Capitolo 16: Donne e guerriere

Dorida della Sagitta non conosceva il nome del Dominatore dei Venti che era caduto nell’area meridionale del tempio di Eolo, però, non ebbe il cuore di lasciarlo fra quelle macerie, il corpo dilaniato e semisepolto: perse alcuni minuti nel deporre il suo cadavere fra rocce, costruendovi quasi una piccola bara con i segmenti del luogo che aveva cercato di difendere, prima di scattare verso l’interno del corridoio, incurante all’eventualità che il misterioso nemico con le vestigia del Corvo Nero potesse tornare ed attaccarla alle spalle.

Fu così, correndo lungo quel corridoio, che la sacerdotessa guerriero incontrò un’altra di quelle tetre ombre nemiche.

Capelli ambrati che le scivolavano, leggermente arruffati, lungo le spalle, occhi sottili, ben curati, con un lieve trucco, che l’umidità aveva fatto appena sciogliere, brillanti di una luce smeraldo, che la osservavano beffardi, mentre due labbra carnose ed una pelle chiara e profumata arricchivano ancora di più quel viso, il viso di una guerriera dalle affascinanti forme, coperte da quella che era evidentemente la nera controparte dell’armatura dell’Auriga.

"Così, Kurnak ha avuto ragione del seguace di Eolo, ma ha lasciato passare la seguace di Atena? Tipico di quel bestione.", commentò con un laconico disappunto l’affascinante fanciulla, "Kurnak? Sarebbe il nome del vostro Corvo Nero?", domandò di rimando Dorida, sollevando le braccia in posizione di guardia.

"Esatto, un bestione di poche parole, come avrai notato… anche se, a ben vedere, non hai danno alcuno su quelle belle vestigia, quindi immagino che non abbiate combattuto, poiché sarebbe impossibile altrimenti.", commentò laconica la nera avversaria.

"Piuttosto, mia cara, il tuo nome? Che armatura è mai quella? Non ha corrispettivi nelle forme fra quelle dei guerrieri d’argento nero, né, credo, fra quelli di bronzo, però la maschera mi dice che tu sei una sacerdotessa di Atene, o sbaglio?", continuò l’Auriga Oscura.

"Non sbagli, sono Dorida della Sagitta, guerriera in nome di Atena, allieva di Bao Xe della Musca!", si presentò l’ispanica sacerdotessa, bruciando il fiammeggiante cosmo.

"Ho una certa esperienza in sacerdotesse di Atene, non potevo sbagliare! Ma devo ammettere che le tue vestigia sono ben diverse da quelle di Ippolita, una vera sorpresa!", aggiunse di rimando, prendendo a sua volta una posizione di guardia, con gli scudi neri fra le mani.

"Sono diverse, perché rinate per mezzo del sacrificio e dell’amicizia!", spiegò orgogliosa l’altra, "Tu, piuttosto, guerriera oscura, chi sei?", ribatté dura, "Che sbadata! Amaltea dell’Auriga Nera, piacere di conoscerti e, ben presto, di ucciderti!", replicò con noncuranza l’avversaria, il cosmo che brillava quasi quanto quello di Baal stesso, accecante e vivo come un piccolo sole.

In un bagliore improvviso, i due dischi neri partirono contro la sacerdotessa di Atene, che aveva visto ben poche volte Zong Wu combattere, ma, malgrado ciò, aveva intuito la base delle strategie nell’uso di quel tipo di armi, così, fu lesta nel piegarsi, evitando il primo assalto dei due dischi, che andarono a cozzare contro le pareti dello stretto corridoio.

"Sciocca ragazza!", rise Amaltea, prima che il rumore delle due armi da lancio che, rimbalzando sulle strette pareti, ritornavano indietro, costringesse Dorida a voltarsi, "E non è finita: Eliaké Kuklos! Risplendi Disco del Sole!", invocò la nera nemica ed un lampo di luce accecante si generò dalle due armi oscure, obbligando la sacerdotessa di Atena a chinare il capo, impedendole di difendersi e venendo così travolta dalle due armi nere, che ben poca strada trovarono sulle rinate vestigia della Sagitta, ma riuscirono comunque, nel punto di giunzione fra due segmenti della corazza, a ferire il braccio destro della guerriera.

Con abilità, subito dopo, Amaltea riprese fra le mani le proprie armi, permettendosi una risatina soddisfatta, "Sciocchina, non valuti nemmeno le caratteristiche dell’ambiente dove combattere, che pena che mi fai.", la schernì, "Maldita…", ringhiò la sacerdotessa d’argento, rialzandosi in piedi, il cosmo fiammeggiante pronto alla carica, "Vediamo come farai tu a difenderti dal mio di attacco, in questo spazio ristretto!", la sfidò, portando avanti il braccio sinistro.

"Flechas Ardientes!", urlò la guerriera di Atene, scatenando gli strali fiammeggianti contro la propria avversaria che, però, accompagnata da una melodica risata, scomparve da dinanzi l’avversaria, riapparendo contemporaneamente in molteplici punti, immagini residue, come poté pensare Dorida stessa, prima di fermare il proprio attacco.

