Capitolo 7: Emozioni contrastanti

Non seppe quanto era rimasto privo di sensi, il suo primo ricordo fu una voce che lo richiamava alla vita, "Areoi, svegliati!", urlava qualcuno di conosciuto.

Per un attimo, Kohu pensò a Kaede, o ad Aitu, ma nessuno dei due lo avrebbe chiamato "Areoi", lo avrebbero chiamato per nome, o magari non avrebbero detto niente, semplicemente lo avrebbero scosso con più irruenza, mentre quella voce non lo faceva.

Quando aprì gli occhi, il guerriero dell’Istioforo vide dinanzi a se l’uomo con cui aveva combattuto fino a poco prima, lo straniero di nome Ludwig, circondato da tutti i suoi compagni; la sua prima reazione fu di distanziarsi di qualche passo, ma l’altro sollevò le mani, ad indicare che non aveva intenzione di combattere e fu allora che tutto gli tornò alla mente: l’invasione dell’esercito nero, la morte dei due amici d’infanzia, la battaglia con lo straniero e poi con l’Elefante ed il Rinoceronte d’Africa, in cui quello stesso avversario si era rivelato il suo unico alleato.

"Spero che tu abbia capito che non abbiamo intenzione di attaccare voi difensori di questo tempio, ma siamo qui per fermare chi lo ha invaso.", spiegò con tono pacato la voce dell’uomo che non muoveva le labbra.

"Avaiki…", disse con tono pacato il giovane guerriero polinesiano, "Che cosa?", chiese una delle guerriere con la maschera, la stessa che lui aveva assalito nella Brina Oceanica, quella di nome Agesilea.

"Avaiki, i templi sotterranei delle nostre divinità si chiamano così. L’Avaiki è, nella nostra cultura, la terra degli spiriti e questi luoghi, dove si onorano le divinità e dove risiedono i loro guerrieri, dai comuni mortali ritenuti quasi degli spiriti, per le armature bianche che indossiamo, hanno preso tale nome.", spiegò Kohu, memore delle lezioni apprese poco tempo prima, quando era stato investito Areoi dell’Istioforo.

"Ci sono cinque Avaiki in queste terre, ognuno dedicato ad una diversa divinità: il tempio di Ira, dea del Cielo; il santuario di Lono, divinità del canto e dell’agricoltura; l’avaiki del divino Pili, il Geco che custodisce coloro che hanno ormai abbandonato la vita mortale e quello di Rongo, signore della Pioggia e della Pace.", enumerò il giovane, "Oltre, naturalmente, all’Avaiki in cui vi trovate, quello dell’onnipotente Ukupanipo, lo squalo sovrano di tutti i pesci.", concluse.

"E dimmi, guerriero dell’Istioforo, come si districa l’intricato labirinto di vie di questo santuario?", chiese la voce di Amara, mentre questi era voltato verso l’immensità di cunicoli che si aprivano al di sotto di loro.

Kohu fu aiutato ad alzarsi da Ludwig, quindi, avvicinatosi al santo d’argento del Triangolo, indicò i diversi percorsi ed iniziò a parlare: "Questo tempio è costituito da sei percorsi che si sviluppano al pari delle striature di una conchiglia, o almeno così mi dissero una volta, sull’immagine a cui s’ispirava la struttura del tempio.

Vi sono diversi ingressi subacquei, attraversi cunicoli che dalle profondità dell’oceano si aprono, salendo fino a diventare dei laghi all’interno delle diverse strade di questo Avaiki, inoltre vi è un ingresso dall’alto, un’apertura da cui filtra la luce in tutto questo vasto mondo sotterraneo.", spiegò l’Areoi.

"Quale sarebbe il luogo più adatto per restare indisturbati nel vostro Avaiki?", chiese allora Amara, "Di certo le sale del nostro comandante, Toru dello Squalo Bianco.", rispose sicuro l’altro, "Si trovano all’estremità opposta del Santuario.", aggiunse dopo qualche attimo, indicando un luogo in profondità.

"Cavalieri, lì ci incontreremo.", esordì allora Amara.

"Incontreremo?", ripeté stupito Juno di Cerbero, "Sì, esatto.", confermò il santo del Triangolo, prima di continuare a spiegare con la propria emanazione cosmica: "Insieme siamo un bersaglio facile da bloccare, un gruppo troppo numeroso per passare inosservati, inoltre, se trovassimo un nemico saremmo tutti rallentati, proprio com’è capitato poc’anzi. Divisi, al contrario, potremo sperare che qualcuno di noi arrivi alla meta finale."

"E come ci divideremo?", domandò allora Cassandra di Canis Maior, "In cinque coppie, se l’Areoi vorrà unirsi a noi. Ognuna percorrerà una strada diversa, nella speranza che ci si possa rivedere tutti alla meta ultima.", rispose subito Amara.

Non vi furono obbiezioni, solo un leggero silenzio per qualche attimo fra tutti i cavalieri presenti.

"Sia. Io e mia sorella prenderemo il primo percorso da sinistra.", continuò proprio la sacerdotessa del Cane maggiore, ricevendo un segno d’assenso da parte del santo del Triangolo.

"Se il cavaliere di Cerbero vorrà, io e lui prenderemo il percorso subito adiacente.", suggerì Rudmil della Corona Boreale, chiedendo ad uno dei pochi santi lì presenti con cui aveva avuto modo di interagire in quei giorni.

"Va bene.", confermò dopo qualche istante l’allievo di Edward di Cefeo.

"Perfetto. Io e la sacerdotessa d’argento dell’Altare prenderemo il terzo cunicolo da sinistra dunque.", continuò Amara stesso, trovando Iulia concorde con le sue parole.

"Il cavaliere del Centauro ed io potremmo andare nel quarto percorso da sinistra allora?", domandò a quel punto Vincent di Scutum, rivolgendosi a Ludwig; questi, però, lo guardò un po’ interdetto, "Spiacente, ma pensavo di viaggiare con Kohu, in fondo ho avuto modo di combatterci e poi, fra noi feriti, potremo darci un po’ di vicendevole supporto.", ribatté l’austriaco, ricevendo un cenno positivo dal giovane polinesiano.

