secco, scuotendo i lunghi capelli color del fuoco e subito i cinque, all’unisono, s’inginocchiarono sulla gamba sinistra, portando il capo verso il suolo ed il pugno destro ne toccava la fronte.

Attese alcuni secondi l’uomo, prima di continuare: "Cosa vi porta qui, miei Cinque Generali d’armata?", chiese il Re Leone, senza dar loro un cenno alcuno perché s’alzassero, "Mio signore…", iniziò a quel punto Moyna, subito interrotto da un cenno della mano del suo stesso Sovrano, che andò ad avvicinarsi a Mawu del Mamba Nero.

Che inaspettata gentilezza, il comandante di quel vasto esercito le accarezzò una ciocca di capelli, "Dimmi, Primo Generale, cosa succede?", domandò di nuovo, impassibile, malgrado nella voce sembrasse quasi che quella delicatezza fosse pronta a diventare ferocia incontrollabile.

"Mio Sovrano, l’esercito d’Africa è ormai distrutto, solo un membro resta per onorarti, ma niente di più che noi e questo singolo soldato, è in piedi ormai.", rispose, senza timore, ma piuttosto con evidente vergogna, la Comandante della Prima armata.

"Alzati, Primo Artiglio.", furono le parole che il Re disse alla sua seguace, "Sono certo di quanto sanguini il tuo cuore per la perdita di Chikara ed Akuj, ultime rimaste della valorosa armata che per prima mi ha aperto la strada in molti territori nemici e so che saprai rendermi onore più di tutti loro assieme.", continuò, concludendo anche quella carezza, poiché, per tutto quel tempo, la mano aveva indugiato su una ciocca di capelli della guerriera con un solo occhio.

Il Sovrano si volse quindi verso gli altri quattro ancora al suolo, "Quale è lo stato della battaglia, Comandante della Quinta Armata?", domandò a Ntoro, senza rivolgergli lo sguardo, "Dei soldati formica non vi è più traccia, fatti a pezzi come niente fosse, fino all’ultimo piccolo plotone, pochi istanti fa.

Dei quattro membri delle mie schiere, per ultimo è caduto, poc’anzi, Anansi della Giraffa e prima di lui Deng dell’Orice, ultimo membro della Quarta Armata e prima ancora Akongo della Zebra, che della Seconda era l’unico rimasto e lo stesso per Akuj, ancor prima. Solo Nyame, allievo e secondo in comando della Terza Armata è ancora in vita e pronto, da ciò che avverto, a dar battaglia ad un avversario che ha individuato.

Fine non dissimile, in più, è toccata ad almeno due dei servitori del vostro ospite, mio Sire, che cercavano di uccidere i loro passati compagni.", volle aggiungere il Generale d’armata alla fine.

"Non di quello mi preoccupo, poiché non di mio interesse la sorte dei soldati dei miei alleati è, ma di ciò che è accaduto alle nostre schiere.

Tutti i membri dell’Esercito Nero, quindi, sono ormai ospiti del Guscio Infinito? Nyame escluso, s’intende.", ribatté il Sovrano, "No, in vero, Shango, della Seconda Armata, è perso nell’alto delle stelle, avvolto dal cosmo del proprio nemico, probabilmente vaga senza vita nello spazio infinito con lui, o almeno con uno degli avversari affrontati.

"Capisco. Alzati, Quinto Artiglio.", sentenziò semplicemente il Leone Nero, prima di volgersi verso il proprio allievo.

"Cosa hai da dire, Gu? Quanto pensi possa avere successo Nyame rispetto al resto del nostro esercito?", chiese semplicemente il Sovrano, "Mio maestro e signore, non per peccare di vanagloria, ma colui che è ancora vivo, fra i vostri seguaci è il mio miglior discepolo, che da me ha appreso quasi quanto io ho potuto da voi apprendere; non di lui mi fido come di me stesso, ma sono più sicuro di lui che di tutti gli altri membri della mia ormai distrutta Armata: sarà lesto nel cacciare ed uccidere le proprie prede, in questo modo vi onorerà ed io con lui.", spiegò il Generale d’armata.

"Bene, allora spero che tu abbia ragione, poiché altrimenti dovrai onorarmi in nome di tutto il tuo plotone due volte, per te e per il discepolo che potrebbe morirti in battaglia. Ora alzati, mio Terzo Artiglio.", gli ordinò il Re, prima di volgere verso i due che ancora aspettavano inginocchiati.

"Hai qualcosa da dirmi, Mietitore?", chiese con disinteresse ad Acoran, "Semplicemente aspetto di ricevere il vostro ordine, maestà, per scendere in campo ed uccidere chiunque di questi nemici mi si pari davanti: che io possa divertirmi con chi tanti vostri soldati ha ucciso, riuscendo dove nessuno prima sembrava essere stato capace.", rispose laconico l’altro.

"Ben presto arriverà l’ordine che attendi.", lo rassicurò, divertito, il Sovrano, "Alzati, Quarto Artiglio.", ordinò infine, prima di volgersi verso Moyna.

"Parla ora.", furono le uniche parole che il Re rivolse all’ultimo generale ancora inginocchiato.

"L’esercito d’Africa, che in voi, maestà, aveva la propria guida e vi donava la sua più cieca fede, è ormai distrutto.

I soldati che guidavo, sono morti, uno dopo l’altro, per ultimi Shango ed Akongo, che ho cresciuto come figli, che ritenevo dei figli in tutto, tranne che per discendenza di sangue.

Non chiedo voi di avere, ora, conferma alle parole che per lungo tempo ho proferito.", esordì, lasciando sbalorditi i parigrado che non credevano alla follia di quel Generale, nel sottolineare gli errori del loro Sovrano.

"Non chiedo niente di tutto ciò, se ve ne sarà modo, lo farò in seguito, se me lo concederete. Ora reclamo solo il diritto a farmi vendetta per i figli persi: che io possa incontrare per primo i fautori della caduta dei miei due seguaci, che, a detta di Ntoro, si trovano lungo la medesima strada e ben presto s’incroceranno. Permettetemi di combatterli per primo.", supplicò semplicemente il Savanas dell’Aquila Urlante.

Rimase in silenzio a quelle parole il Re Nero, osservandolo in ginocchio e guardando gli altri quattro in piedi.

"Gu, Acoran, Ntoro, voi vi disporrete sulle tre strade che qui conducono, da quanto ho potuto sapere, sono gli incroci delle sei vie che contraddistinguono questo tempio sommerso. Chiuderete la via a chiunque riesca fin qui a giungere e lo spazzerete via.", ordinò ai tre, che con un cenno del capo confermarono d’aver capito.

"Mia prima e più fedele seguace, a te spetterà difendere queste porte. Sarai l’ultima guardia al rituale, la più invalicabile di tutte; ti sarà concessa poca gloria forse, ma, se tutto andrà come deve, sarà l’ultima battaglia che ci aspetta.", sentenziò rivolto a Mawu, che inchinò il capo a quelle semplici parole.

"Moyna della Seconda Armata, a te concedo d’andare avanti ed abbattere per primo i nostri nemici. Prendi la tua vendetta, assapora il sangue avverso e trova anche della gloria in ciò che fai. Alzati, Secondo Artiglio.", ordinò infine il Re.

"Adesso andate, miei Generali e dimostrate al nemico quale follia sia stata attaccar battaglia con l’Esercito Nero e con i suoi comandanti, quale follia sfidare me, Ogum il Leone Nero, Sovrano d’Africa!", esclamò, congedando i propri fidati Artigli.