"Non mi risulta poi così difficile sottrarmi alla carica di una ragazzina così sciatta nel colpire e selvaggia nei comportamenti.", commentò pacatamente Amaltea, riapparsa alle spalle dell’altra, mentre si spazzolava delicatamente i capelli, "L’umidità di poc’anzi mi deve aver davvero rovinato l’acconciatura…", lamentò fra se, quasi non si preoccupasse della presenza di Dorida lì, proprio dinanzi a lei.

Con un ruggito di frustrazione, la sacerdotessa della Sagitta partì di nuovo all’attacco, scatenando ancora le Frecce Fiammeggianti, cui, nuovamente, la nera avversaria rispose con una risata, prima di scomparire in una dozzina di illusioni di luce, riapparendo proprio di fianco alla seguace di Atena, con uno dei neri dischi nelle mani.

"Cercavi me, sciocchina?", rise divertita, affondando la tetra lama nel braccio già ferito, lasciando che un urlo di dolore scappasse dalle labbra dell’altra, mentre nuovo sangue scivolava via dal corpo.

"Non hai alcuna eleganza.", lamentò Amaltea, "Meglio finirla con le tue sofferenze, che ne dici? Eliaké Kuklos, colpite!", imperò, liberando i dischi oscuri e l’abbagliante luce che gli era propria.

L’allieva di Bao Xe fu abbastanza furba da sollevare le braccia a copertura di collo e maschera, subendo la violenza delle lame nere sugli avambracci corazzati e, in parte, sulle zone non scoperte degli stessi, indietreggiando di qualche passo, in quel luogo angusto dove le due stavano combattendo.

"Un po’ meglio, sciocchina, ma ancora sei ben lungi dall’essere definibile una guerriera elegante… mi chiedo quale selvaggia possa averti mai addestrato alla lotta.", la schernì la nera Auriga, avanzando di qualche passo, con fare superbo e sicuro.

"Come osi? Bao Xe della Musca è una delle sacerdotesse guerriero più abili e ben considerate dell’intero Santuario! Mi ha salvato la vita più di una volta e mi ha reso la persona che sono oggi!", ribatté offesa Dorida.

"Bao Xe? Ho già sentito questo nome…", ripeté curiosa la nera nemica, prima di sollevare la mano sinistra, "Umba, anche lei ne parlava, ma non in toni altrettanto nobili.", ricordò con un sorriso beffardo, prima di rivolgere alla sacerdotessa di Atene l’indice mancino, "Poi lo hai detto tu stessa adesso, ti ha reso la persona che sei… non la donna! Come tutte le sacerdotesse di Atene, cerchi di negare la tua vera identità con quella orrida maschera!", la accusò con un sorriso ora più malefico, "Puoi credermi, le mie tre consorelle sono state per un periodo apprendiste presso il vostro ordine guerriero.", concluse.

"Di cosa vai parlando?", domandò con diffidenza la guerriera di Atene, "Parlo di come questo vostro credo religioso vi abbia negato la libertà di essere fanciulle, di essere belle, di essere voi stesse! Avete queste maschere di metallo che vi distinguono per il vostro grado, per il vostro ruolo, ma non per quello che siete, non per chi siete!", ribatté con tono pacato l’altra, "Puoi chiedere alle mie consorelle: Sagitta Nera, Aquila Nera ed Orione Nero. Due di loro sono ad Atene al momento, ma la terza è in questo stesso tempio, seppur da un’altra parte, di certo anche lei ti confermerebbe come si senta più libera, adesso che non deve più indossare quelle vostre orrende maschere.", spiegò sicura.

"Non posso di certo prendermi il merito di averle convinte a toglierle, no, hanno fatto tutto da sole, sia loro, sia l’altra che dal vostro Grande Tempio proveniva, ma, almeno, posso dire con sicurezza che adesso sono tutte più libere di essere se stesse.", continuò Amaltea, "Hai mai provato a togliere quella maschera, sacerdotessa? Da quanto tempo non assapori il soffio gentile del vento sul volto? Questo è il tempio di tutti i Venti, potresti toglierla, chissà che ciò che proveresti non ti piaccia.", suggerì ancora, avvicinandosi di un passo, "Fallo adesso! Non vi sono uomini qui intorno e ho già sentito parlare delle vostre costrizioni in tal senso.", propose malefica la nera avversaria.

"Piuttosto brucio la tua di faccia! Flechas Ardientes!", imperò nervosa Dorida, scatenando una nuova pioggia di dardi incendiari che, come le precedenti, andò a schiantarsi sul duro terreno, disperdendo le immagini residue della sua nera nemica.

"Non vuoi proprio capire, sciocchina!", la ammonì l’Auriga Nera, liberando i due dischi oscuri, che iniziarono a rimbalzare da una parete all’altra, "Eliaké Kuklos! Brillate Dischi Solari!", tuonò, riempiendo di intensa luce lo stretto corridoio, ma stavolta la sacerdotessa di Atene fu svelta nell’abbassarsi e caricare verso la nera nemica, investendola con una violenta testata all’addome, spingendola sulla dura roccia.