"Pare che tu, Scutum, avrai la fortuna di camminare con me; attento però a non ostacolarmi.", lo ammonì allora il santo della Lira, facendosi avanti verso il discepolo di Degos d’Orione.

"Allora Gustave e Vincent prenderanno il quarto percorso da sinistra, mentre il quinto sarà quello del santo di Cerbero e dell’Areoi.", concluse Amara, trovando tutti concordi, per quanto almeno uno non ne fosse felice.

Fu così che i diversi gruppi si divisero per imboccare strade diverse.

***

I cinque comandanti della nera Armata erano tutti posti intorno all’ingresso della sala dove si trovava il loro sovrano, il Leone Nero.

Il silenzio era calato fra loro dopo i primi battibecchi iniziali, un silenzio a cui nessuno di loro aveva il coraggio di opporsi con determinazione, un silenzio ordinato da Mawu del Mamba Nero, che aveva, ancora una volta, fatto pesare il proprio potere, pronta a fronteggiare chiunque, fra gli altri quattro, le disubbidisse.

Per lunghi minuti, più di un’ora, erano rimasti in quella silente situazione, finché, inaspettato, fu Ntoro, il quinto comandante, ad alzarsi in tutta la maestosa stazza; lo stupore sui volti di Gu ed Acoran fu presto sostituito da un ghigno curioso, poiché, al pari loro, anche Mawu ritenne quel gesto una sfida, tanto da muoversi a sua volta, espandendo il venefico cosmo.

Non servirono parole, bastò il semplice gesto di chinare la testa del gigante, perché fosse chiaro che non era la sfida ciò che cercava. "Due dei miei guerrieri sono stati uccisi. Ho appena avvertito che varcavano l’Infinito Guscio.", spiegò lesto il Comandante della Quinta Armata, "Chi?", domandò secca la guerriera del Mamba Nero, "L’Elefante ed il Rinoceronte. Non erano i più forti nel mio esercito, ma non sono stati uccisi solo dagli Areoi, bensì anche da degli stranieri. Pare che qualcuno sia arrivato in loro soccorso.", si affrettò a spiegare l’altro.

Nuovamente il silenzio calò fra i cinque, ma stavolta dettato dallo stupore, "Avvisa subito i guerrieri più vicini alla posizione dei due sconfitti, che siano pronti alla battaglia e trovino i nemici per eliminarli.", ordinò secca Mawu, "E che ti informino delle loro azioni all’istante, così che tu possa avvisare noi.", concluse.

Ntoro accennò al proprio assenso con il capo, prima di tornare a sedersi nella penombra da cui non si era mai mosso ed iniziare a risplendere di un cosmo pallido e bianco, quasi incorporeo, con gli occhi chiusi dalla concentrazione.

***

Il percorso che avevano preso era rettilineo: non vi erano curve, né cunicoli particolari, né strane vie: vi erano due lunghe palizzate, decine e decine di colonne, tanto vicine fra loro che sembrava quasi impossibile per chiunque passarvi attraverso, colonne che costituivano delle alte muraglie, ergendosi sui lati, per quel loro percorso, che altro non era se non un corridoio, immenso e, apparentemente, senza fine.

Da pochi minuti già correvano, avevano perso di vista i compagni ed erano pronti all’assalto degli oscuri nemici, malgrado non sapessero che poteri potessero avere costoro ed intanto, avanzavano in silenzio.

"Credi che saremo attaccati?", domandò d’un tratto il primo dei due, dalle rosse vestigia e dall’ampio scudo sul bracciale sinistro, "Mi sembra superfluo anche chiederlo, l’unica cosa che dobbiamo realmente domandarci è chi, e da dove, ci attaccherà.", obbiettò l’altro, che portava con se uno strumento musicale, ed entrambi, apparentemente, sembravano non essersi accorti della figura che, come una tetra ombra, li seguiva ed ascoltava, correndo silenziosa fra le colonne alla loro sinistra.

Ad un tratto, l’ombra si fermò, come se una voce l’avesse richiamata, catturandone l’attenzione, parve quasi voltarsi, cercando chi l’aveva chiamata, per poi fermarsi ed ascoltare; le informazioni ricevute generarono un sorriso su quel tetro volto celato nelle tenebre, le stesse tenebre che la videro scomparire fra loro e, silenziosa come prima, recuperare la distanza da quelli che ora non erano più semplici intrusi, bensì prede da catturare ed uccidere.

La corsa di Gustave della Lyra e di Vincent di Scutum andava avanti ormai da diversi minuti, nessun nemico sembrava apparire all’orizzonte con l’intenzione di attaccarli, più volte si guardarono intorno, senza trovare alcun possibile nemico o alleato, né guerrieri dalle vestigia oscure, né Areoi dalle bianche armature.

"Cavaliere, non sembra strano anche a te che nessuno ci si sia ancora parato davanti per fermare il nostro cammino?", chiese il giovane allievo di Degos d’Orione, "No, ragazzino, non penso sia poi così strano, probabilmente, date le anguste colonne che limitano lo spazio per muoversi, è possibile che, semmai qualcuno abbia qui combattuto, la lotta sia stata tale da convincere anche i vincitori ad allontanarsi, o a prepararsi per tendere delle trappole.", suppose il santo di origini francesi.

Ricominciarono quindi a correre nel più completo silenzio i due cavalieri d’argento, finché un rumore non echeggiò nell’aere, fermandoli entrambi.

Cupe crepe si aprirono su due colonne ai loro lati, prima che frammenti di pietra si alzassero a mezz’aria, comandanti da una volontà a loro esterna. "Sembra che, al fine, i nemici ci abbiano trovato…", commentò tranquillo il cavaliere della Lira, "Poniti di spalle verso la mia schiena, ognuno di noi due difenderà un lato.", ordinò quindi verso il giovane Vincent, iniziando ad espandere il proprio cosmo attraverso lo strumento musicale.