"Sei tu a non capire: utilizzare troppe volte lo stesso trucco non vale con un cavaliere di Atena! Troppo hai tentato nel lanciarmi addosso i tuoi dischi accecanti ed usare quelle illusioni! Adesso pagane il prezzo!", minacciò decisa Dorida, il pugno ricolmo d’energia cosmica.

Un ghigno, però, si dipinse sul viso di Amaltea, prima che un’esplosione di luce si generasse dal corpo di lei, accecando la sacerdotessa di Atene e sbilanciandola quel poco perché l’altra la spingesse indietro, liberandosi dal suo peso.

L’allieva di Bao Xe non ebbe modo di vedere l’avversaria allontanarsi, ma ne sentì chiaramente la voce, un po’ più distante di prima, mentre continuava: "Sei tu che non vuoi capire, ma vedrò di essere più chiara allora!", ruggì indispettita la nera guerriera, prima di urlare: "Eliakò Stemma! Che la mia sciocca sia ghermita!".

Dorida non riuscì a capire cosa stava accadendo finché non si rese conto di avere braccia e gambe bloccate, incatenate in un qualche gigantesco anello d’energia luminosa, che la sosteneva a mezz’aria, proprio dinanzi all’Auriga Nera che, nel frattempo, aveva recuperato i propri dischi oscuri.

"Intanto, vediamo questo misterioso faccino!", ridacchiò Amaltea, togliendo la maschera alla sacerdotessa guerriero, malgrado le urla rabbiose della stessa, incapace di impedire tale azione ed a malapena d’imprecare, mentre vedeva la maschera scivolare in un angolo del corridoio.

"Non sei poi così mal ridotta! Temevo peggio!", rise la nera avversaria, "Un po’ di trucco e cura maggiore e di certo faresti strage di uomini senza bisogno di quelle tue frecce di fuoco.", ridacchiò con un sorriso furbo in viso.

In tutta risposta, Dorida ringhiò ancora ed ancora, improperi in spagnolo rivolti contro la nera avversaria, il cui sguardo fu stravolto da una nota di disappunto, prima di colpire violentemente il volto della sacerdotessa guerriero con il piatto del disco nero, che subito si macchiò del sangue della giovane seguace di Atena.

"Sto cercando di salvarti, piccola ingrata!", ruggì indispettita Amaltea, "Sei peggio di Umba, Megara ed Ippolita! Persino più testarda!", la accusò ancora, allontanandosi di qualche passo.

Quei tre nomi richiamarono alla memoria di Dorida dei volti, o più correttamente delle maschere, di altre aspiranti sacerdotesse di Atena, proprio com’era lei quando arrivò al Santuario, seguendo Bao Xe, proprio come Cassandra ed Agesilea, persino Iulia, tutti giovani fanciulle che sognavano di diventare guerriere consacrate alla Giustizia, prima di essere divise dagli eventi.

"Le ricordi, vero?", chiese la voce di Amaltea, interrompendo l’altra, "Anche loro portavano quella brutta maschera, come Orione Nero, ma sono riuscita a convincerle ad abbandonare quella cosa che vi nega un’identità!", affermò, rivolgendo lo sguardo verso l’oggetto a terra.

"Le hai convinte?", ripeté perplessa la spagnola guerriera, "Sì, ci ho messo un po’ con Umba in particolare, ma le ho convinte tutte quante! Insomma è per questo che ho creato la Sorellanza Oscura, per questo che ho preso la piccola Ippolita sotto la mia ala protettiva, addestrandola il meglio possibile, per quanto i suoi poteri fossero ben diversi dai miei. E sai cosa hanno capito tutte loro?", chiese ancora la nera avversaria, sollevando la maschera d’argento, "Che questa è la vostra più pesante catena!", ruggì, agitandola dinanzi al suo viso.

"Che ne sai tu? Chi ti dà il diritto di giudicare il nostro ordine guerriero? Liberami e ridammi la mia maschera!", ringhiò di rimando Dorida.

"Vuoi ancora negare la tua identità di donna per questa orrida placca metallica? Cosa rende più importante essere la persona che indossa questo coso, che non la fanciulla dai capelli rossi che in realtà sei?", la accusò Amaltea, "Perché vuoi essere schiava di una dea vergine e guerriera, che manda al massacro milioni di giovani, anziché essere semplicemente te stessa? Odiavi così tanto la ragazza che eri prima di diventare la persona che indossa questa maschera?", le chiese ancora la nera nemica, prima di fermarsi un attimo ed inspirare a fondo.

"Ti racconterò una storia, mia cara, ascolta attentamente.", ordinò decisa l’Auriga Oscura.

"Un tempo, ero una seguace di Apollo, destinata ad indossare le vestigia della Corona Solare, un grande onore, poiché simbolo primo del potere del divino Signore del Sole e delle Muse.

I miei compagni, al servizio del Febo, erano un abile musico ed un arciere come pochi altri; questi, si diceva, fosse stato addestrato nel tempio di Venere a Zante, da Cupido in persona, un uomo bellissimo ed abilissimo nella lotta, l’amore della mia vita.

Lungo ed intenso fu il sentimento che ci legò, finché non fallimmo nel difendere da un misterioso assalitore il tempio di Delfi.

Il musico era felice per noi e così anche il resto delle genti di Delfi, ma l’Oracolo del dio aveva altre idee a riguardo: si sarebbe dovuto scegliere il comandante dell’armata del Sole di Grecia ed io ed il mio amato eravamo i due candidati più appetibili.

Era legge, però, che il primo guerriero di Apollo non fosse legato sentimentalmente ai propri compagni, poiché la lealtà verso il nostro signore doveva venire prima di ogni altra cosa, se fosse stato necessario decidere fra il bene dei compagni e quello del Santuario di Apollo, o dell’Oracolo, i compagni sarebbero dovuti essere lasciati indietro.

Ovviamente, dinanzi a questa legge, rifiutai il ruolo di comandante, ma il mio amato non poté: troppo grande era la devozione ad Apollo, tale da superare persino l’amore verso di me, tale da lasciarmi vuota e disperata nella scoperta di quella verità così amara, una verità che pagò con la propria vita.

Fui imprigionata sull’Isola della Regina Nera, perché non avevo accettato che le regole dettate da una divinità nei tempi del Mito, e rispettate da bacucchi ed invertebrati, mi rendessero un’unità delle schiere al servizio di quel dio, perché ho rifiutato di perdere il diritto di amare e di essere me stessa, lo stesso a cui tu e tutte le altre sacerdotesse di Atena rinunciate ogni giorno in cui indossate queste stupide maschere!", ruggì infine Amaltea, gettandola al suolo.

"Dicevi di amare questo arciere eppure lo hai ucciso? E dici che io non sono capace di amare?", domandò sgomenta Dorida, "Sì, perché ti vieti questa opportunità ogni giorno della tua esistenza, nascondendoti dietro quella maschera, quello scudo che rende a tutti impossibile vederti per ciò che sei!", ribatté infastidita la nera avversaria.

"Non è il volto a rendermi qualcuno, non per il mio aspetto dovrei essere giudicata, bensì per come agisco ogni giorno, per come combatto le battaglie che mi sono pongono dinanzi, per come sbaglio e, una volta capito il mio errore, decido di migliorare in quel senso!", rispose convinta l’allieva di Bao Xe, che aveva appreso sulla propria pelle, e con i propri occhi, durante la battaglia di Accad quanto i giudizi superficiali fossero sbagliati.

Un sorriso malefico si dipinse sul volto della nera avversaria, "Se sei convinta di questo, allora sono sicuro che la tua dea non se la prenderà a male per il mio prossimo gesto.", ghignò, rompendo a metà la maschera d’argento con il tacco dello stivale.

***

Era arrivato da pochi minuti nell’Anticamera che gli spettava da difendere e già avvertiva l’agitarsi di molti cosmi e movimenti nelle vicinanze.

Aveva sentito il cosmo di Oritia spegnersi, come quello di Ekman prima di lei; sentiva che già Lothar, ed ora anche Coriolis, stavano combattendo contro qualcuno, di certo uno dei neri nemici, mentre Aliseo sembrava intento ad aiutare uno dei loro soccorritori in una battaglia nella sala di Ponente, così come un altro stava combattendo poco lontano da lui, nel corridoio che conduceva a quella dell’Ostro.

Proprio in quello stesso corridoio, sentiva, tre nemici s’erano divisi: uno era rimasto indietro, lo stesso che ora stava combattendo, un secondo si era diretto verso l’anticamera di Lothar, mentre il terzo sembrava che ben presto lo avrebbe raggiunto lì dove lui si trovava.

Su tutti, però, la cosa che maggiormente lo preoccupava era il cosmo immenso che ora circondava l’altare dell’Otre dei Venti, nella stanza centrale del Tempio, la stessa che poco prima loro avevano lasciato, anche sotto la sua insistenza.

"Padre, spero di non aver fatto un altro dei miei errori…", bisbigliò fra se il Dominatore dei Venti, "Il ritorno di quel maledetto di Luis, il desiderio di vendetta, la morte che di nuovo aleggia in questi sacri luoghi, spero che la mia fretta non procuri più dolore che soluzioni, non potrei sopportare di mancare di nuovo al mio ruolo.", pregò fra se, preparandosi spiritualmente alla battaglia che stava per raggiungerlo.

Chiunque avesse varcato il corridoio meridionale, avrebbe trovato Noto del Libeccio ben pronto alla battaglia!

***

Lacrime scivolavano dagli occhi di Dorida, occhi che da tempo immemore non vedevano la luce del giorno, o ambiente che non fosse stato quello della sua piccola stanza, nei quartieri delle sacerdotesse ad Atene, occhi color nocciola che, adesso, sembravano brillare del rosso delle fiamme, le stesse che circondavano il suo corpo, alimentata da un cosmo furente come mai era stato in vita sua.

Aveva sempre combattuto con determinazione e coraggio, la furia della battaglia spesso la catturava, ma mai, se non contro Nanaja di Anzu, giorni prima, ma in quel momento il suo odio verso quella guerriera nera era, a dir poco, accecante.