Decine di proiettili di pietra si lanciarono contro i due guerrieri di Atena che furono però rapidi nel difendersi: il braccio sinistro del santo dello Scudo fu veloce nel sollevare e spostare, di volta in volta, la propria arma difensiva, deviando, o bloccando, i diversi dardi rocciosi, fino a sbriciolarli tutti, uno dopo l’altro, lasciandolo praticamente illeso; allo stesso tempo, poi, anche Gustave, suonando la propria lira, con un motivetto incalzante, emise delle ondate d’energia che distrussero i diversi oggetti lanciati contro di lui, rimanendo, al qual tempo, illeso.

Di nuovo tornò il silenzio, aleggiando sui due guerrieri di Atena, in attesa di un segno del loro avversario, segno che si manifestò, poco dopo, attraverso una sorda risata, che echeggiò tetra nell’aria.

"Chi è là?", domandò sorpreso Vincent, prima che il rumore di una serie di colonna, che iniziavano a frantumarsi, catturasse la sua attenzione: non ci vollero che pochi secondi perché quelle muraglie di pietra si staccassero dai loro piedistalli, sollevandosi e dirigendosi contro i due cavalieri d’argento, puntando a schiacciarli come mosche sotto il loro nefasto peso.

Con agili salti, i due guerrieri di Atena evitarono più e più colonne, spostandosi continuamente, finché, d’un tratto, Gustave non si ritrovò circondato da ben quattro di quelle colonne, che lo bloccavano su tutti i lati, impedendogli ogni possibile spostamento.

"Attento, cavaliere!", urlò subito Vincent di Scutum, compiendo un acrobatico salto e portandosi a mezz’aria verso una delle quattro colonne, distruggendola con un violento colpo d’energia cosmica scaturita dal suo stesso scudo.

Il santo della Lira approfittò dell’esplosione per spostarsi al di fuori del raggio d’azione degli oggetti in caduta, mentre il suo parigrado, nel ricadere al suolo, si spostava al suo posto, dovendo sfruttare un altro dei propri attacchi per aprirsi una strada, ma questo, all’ultimo, gli risultò impossibile: anche le altre due colonne ancora integre, infatti, si frantumarono, senza un’apparente spiegazione, piovendo sul giovane allievo di Degos con immensa violenza e seppellendolo sotto di loro, dinanzi allo sguardo impassibile del cavaliere della Lira.

"Non hai nemmeno aiutato il tuo compagno d’armi? Sei un egoista, guerriero.", lo canzonò una voce alla sua destra, la stessa direzione verso cui, subito, Gustave si voltò.

Una figura in nero era in piedi, ora davanti a lui, vestigia oscure, ricche di striature grigie che scivolavano tetre sull’armatura. Il corpo della figura era leggermente ingobbito, così da mostrare una sorta di criniera sulla schiena della corazza, mentre braccia e gambe erano celate da lunghe zampe, poste come gambali e bracciali, coprendo, rispettivamente, fino a ginocchia e gomiti.

La zona pettorale dell’armatura era pressoché celata dalla posizione e dalle tenebre in cui l’altra figura era nascosta, ma ben si vedeva l’elmo, dalla forma canina, con due grossi occhi grigiastri che coprivano in parte il volto, poiché, al pari di una maschera, arrivava a celare quasi completamente la faccia di chi la indossava, rendendola più simile all’aspetto dell’animale che voleva rappresentare: uno sciacallo.

"Dunque tu sei uno degli stranieri provenienti da terre lontane quanto le nostre. Cosa vi ha portato qui, il desiderio di aiutare questi sventurati guerrieri in bianco, o di affrontare un cupo destino che ancora non spettava alla Grecia?", domandò la voce, deformata dall’elmo, della tetra figura.

"Gli ordini del mio maestro mi hanno portato a seguire i miei pari in questa missione, dettata dal desiderio di fermare il tuo sovrano, guerriero d’Africa.", furono le prime parole del giovane musico francese.

"Dimmi piuttosto il tuo nome, straniero, poiché io sono Gustave della Lira d’Argento, santo di Atena che ora prenderà la tua vita.", minacciò deciso, impugnando con ambo le mani il suo strumento musicale.

"Parole grosse le tue, europeo, comunque sia, ti dirò chi sono, così che nell’Infinito Guscio tu possa raccontare chi ti ha tolto la vita. Il mio nome è Abuk dello Sciacallo Striato, allieva del potente Ntoro, e sotto di lui combatto nella Quinta Armata d’Africa.", si presentò colei che era una guerriera, rivelandosi ancora di più dalle tetre ombre in cui era celata.

Il volto, che ora leggermente più si intravedeva, era effettivamente delicato come quello di una fanciulla, così come i capelli erano, per quanto corti e neri, decisamente curati, ma, al di là di questi pochi indizi e delle parole di lei, niente del suo aspetto lasciava intuire la sua femminilità, poiché non aveva alcuna forma accentuata tipica di una ragazza, anzi era decisamente esile ed asciutta.

"Una femmina mi è dunque capitata come avversaria?", domandò, disgustato, il cavaliere della Lira, rivolgendo uno sguardo sdegnato all’altra, prima di espandere il proprio cosmo, "Poco male, avrò ancora meno pietà di te per questo.", minacciò infine, iniziando una ritmica ed allegra melodia con la propria arpa.

"Reticulum Vif!", invocò Gustave, iniziando a suonare con sempre maggior ritmo, aumentando, ad ogni nuova nota, l’andamento della melodia, mentre la guerriera avversaria ancora lo osservava, interdetta, finché non rimase lei stessa sorpresa, trovandosi sollevata da terra con una violenza inaudita e scagliata diversi metri indietro, sulla stessa strada che stava sbarrando ai suoi avversari.

La musica continuava a risuonare intorno a lei, sempre più veloce, numerose crepe si andavano formando sulle nere vestigia, aprendosi, le une dopo le altre, ad ogni nuova nota del santo d’argento.