La maschera d’argento, dono di Bao Xe in persona, il primo che le diede, quando a sette anni la salvò dalla vita nei sobborghi spagnoli, piccola ed orfana, per portarla al Santuario, la maschera che segnava l’inizio, per lei, di una nuova vita, una vita con un significato, quello stesso oggetto ora era al suolo, distrutto dall’oscura nemica.

Amaltea, dal canto suo, era sgomenta: il cosmo dell’avversaria era così ampio, così furioso, da rodere e divorare la corona solare cui l’aveva incatenata, tanto che, in pochi secondi, la sacerdotessa guerriero fu libera ed in piedi dinanzi a lei, sferrando il proprio attacco.

"Flechas Ardientes!", urlò Dorida, liberando una selva di dardi infuocati, che l’altra seppe evitare usando le proprie illusioni per spostarsi fra le stesse, portandosi alle spalle della sacerdotessa d’argento, che, però, non si fermò dopo la prima carica e, poggiato il piede sinistro al suolo, lo sfruttò per compiere una rapida rotazione del tronco, scatenando una seconda selva di frecce, che ancora una volta andò a vuoto.

"Non puoi colpirmi, sciocchina!", ridacchiò, riprendendo il controllo della propria sorpresa, la Nera Auriga, vedendo l’altra intanto congiungere le mani sopra il capo, "Flecha Grande de Fuego!", invocò allora Dorida, scatenando il massiccio dardo infuocato che corse furioso, invadendo l’intero ambiente fra le due avversarie.

Un urlo di dolore proruppe dal corridoio in fiamme, mentre la sagoma di Amaltea si schiantava al suolo, ferita, con le vestigia danneggiate, a seguito dell’incandescente attacco appena subito.

"Posso essere furibonda, Auriga Oscura, ma non pensare che sia sciocca! Come già ti ho detto: ripetere sempre lo stesso trucco non ha successo contro i cavalieri di Atena ed io, Dorida della Sagitta, di Atena sono un cavaliere!", ruggì decisa la sacerdotessa, lasciando di nuovo brillare il cosmo incandescente, "Ed ora prendi: Flechas Ardientes!", urlò ancora.

Nuovamente le immagini illusorie di Amaltea invasero lo stretto corridoio, ma, stavolta, la tempesta di dardi infuocati non fu una selva stretta e precisa, bensì un ventaglio, quasi un grosso parallelogramma che riempì il corridoio, sia dal basso, sia dall’alto, da sinistra verso destra, investendo ancora una volta la nera avversaria, che fu respinta indietro, ancora più ferita e sanguinante.

"Stupida ragazzina, mi hai stancato!", lamentò la nera guerriera, aprendo le braccia dinanzi a se, "Basileia Eliou!", imperò.

Per un breve istante, Dorida venne accecata, poi la luce parve attenuarsi, "No, anzi, si sta diffondendo…", pensò fra se la sacerdotessa di origini ispaniche, mentre tutto l’ambiente intorno a lei sembrava una pioggia di scintillante lastre di pura luce, lastre su cui si stagliava la nera corazza di Amaltea.

"Benvenuta nel Regno del Sole, piccola stupida!", la ammonì l’Auriga Oscura, la voce echeggiava, grazie alla naturale forma del corridoio e, assieme, al cosmo stesso della nemica, mentre il calore emesso da tutte quelle emanazioni luminose intorpidiva l’olfatto ed il tatto della sacerdotessa.

"Qui oggi cadrai, ingrata e sciocca seguace di una dea che reclama la tua femminilità, lasciandoti con poco più che una maschera ed un nome.", la accusò.

Passò qualche secondo prima che Dorida avvertisse un ronzio, un rumore costante, che sembrava provenire da ogni direzione contemporaneamente, un rumore ben presto affiancato dalle immagini, molteplici sulle fonti di luce, dei dischi neri che volavano contro di lei.

La sacerdotessa sollevò le braccia dinanzi al volto scoperto, cercando di proteggersi, ma subendo, inaspettatamente un primo colpo alla gamba sinistra, che cozzò contro le vestigia, prima che, dalla destra, un secondo fendente arrivasse sul fianco, incrinando l’armatura.

Quando, però, Dorida credeva che l’attacco fosse concluso, in un nuovo ronzio le lame tornarono indietro, affondando sull’addome, colpendo entrambe la corazza nel medesimo punto, danneggiandola e lasciando che, ad un terzo assalto, il medesimo punto venisse colpito.

La tempesta di colpi continuò ancora ed ancora, vibrando, ronzando, confondendo i sensi della sacerdotessa guerriero.

"Il Regno del Sole unisce la prigionia dei sensi ad un’elevata potenza offensiva: i miei dischi, catturati dai fasci di luce, vengono infatti scagliati con nuove traiettorie indietro, verso il bersaglio, intrappolandolo in una rete di lame letali, intrappolandoti in una rete di lame letali!", spiegò orgogliosa Amaltea, la voce che circondava da ogni parte la sacerdotessa.

Era confusa la discepola di Bao Xe, incapace di comprendere da dove provenisse l’attacco nemico, incapace di capire dove si trovasse l’Auriga Nera, capace solo di mantenersi in quella posizione di guardia che, ormai, lo sentiva dallo stridere delle lame sul corpo, avrebbe potuto difenderla per poco.