"Ebbene, femmina? Non ridi più? Pensavi forse di aver trovato facile nemico per la tua natura?", esclamò esaltato il cavaliere della Lira, "Invece la Vivace melodia della Lira è rete di funesti assalti contro chi non sa difendersi da essa!", continuò soddisfatto.

"Vuoi che io rida, straniero? Ebbene, riderò!", minacciò di rimando Abuk, espandendo il proprio cosmo, "Risata della Follia!", urlò pochi attimi dopo, prima che tutto, dinanzi a Gustave, diventasse nero.

Ci furono alcuni secondi di silenzio ed oscurità nella mente del cavaliere d’argento, finché una nuova nota eruppe dalla sua lira, una nota che con invincibile precisione centrò la corazza della guerriera nemica, trapassandone le carni da parte a parte e lasciandola al suolo, sanguinante e moribonda.

"Al fine, femmina, vedi l’epilogo della tua vita, allegre note ti hanno portato a questo baratro, note di una musica che per te è stata inattesa requiem forse.", esordì, euforico, il cavaliere di Atena, avanzando fino ad avvicinarsi all’altra, che annaspava visibilmente, mentre le mani cercavano di contenere il sangue che, inesorabile, fuoriusciva dal ventre.

Nell’agitarsi, però, la guerriera perse l’elmo che le celava il viso, rivelando qualcosa che niente aveva di ciò che Gustave si aspettava; la carnagione non era scura, il viso privo di alcunché di esotico, bensì era maschera gelida ed argentea, una maschera che il musico francese ben conosceva: la maschera di Gwen del Corvo!

Per un attimo il santo della Lira rimase intontito, poi, illogicamente, scoppiò in una risata di pura ed euforica follia, "Dunque sotto quante maschera ti celavi? Non solo quella d’argento, ma questa? E perché mai? La sconfitta contro di me tanto ti pesava? Solo la sorte allora ti aiutò, nella casa del nostro, del mio, maestro, ma adesso ti ha voltato le spalle e sei dove dovevi essere fin dall’inizio, a terra, sconfitta!", esclamò in uno scatto di ilarità il santo d’argento.

E quella strana ilarità, così come strana era la situazione, parve non avere fine, eppure, per quanto lo stesso allievo del Quarto Custode Dorato se ne rendesse conto, non riusciva a non ridere, a non sentirsi euforico, costretto ad una pazzia innaturale e gioiosa che, se ne rese conto solo in un secondo momento, ne bloccava i movimenti, torcendone il corpo e provocando un dolore che solo leggermente era celato dall’euforia del momento.

Per un tempo interminabile, il giovane rise, soffocando le urla in quello scatto d’innaturale ilarità che piegava i muscoli e disperdeva le forze, una risata che, se non alla pazzia, lo avrebbe portato di certo alla morte, di questo ormai ne aveva certezza, anche se vedere Gwen moribonda al suolo lo rendeva incapace di smettere di ridere.

Solo un violento colpo alla base del collo, improvviso ed inatteso, lo salvò, facendogli perdere i sensi.

Abuk dello Sciacallo Striato osservava soddisfatta il risultato del proprio attacco: la Risata della Follia era un colpo puramente psichico, un attacco che andava ad investire prima di tutto la mente e le emozioni della vittima, che, senza nemmeno rendersene conto, si ritrovava intrappolata in un incubo senza via di scampo, una trappola che lo rendeva ilare fino a spezzarne i muscoli tutti; un’arma silenziosa, nell’insinuarsi nella propria preda, ma rumorosa nel modo in cui poi si manifestava attraverso la vittima.

Non era come il suo compagno d’addestramenti, Anansi, le sue illusioni si fondavano sull’emotività della vittima, ma, allo stesso tempo, erano potenti quanto quelle dell’altro seguace di Ntoro, o almeno così lei riteneva, poiché ne conosceva bene il difetto: non potevano colpire più di un nemico alla volta. Quella era stata la ragione della sua strategia iniziale, attaccando con la psicocinesi i nemici attraverso l’uso delle colonne che costituivano quello stretto corridoio, per dividerli, mai si sarebbe attesa quello che, di lì a pochi secondi, sarebbe successo.

Dalle macerie sotto cui era stato sotterrato, infatti, riapparve l’altro guerriero europeo, quello dall’armatura rossastra e l’ampio scudo, che, seppur intontito, non ebbe di certo difficoltà ad intuire come quella risata fosse innaturale nel volto del suo compagno, tanto che lo colpì alla nuca con un veloce movimento della mano destra, lasciandolo al suolo, svenuto. In ogni caso, Abuk aveva contro di se ancora un solo nemico.

"Anche tu, ragazzo, vuoi rischiare la vita come il tuo compagno musico?", furono le prime parole della guerriera nera al secondo avversario, "Anche tu vuoi cadere per mano di Abuk dello Sciacallo Striato?", chiese divertita.

"Non cadrò per tua mano, soldatessa d’Africa, non così presto vedrai sconfitto Vincent di Scutum!", ammonì il santo d’argento, sollevando il proprio scudo dinanzi al corpo.

"Una difesa del tutto futile dinanzi a me.", lo derise la guerriera, espandendo il proprio cosmo e sollevando decine di macerie tutte intorno a se, per poi lanciarle con violenta precisione nella direzione del giovane cavaliere d’argento.

L’allievo di Degos, però, non si dimostrò impreparato dinanzi a quel veloce e molteplice attacco: in dodici erano i lapilli che gli correvano addosso e con estrema prontezza, il giovane si gettò su due di questi, frantumandoli contro lo scudo ricoperto d’energia cosmica, poi, con un abile balzo, ne evitò tre, che, però, continuarono a seguirlo nel suo allontanarsi, finché, ripresa una posizione sicura, Vincent non compì una completa rotazione del proprio tronco, investendo i tre lapilli con un unico movimento dello scudo, tanto da distruggerli del tutto.

Tre nuovi frammenti di pietra calarono dall’alto sul cavaliere che, con un veloce movimento, si lanciò contro li stessi, frantumandoli sul proprio scudo, ancora brillante della sua energia cosmica, mentre due lo rincorrevano dal basso, lì dove Vincent non aveva possibilità di difendersi.

"Mi sottovaluti, guerriera africana!", esclamò a quel punto il santo di Scutum, compiendo una rotazione sul proprio asse verticale, lasciò esplodere il proprio cosmo.

"Lawine van het schild!", urlò il cavaliere d’argento, prima che l’energia cosmica attorno al suo corpo in rotazione esplodesse in un’ondata di scie luminose, colpendo i diversi dardi di pietra ancora presenti, anche quelli più lontani, investendo quasi Abuk e lo stesso Gustave.

Fu, però, nel momento in cui stava per ritornare con i piedi al suolo che Vincent non si avvide dell’avvicinarsi veloce della sua avversaria, che, arrivata a pochi passi da lui, lasciò manifestarsi lo scuro cosmo, "Ululato della Disperazione!", esclamò la guerriera africana, ululando subito dopo con voce greve.

Usare lo scudo come difesa non fu nemmeno possibile e, probabilmente, non sarebbe nemmeno stata utile: un suono soltanto fu avvertito dal giovane cavaliere d’argento, infatti, prima di ritrovarsi a cadere al suolo, non ferito, ma, bensì, privo di ogni volontà di attaccare.

Non vedeva più nemmeno l’avversaria dalle nere vestigia dinanzi a se, Abuk era ormai un lontano miraggio agli occhi del giovane Vincent, che aveva davanti a se immagini di luoghi più noti, luoghi appartenenti al Grande Tempio.

Il cavaliere di Scutum, infatti, aveva visione del Santuario, più precisamente del cimitero dove, da tempi immemori, riposavano i santi di Atena caduti in nome della dea, lo stesso posto in cui, molti anni prima, li aveva condotti il loro maestro Degos, per presenziare assieme agli allievi al funerale del defunto cavaliere del Toro, la cui vita, avanzata negli anni, era giunta alla fine, seguendo il normale corso degli eventi.

Ed ancora una volta vedeva Degos al cimitero di Atene, dinanzi a due tombe su cui erano incisi i nomi di due santi d’argento: Eracles Menisteo e Scutum Vincent, recitavano le due lapidi; ma non era il vedere la propria tomba che aveva privato di ogni forza il giovane cavaliere, né la consapevolezza che anche il compagno d’addestramenti era caduto, bensì la coscienza che le lacrime del santo di Orione erano tutte per il primo dei suoi discepoli, una certezza che stava prendendo strada nella mente dell’olandese, piegandone il corpo e lo spirito.

Osservava compiaciuta, ancora una volta, la guerriera nera: anche il secondo nemico era caduto vittima delle sue tecniche, intrappolato nei dubbi che lo avrebbero portato alla disperazione, una disperazione che lo avrebbe estraniato dal mondo, permettendo a lei, Abuk dello Sciacallo Striato, di finirlo senza alcun problema, né resistenza.

Ancora una volta, però, la seguace di Ntoro della Quinta Legione, si dovette ricredere sui propri piani di vittoria: una melodia armoniosa e ben più lenta della precedente si fece strada nell’aria, circondandola, così come, ben presto, anche il suo corpo fu circondato, da fili d’argento, che iniziarono a stringerla, bloccandole i movimenti.

Non ebbe nemmeno bisogno di girarsi la guerriera, poiché, dopo un primo momento di sorpresa, una voce la raggiunse, "Serreé Modéré", sussurrò melodica la voce di Gustave della Lyra, che s’era rialzato e, silenziosamente, portato alle spalle della nemica.

"Sciocca femmina, speravi forse d’avermi già battuto con un misero trucco mentale? Così tanto avevi sottovalutato il musico di Francia?", rise divertito il cavaliere d’argento, gettando appena uno sguardo verso il compagno d’arme, ancora inginocchiato al suolo.

"Non aiuti il tuo pari, europeo?", chiese incuriosita Abuk, "Lasciandoti il tempo di fare chissà quale altra diavoleria? Non sottovalutarmi ancora, femmina. Ci sarà il momento in cui restituirò il favore al giovane santo dello Scudo, ma per ora la vittoria ha la precedenza, la dimostrazione di come io sia superiore a te, femmina, ha la precedenza!", esclamò deciso l’altro, continuando quella melodia.

"Non hai voluto incontrare la fine per mezzo del Reticolo dall’andamento Vivace, ebbene sarà la Stretta dal ritmo Andante a strapparti l’ultimo respiro stritolando le tue carni.", minacciò infine il giovane santo di origini francese, riprendendo a suonare le note mortali.

Una risata, però, scaturì dalle labbra della guerriera africana, "Tutti uguali voi uomini, capaci di comandare sulle donne e decretare la loro sorte. Neppure voi europei siete poi così differenti dalle genti del mio paese natio, nella lontana regione della popolazione Dinka.

Ma, come quelle genti tanto sciocche, che avevano sancito la mia sorte solo per le doti che avevo mostrato fin da piccola, così anche tu, ora, subirai la medesima sorte, la medesima Disperazione, giacché sei sfuggito alla Follia.", minacciò l’altra, prima di abbandonarsi ad un lungo ululato, lo stesso con cui aveva, poco prima, già prostrato al suolo Vincent.

Si ritrovò al suolo, inginocchiato, piegato da un peso che non era sulle sue spalle, bensì proveniva dall’interno del corpo, quasi un macigno che schiacciava stomaco, interiore e cuore, un peso che, lentamente, lo portò a sprofondare in un luogo diverso ed in un tempo diverso.

Era di nuovo in Francia, nei luoghi che lo avevano visto addestrarsi e diventare cavalieri, ma non era lì come un vigoroso guerriero, quale egli si sentiva, bensì vedeva il bambino che era stato, il piccolo figlio di nobili francesi che, inseguendo un sogno di gloria e nobiltà, seguì un prode uomo dalle abitudini, per i più, bizzarre: Remais.