Un’unica idea passò per la mente di Dorida in quel momento, un’idea che, però, fu accompagnata da un ricordo del giorno prima, un ricordo di una breve discussione fra lei, la sua insegnante e Ninkarakk, inattesa amica scoperta in una terra sconosciuta.

Era stato mentre l’Ummanu di Khuluppu curava le sue ferite, Bao Xe era al suo fianco ed aveva notato le molteplici ustioni.

"Alcune sono frutto dello scontro con Nanaja, altre degli attacchi di Baal, questo è certo, ma una buona parte le hai autoinflitte con quella tua tecnica, sacerdotessa, un’arma davvero pericolosa da usare, specialmente se, nel farlo, togli la maschera, rischiando di bruciarti anche il volto.", aveva sottolineato l’Annunaki.

"Dovresti essere più accorta nell’uso della Freccia Cadente, Dorida. È utile, di certo, ma pericolosa, non potrai sempre approfittarne senza mai rischiare danni al tuo corpo. Ricorda: i cavalieri sono semplici esseri umani dotati di grandi poteri e le vestigia sono tutto ciò che permette ai nostri corpi di reggere a tale potenza, sia quando ci difendiamo, sia nel momento in cui attacchiamo.", aveva spiegato l’insegnante, poggiandole affettuosamente una mano sulla spalla.

"Non essere mai avventata nella battaglia, non usare a cuor leggero questa tecnica, non voglio che tu rischi la tua vita per niente.", aveva poi aggiunto la sacerdotessa della Musca e la rossa guerriera aveva leggermente chinato il capo, come faceva fin da bambina, rispondendo soltanto: "Sì, maestra."

Le risuonavano ancora in mente quelle parole, ma lo stesso Dorida si disse che non avrebbe potuto rispettarle nemmeno quel giorno, non completamente almeno, lasciando esplodere il proprio cosmo incandescente.

"Che cosa?", balbettò stupita Amaltea, mentre le vestigia nemiche prendevano fuoco, con alte fiamme che arrivavano a toccare il volto della sacerdotessa, "Flecha Llover!", invocò la stessa, liberando la potenza che distrusse al primo contatto i due dischi neri.

Fu allora che, prontamente, la sacerdotessa di Atena portò le braccia in fuori, lungo i fianchi e rilasciò tutta la potenza delle fiamme, che invase l’intero corridoio, liberando il suo corpo da tale nefasto potere, bruciando le lastre d’energia luminosa, mentre urla di rabbia prorompevano dalle labbra di Dorida, mescolandosi a quelle di dolore della sua nera avversaria.

Quando le fiamme si furono sedate, anche delle lastre di luce non rimase più niente: il corridoio era di nuovo immerso nelle tenebre, appena illuminato dai fiochi bagliori provenienti dalle due estremità, mentre il fumo dell’incendio appena esploso si dissolveva, lasciando che le due avversarie si guardassero l’una con l’altra.

La sacerdotessa della Sagitta era in piedi, le braccia ancora distese, sangue che scivolava dalle molteplici ferite inferte dai dischi neri, l’armatura danneggiata in modo evidente e, probabilmente, grave, il viso imperlato di sudore per la fatica di quel suo ultimo attacco.

La guerriera dell’Auriga Nera era anch’ella in piedi, ma si poggiava dolorante alla dura roccia sulla sua sinistra, del bel viso elegante e della dolce chioma restava un vago ricordo, per le ferite subite dalle fiamme e dagli altri attacchi dell’avversaria, le vestigia ormai ridotte a pochi frammenti semidistrutti sul corpo, le mani strette su un fianco sanguinante.

"Perché continui ad andare avanti, ragazzina? Perché non accetti il dono che ti offro? Ripudia la tua dea, ritrova la tua identità ed abbandona questo campo di battaglia!", propose Amaltea, ma Dorida fece solo qualche passo avanti: "Sei tu, forse, che non hai la forza per ripudiare ciò che sei diventata, per rinnegare l’odio che, ormai, ha sostituito l’amore che avevi per questo arciere di Apollo, semmai tu ne abbia mai provato alcuno.", fu la prima risposta dell’altra.

"L’amore è un sentimento incondizionato, è quello che muove tutti i veri seguaci della dea Atena, che ci spinge a rischiare indiscriminatamente la vita in battaglia, senza chiedere niente in cambio. È il sentimento che mi lega alla mia maestra, l’amore di una figlia per la madre, ciò che Bao Xe è per me.

Un sentimento che va oltre i semplici oggetti, ma di cui la maschera che lei mi donò è un simbolo della mia rinascita, del mio legame e delle speranze per il futuro, un futuro in cui io possa incontrare, magari un giorno, un uomo, guerriero o meno, degno di vedere ciò che si trova al di là della maschera, di vedere ciò che nascondo, oltre ciò che di me è già visibile a tutti, di vedermi nella mia completezza.

Tu non capisci, tu che fai dei sentimenti dei semplici legami dettati dalla natura fisica, tu non comprendi che quello è un simbolo di fede e speranza, prima ancora che di Giustizia, un simbolo della lealtà verso ciò in cui credo, non è una catena, ma una bandiera.", spiegò ancora la sacerdotessa di Atena.