Da lui aveva scoperto i segreti del cosmo, delle stelle a cui gli uomini erano legati, aveva appreso delle antiche divinità greche e della dea Atena, divinità della Giustizia che Remais serviva come cavaliere d’oro del Cancro.

I cavalieri, quella sì che era stata la notizia che più lo aveva inebriato: indossare armature che facevano parte del mito, diventare parte del Mito a proprio volta, questo era ciò che Gustave voleva per se, fosse stato un santo d’argento e non un pari del suo maestro, gli andava anche bene, in fondo lui era solo l’allievo e, un giorno, avrebbe ricevuto il titolo di cavaliere e discepolo del grande Remais, l’unico uomo che aveva il suo rispetto per quanto gli aveva dato in cambio.

Una sola cosa, però, dal cavaliere d'oro non aveva potuto avere: le doti di muovere gli oggetti con il pensiero, le capacità psichiche che il grande santo di Cancer sapeva mostrare e sfruttare a proprio piacimento, qualcosa che il piccolo musico gli aveva sempre invidiato, anche quando il Custode della Quarta Casa gli aveva spiegato che il cosmo, negli uomini, si rivela in modi diversi, come diverso è l’aspetto delle diverse persone fra loro; malgrado ciò, però, Gustave sapeva che un figlio ha sempre qualcosa dell’aspetto del padre e non avere dei poteri simili al suo insegnante rendeva il giovane cosciente, ogni giorno, del loro legame che esulava dal sangue.

Questa differenza, la diversità fra l’emanazione cosmica del maestro, legata alla forza della mente e quella di cui lui disponeva, che dalle note e dalla musica aveva origine, fu sottolineata dall’arrivo della piccola orfana scozzese!

Il musico non la odiava, non ne era capace, non la riteneva tanto importante, ma odiava come il legame fra lui e Remais fosse reso più sottile, ai suoi occhi, per la presenza di lei.

Quella mocciosa di origini plebee, aveva visto la sua casa, prima che andasse a fuoco, era una costruzione di legno in mezzo ad un bosco, quella bambina, agli occhi di Gustave, era cresciuta fra bestie ed insetti, in un mondo del tutto diverso dal suo, un mondo inferiore.

Proprio per questo lui non la accettava, perché sarebbe dovuto essere lui a primeggiare, non lei, che utilizzava abilità simili a quelle del maestro Remais; non lei doveva avere le attenzioni del santo di Cancer per come sapeva manipolare gli oggetti e come riusciva a vagare nella mente degli uomini; non lei doveva possedere una tecnica rassomigliante agli Strati di Spirito del suo maestro!

Eppure era Gwen ad avere tutto ciò, era lei a ricevere attenzioni e suggerimenti su come meglio sviluppare le proprie virtù belliche, perché meglio ci si relazionava il maestro Remais. Sempre lei, tempo prima, aveva osato ferirlo, per pura fortuna, di certo, secondo Gustave, quando lui aveva cercato di vedere il volto sotto la maschera: si era rifiutata di accettare la propria inferiorità, di arrendersi a lui!

Erano tutte queste memorie che vagavano nella mente del cavaliere d’argento, pesando come macigni, gigantesche rocce legate al senso di privazione che l’esistenza e le capacità della compagnia d’addestramenti scatenavano in lui.

Le stesse memorie che stavano piegando il corpo, assieme alla mente, il corpo che era ancora nell’Avaiki di Ukupanipo, osservato da Abuk.

La guerriera dello Sciacallo Striato osservava i due avversari, uno in ginocchio, l’altro ormai prostrato al suolo: il primo vittima della sensazione di lontananza dal proprio maestro, in confronto alla compagnia d’addestramento; l’altro sentiva la colpa della propria incapacità dinanzi al suo insegnante.

Forse, se fra le doti di Abuk vi fosse stata anche quella di leggere nelle menti dei nemici che intrappolava in inganni psichici, avrebbe riso di quei due uomini, lei che non aveva mai avuto un maestro che le mostrasse le basi del controllo del cosmo.

Era cresciuta sola dall’età di otto anni per i particolari poteri che aveva, era stata costretta ad uccidere per sopravvivere, finché non aveva incontrato il grande Ntoro ed il suo primo allievo, Anansi; per lei che aveva accolto quel maestro, perché l’unico che ne vedeva un’utilità nella sua vita, ed accettato entrambi come dei despoti, tutto quello strano attaccamento dei due cavalieri d’argento sarebbe stato quanto meno, assurdo.

I pensieri della soldatessa del nero esercito erano, ironicamente, diretti lo stesso al proprio maestro ed al compagno d’armi: di certo, di tutti i soldati delle cinque armate, solo lei ed Anansi, che avevano un così stretto legame con Ntoro, potevano sapere cosa stesse succedendo, di quei guerrieri europei che s’erano intromessi nella loro missione di conquista e sarebbero stati gli unici pronti, fin da subito, per uno scontro.

Era vero che, data la loro natura di conquistatori, tutti i guerrieri dell’Esercito Nero erano stati addestrati per combattere chiunque non fosse uno di loro e sconfiggerlo: non era nella loro politica fare prigionieri, o risparmiare vite, piuttosto le strappavano via tutte, una dopo l’altra.

Quello era stato uno dei primi insegnamenti del Comandante della Quinta Armata, lo stesso per cui, adesso che i due avversari erano al suolo, dinanzi a lei, incapaci a distinguere l’incubo dalla realtà, la guerriera stava muovendo con la forza della mente alcune decine di frammenti di pietra, smussandoli fino a renderli particolarmente appuntiti, pronta ad affondarli nei corpi dei due avversari, gli stessi su cui li lanciò senza attendere un secondo di più.

Inesorabili scendevano le acuminate punte sui due cavalieri d’argento, pronte a sancirne un’inevitabile morte, pronte a strapparli alla vita, a stringersi e schiacciarsi su di loro, pronte per qualcosa che mai avvenne: una melodia si sollevò, sorprendendo Abuk, una melodia che già aveva udito, vivace ed impetuosa, "Reticulum Vif!", sentì urlare poco dopo. Gustave della Lira era di nuovo in piedi.

"Che cosa? Non è possibile!", esclamò stupefatta la guerriera nera, scagliando decine e decine di macigni contro il musico francese, che, in tutta risposta, continuò la propria melodia di distruzione, emettendo ultrasuoni tanto veloci e devastanti da distruggere ogni improvvisato dardo che gli correva contro.

"E’ inutile, femmina, ogni resistenza è un mero spreco di forze per te; il mio Reticolo Vivace non è forse la migliore delle armi offensive, ma mi offre una difesa completa, sollevando una barriera di ultrasuoni intorno alla mia persona, bloccando e travolgendo qualsiasi cosa cerchi di superare questo scudo musicale, al pari dei sensi di un pipistrello, avvertirà ogni ostacolo e gli si lancerà addosso, travolgendolo.

È una difesa più potente persino dello scudo del mio giovane compagno.", rise compiaciuto il cavaliere d’argento, osservando sottecchi Vincent, ancora al suolo, stritolato fra le proprie fonti di disperazione.

"E, oltre ciò, non sperare che oltre i tuoi inganni psichici servano su di me, ho vinto la disperazione e di certo non mi farò di nuovo ingannare dall’euforia.", avvisò ancora Gustave, continuando a suonare la sua melodia difensiva.

"Siamo in una situazione di stallo, dunque? Poiché, come io non posso colpire te, così tu non puoi fare altro che difenderti, dato che quella preziosa barriera ti impedisce d’usare altre tecniche.", lo ammonì, riprendendo il controllo, Abuk.

"O almeno così sembrerebbe, ma dubito che la tua barriera possa battere anche l’ultima delle mie armi!", ruggì la guerriera africana, prima che un sommesso ringhio esplodesse dalle sue labbra.

"Ringhio della Rabbia!", invocò, scatenando quel nuovo attacco; il risultato fu una sensazione completamente nuova per il cavaliere d’argento, ben diversa dall’euforia folle della prima tecnica che aveva subito, o la profonda disperazione che ne aveva piegato la volontà per alcuni secondi, questo colpo provocò un vero e proprio dolore fisico in Gustave.

Il santo della Lira lasciò scivolare al suolo il proprio strumento musicale, mentre portava ambo le mani alla testa, quasi cercasse di impedire che quel dolore vi si propagasse ancora di più, un dolore simile a decine di chiodi incandescenti che perforavano il suo cranio.

Per interminabili secondi, tutto ciò che il cavaliere di Atena riuscì a fare, fu urlare, urlare finché un calcio di Abuk, diretto verso la sua mascella, non lo fece crollare al suolo, a rotolarsi nel dolore.

"Ancora parli della tua superiorità e di come tu possa vincermi, europeo? Ancora ti sembra che il mio stato di femmina sia così inferiore al tuo?", ringhiò, scatenando ancora una volta quel suo attacco, mentre sangue iniziava a scivolare dalle orecchie e dal naso del santo di Atena, frutto di quel fatale colpo.

"Questo attacco empatico trasmette le mie sensazioni direttamente nella tua mente, europeo, ti permette di assaporare la mia ira, il mio disprezzo per un mondo da cui sono stato per lo più scacciata, un mondo in cui le diverse culture portavano a considerarmi comunque una strega, o qualcosa di mostruoso. Culture e credi religiosi che, ben presto, grazie al Leone Nero, saranno spazzate via!", esclamò alla fine, sferrando, per una terza volta di fila, il Ringhio della Rabbia.

Immagini di una bambina scacciata da tutti, di inseguimenti, pestaggi, disprezzo, di una rabbia inespressa durante i maltrattamenti, che si scatenava poi attraverso assalti empatici contro i propri aguzzini, questo vide per lunghi ed interminabili istanti il cavaliere d’argento, che avvertiva nella propria mente il dolore sia della giovane vittima, sia dei suoi carnefici, una volta che la piccola bambina africana, dal volto sempre celato nell’oscurità di quelle sensazioni, si ribellava. Un dolore che, nel corpo e nella mente del musico francese, diventava reale, per l’eccessivo ammontare di emozioni e percezioni che s’andavano accumulando nella sua mente, impreparata.

Un urlo inumano proruppe dalle labbra di Gustave, mentre crollava al suolo, sputando sangue dalla bocca, privo, almeno a prima vista, di ogni forza vitale per rialzarsi da terra, dopo quell’ennesima ondata di emozioni non sue.

"Hai avuto la morte peggiore, europeo, ma è stato ciò che meritavi.", fu l’ultimo commento che la guerriera dello Sciacallo Striato rivolse all’avversario, prima di volgere la propria attenzione in direzione del cavaliere di Scutum.

Non aveva ancora fatto tre passi, però, che Abuk fu richiamata da un nuovo rumore proveniente dalle sue spalle, il rumore dei movimenti del cavaliere della Lira, che si rialzava in piedi.

"Non sperare di avermi vinto solo per avermi offerto qualcuna delle tue emozioni, femmina… sono emozioni di una donna, quindi di una persona debole, in confronto a me, ben altro ti servirebbe per sconfiggermi.", la ammonì con tono sicuro, per quanto la voce tradisse la debolezza del corpo, mentre la mano recuperava lo strumento musicale.

"Tu, maledetto arrogante!", lo insultò furiosa la guerriera, pronta ad un nuovo attacco, che, però, fu lestamente impedito dalla musica del cavaliere d’argento, il quale iniziò una nuova e ben più grave melodia.

Note gravi s’alzarono dall’arpa, al pari di fili energetici che si sollevarono, cinque in totale, danzando argentei nell’aria fra i due guerrieri avversari, mentre altri due se ne formavano, più lentamente.

"Non pensare di vincermi con un’altra delle tue musichette, già ti ho dimostrato quanto il potere della mia mente vi sia superiore!", esclamò, pronta a ringhiare di nuovo contro l’avversario, ma incapace a farlo, poiché già, una delle cinque corde energetiche si era conficcata nella sua gola.