"Menzogne, stupidaggini che ti sono state dette così tanto da indottrinarti a credervi! Ho pietà di te, piccola ed insulsa ragazzina, poiché sei tanto tonta da credere a tali menzogne!", la derise Amaltea, lasciando brillare il proprio cosmo, "Ed ora, addio, ti lascio da sola alle tue stupide credenze!", avvisò, pronta a scomparire, mentre decine di immagini residue la circondavano.

"Su una cosa hai ragione, Ombra: addio!", ribatté decisa la rossa guerriera, liberando la furia delle Frecce infuocate, che, nel loro impatto con l’ambiente, furono subito seguite da un urlo di dolore, prima che la sagoma dell’Auriga Nera riapparisse, pochi passi di fianco a Dorida, per poi cadere al suolo, in un bagno di sangue.

La sacerdotessa di Atene non si curò nemmeno d’avvicinarsi alla nemica, piuttosto raggiunse la maschera, spezzata in due segmenti, con diversi frammenti mancanti lungo il punto di rottura.

La soppesò fra le mani per alcuni secondi, prima di avvicinarla al viso e tenerla con la mano destra, mentre la sinistra strappava un segmento della maglia al di sotto delle vestigia, usandola poi come una sciarpa per tenere legata la copertura per il volto.

Solo quando fu conclusa quella semplice operazione, Dorida si voltò verso la nemica, per trovarla morta, al suolo, il viso deformato in una smorfia di dolore.

"Addio, Amaltea dell’Auriga Nera, che tu possa ritrovare l’uomo che amavi nell’Oltretomba, così che tu possa anche ricordare cos’è il vero amore.", concluse la sacerdotessa, avanzando poi lungo i corridoi del tempio di Eolo.

***

Aveva sentito il cosmo di Amaltea esplodere in tutta la propria potenza e già, poco lontano, aveva avvertito quello di uno dei suoi discepoli spegnersi: Icaros era caduto.

Medonte del Leone d’Oro Nero, però, non si preoccupò minimamente della fine che aveva fatto l’allievo, né tanto meno era interessato alla sorte di Iginio, che avanzava nella direzione opposta alla sua, diretto verso chissà quale battaglia.

No, per lui era importante solo la sua di battaglia, solo la possibilità che lui si dimostrasse per il fiero ed oscuro predatore che era, incutendo l’estremo terrore in tutti i propri nemici, dando la giusta morte a tutti i nemici che osavano portassi lungo la sua strada.

Aveva evitato di combattere il primo dei Dominatori dei Venti da loro incontrati, presso l’ingresso meridionale, aveva scelto di non restare indietro per combattere l’insulso cavaliere di Atena che era poi sopraggiunto, ma ora avrebbe finalmente combattuto la sua prima battaglia contro uno di quei seguaci di Eolo e dalla stessa sarebbe uscito vincitore. Di questo, ne era certo.

Tanto era sicuro di sé, il guerriero del Leone d’oro nero, che avanzò a testa alta e passo quieto, come una vera fiera che si trova dinanzi ad una pecora, quando varcò l’ingresso in quella sala, un’Anticamera, come gli aveva spiegato Luis, trovandosi dinanzi uno di quei guerrieri consacrati ad Eolo.

Per un interminabile secondo, i due si scambiarono uno sguardo, studiandosi vicendevolmente.

"Preparati alla battaglia, seguace di Eolo, hai dinanzi a te Medonte, il Leone d’oro scuro, il tuo prossimo carnefice!", imperò sicuro il nero guerriero, l’altro allargò le braccia determinato, "Sono Noto del Libeccio, piacere di fare la tua conoscenza, gattino.", ribatté, preparandosi alla battaglia.

Homines 8: La Coreana

L’Accadico era caduto, il Polinesiano era caduto, persino l’Africano, che era un membro di quel gruppo dapprima che lei ne facesse parte, era stato sconfitto; lei, il giorno prima, aveva guidato la Gaelica e l’Inuit all’assalto di un tempio isolato, dove un bambino consacrato ad Atena aveva perso la vita, per loro mano, ed una particolare polvere, utile per la creazione delle armature, era stata sottratta.

Tutto quello, però, era passato in secondo piano quel mattino, quando si era svegliata ed aveva osservato il suo uomo, così lo considerava, rivestirsi, preparandosi per la riunione di tutti loro.

Elegante e virile nel fisico, gli occhi dorati, i bei capelli scuri, i lineamenti regali, tutto di Temujin l’affascinava, persino la strana cicatrice che ne tagliava l’addome, una cicatrice che, avrebbe potuto giurare, ogni tanto sembrava solo leggermente curva, altri giorni, appariva quasi simile ad un ampio e sottile sorriso sul suo stomaco.

L’uomo, che lei sapeva provenire dalla Mongolia, si voltò a guardarla e lei gli sorrise, certa della sua bellezza, ancora sul talamo che dividevano, "Preparati, mia Regina, oggi sarà un grande giorno per il nostro progetto!", esclamò lui, sicuro.