Le mani di Abuk annasparono nel vuoto, in cerca quasi di quelle parole che mai uscirono, stroncate sul nascere.

"Lent Requiem.", esordì Gustave, "La melodia funebre dal ritmo grave, ultima e più dolorosa delle armi di Gustave della Lyra, un’arma che finora avevo solo provato, ma mai usato sul serio e che speravo di lasciare per una persona per me speciale.", continuò sibilino il cavaliere d’argento.

"Un’arma che dà una morte lenta e sofferta alla propria vittima, la stessa che ora proverai su di te.", aggiunse, sorridente.

"Il mio maestro, il grande Remais, un giorno mi spiegò che vi sono cavalieri d’oro capaci di togliere i cinque sensi ai loro avversari attraverso il cosmo e, per quanto l’idea mi affascinasse, non sono mai stato capace di tanto, quindi ho dovuto puntare verso qualcosa di più pratico per me: applicare l’emanazione del mio cosmo, e la musica stessa, alla recisione dei collegamenti nel corpo umano.

Difatti, femmina, ti ho appena tolto il senso del gusto, attraverso la nota del Fa, la cui estremità ha reciso le tue corde vocali; il primo dei sette passi che ti porteranno alla morte.", spiegò impassibile il guerriero.

"Avevo ormai capito che, per effettuare i tuoi attacchi, avevi bisogni della voce e dei suoni con cui insinuavi determinate sensazioni nelle vittime.

Ora, per secondo, ti priverò del tatto, così che tu non possa muoverti, né guidare alcun macigno contro di me. Eccoti la nota del La.", avvisò Gustave, suonando una nuova parte della sua melodia, mentre un secondo filo energetico si andava a conficcare alla base del collo della guerriera africana, recidendone le connessioni nervose ai diversi muscoli.

"Ora che non puoi muoverti, immagino che ti sentirai al pari di come ho scoperto ti sentivi da piccola, quando la gente ti scacciava per le tue capacità, ma, al contrario di allora, non hai modo di liberarti. E quindi, per farti un piacere, ti reciderò il senso dell’olfatto, così che tu non possa sentire la puzza della tua paura. Ascolta la nota del Mi.", rise il musico francese, prima che una nuova corda energetica affondasse nel naso della guerriera, danneggiando altresì l’elmo che ne celava il volto e rivelando della pelle dal colore stranito.

"Parlando di emozioni, mi hai attaccato prima con l’euforia, poi con la disperazione e quindi con la tua rabbia, che in se le mescolava entrambe, ma, a tutto ciò, ho saputo rispondere, e sai perché? Non solo perché ti sono superiore, ma, principalmente, per qualcosa che tu sembri non conoscere, un sentimento che vince su qualsiasi altra cosa: l’orgoglio, l’immensurabile certezza di essere nel giusto, solo perché il mio maestro mi ha dato le capacità di trionfare con le abilità che possiedo!", esclamò, nuovamente serio, Gustave.

"Devo però ringraziarti, per aver visitato le tue emozioni, poiché ho scoperto il perché di quella maschera: il tuo viso è deturpato da ustioni, un segno di passate angherie che cerchi di celare. Bene, ora, che perderai la luce degli occhi, sappi che io vedrò il tuo volto, quando la nota del Sol ti affonderà negli occhi.", minacciò infine, suonando una nuova parte della melodia e, ancora una volta, una corda si mosse, frantumando del tutto l’elmo a forma di sciacallo e perforando gli occhi della povera Abuk, ora priva della vista, ma ancora capace di poche lacrime dallo sguardo spento.

Gustave osservò con disgusto quel volto, forse un tempo anche bello, ma ora segnato da profonde ustioni che ne rovinavano le forme nella loro interezza, ma evitò ogni commento, pregustando il finale della propria esibizione musicale, un finale che sarebbe stato un’ottima prova per poi saggiarlo sul suo vero obiettivo.

"Ascolta bene, femmina, le ultime parole che sentirai in questa vita: ben presto su di te userò la nota del Re, che ti estirperà l’udito, poi spetterà al Si ed infine al Do.

Il Si è una nota particolare, poiché non recide alcun senso, bensì, imprime un’emanazione del mio cosmo nel corpo della vittima, trasmettendogli un dolore ben più fisico di quello che tu hai osato prima infierire su di me, un dolore che sarà fermato solo dalla nota del Do, che ti darà la morte.", avvisò il cavaliere d’argento.

Dopo quelle parole fu suonata ancora la grave melodia, portando un primo filo energetico ad affondare nei timpani di Abuk, poi un secondo a conficcarsi nello stomaco di lei, producendo spasmi di dolore che, però, non ebbero modo di mostrarsi né con suoni, né con espressioni del volto, infine, l’ultima nota, portò l’ultima corda d’energia a conficcarsi nel petto della guerriera, distruggendo le vestigia dello Sciacallo Striato e strappando la vita di colei che le indossava.

Gustave della Lyra rimase alcuni secondi ad osservare l’esito della propria melodia, scrutando quel vuoto involucro che poche decine di minuti prima si era presentato come Abuk dello Sciacallo Striato, poi, il cavaliere d’argento si volse verso il parigrado, ancora chino al suolo, stordito dalla propria disperazione.

"Non ho voglia, né tempo, per restare qui a risvegliarti, cavaliere di Scutum, tutto ciò che ti dirò, sperando che tu mi possa ascoltare nei meandri della tua disperazione, è di vincere il demone che ti divora dall’interno, trova in te l’orgoglio, se vi è ragione per che vi esista nella tua vita, e vinci questa debolezza.

Se ciò sarà possibile, e nessun nemico intanto ti avrà tolto la vita, allora ci rivedremo in questi meandri.", concluse il santo di origini francesi, allontanandosi dal luogo dello scontro, diretto verso la sua meta finale, ignaro di quante figure nere e bianche si aggirassero per quel tempio sottomarino.