"Abbiamo perso l’esercito d’Africa, come potrà essere un grande giorno?", chiese lei, curiosa, mettendosi supina sul letto, lui le si avvicinò, rubandole un bacio, "Sarà un grande giorno perché Loki e Chi Yu spingeranno per l’entrata in campo delle Ombre prigioniere e questo distrarrà a sufficienza i nostri nemici.", spiegò lui.

"Le Ombre? Quindi sarà Giano a guidare l’assalto e la gloria spetterà ancora all’Inuit ed alla Gaelica, oltre che alla Greca ed all’Etrusca? Ed io?", domandò l’altra di rimando, stizzita, ma un sorriso furbo si dipinse sul volto dell’uomo.

"Tu avrai la gloria più grande: guiderai l’attacco che nessuno dei nostri nemici vedrà, che nessuno di loro si aspetterà! Un attacco di cui, per ora, solo io, Giano, Loki, Chi Yu e l’Egiziana sappiamo.", concluse, lasciando l’altra con una mordente curiosità, mentre lo vedeva allontanarsi.

Un’ora dopo, quando alla fine della riunione, nove degli Homines lasciarono il tempio sull’Isola di Pasqua, il Norreno e la Coreana si guardarono fra loro e fu allora che Temujin fece un passo avanti.

"Confratelli, la giornata di oggi non vi vedrà oziosi, non temete.", esordì, "Poiché come ben sapete, abbiamo ormai piegato i pantheon dell’Asia e dell’Africa, oltre a quelli dell’Oceania, pochi di quelli più deboli ancora ci mancano, ma, più di loro, quattro pantheon maggiori dobbiamo ancora assorbire, dando loro la giusta punizione.

Il primo, il pantheon degli Olimpici, affronterà oggi il suo giudizio, grazie all’attacco delle Ombre; il Regno degli Asi, così come il maggiore ad Occidente, dovranno attendere ancora qualche giorno, ma oggi si metterà in moto il processo che porterà alla loro conquista, grazie ai nostri confratelli provenienti dai loro culti.

Un ultimo bersaglio, però, sarà attaccato in questa lunga giornata: le sabbie d’Egitto sacre al cosiddetto Ra.

L’Egiziana ci ha già spiegato quali forze vi aspettano e la Coreana vi guiderà in questo attacco, iniziando lei stessa il rituale, mentre voi, Giapponese, Azteco ed Indiano, vi occuperete di sconfiggere i quattro soldati che ancora difendono quei luoghi.", spiegò secco Temujin, espandendo il proprio cosmo e lasciando che i cinque Homines da lui elencati ne venissero assorbiti.

Quando erano arrivati in quelle terre sabbiose, così diverse dalle belle coste della Corea dove lei era cresciuta, la "Regina" aveva osservato con dispiacere a quei luoghi, seguendo le indicazioni dell’Egiziana fino al luogo dove, a suo dire, si trovava la Piramide Nera, sede del potere cosmico degli dei dell’Enneade.

Non fu una sorpresa per la loro guida trovare un esercito di cadaveri, avvolti da sporche bende, ad attenderli: "Le mummie animate dal potere di Anubi, signore dell’Oltretomba, comandante dal Faraone di Vepvet.", spiegò anzi la loro consorella.

"Faraone di Vepvet?", chiese incuriosito un altro di loro, il Pellerossa, i sottili e folli occhi rossi che si volgevano ad osservare i corpi morti avanzare, "Sì, uno dei quattro Pharaons rimasti, rispetto ai sette originari di alcuni anni fa; probabilmente ci aspettano oltre questa piccola armata di non morti.", spiegò con tono pacato la donna, "Sarebbe la strategia più logica.", concluse.

Fu dopo quelle parole che la Coreana si fece avanti, "Quindi ci mandano contro queste pedine per non sprecare subito i propri pezzi migliori su questa sabbiosa scacchiera?", ridacchiò beffarda, "Bene, è tempo che gli mostri quale è il potere della Regina dunque!", sentenziò decisa, agitando l’ampio mantello alle sue spalle, lo stesso che già il giorno prima portava con se, durante l’assalto al Jamir.

"Cadaveri senz’anima, vi suggerirei di tremare ed implorare pietà, ma ben inutile uso del mio tempo sarebbe, dunque ecco, accogliete l’ultima spiaggia del vostro viaggio!", imperò la donna ed il mantello parve vibrare d’energia cosmica, un’energia che nacque dal corpo di lei e, attraverso l’indumento, s’espanse fino ad invadere le sabbie stesse del deserto, oscurandole, rendendole simili al cielo notturno, adornate da poche brillanti stesse, un cielo su cui le mummie avanzavano, prima di esserne, improvvisamente, inghiottite.

Ci fu il silenzio, un lungo minuto in cui il cosmo della donna si quietò, rivelando subito dopo quattro figure, in nere vestigia, in piedi a diversi metri dai cinque Homines.

"Le battaglie sono vostre, confratelli, io mi occuperò di sigillare queste divinità delle sabbie.", ordinò decisa.

In fondo, lei era la Regina, lei era Yuhwa, la Coreana.