Capitolo 18: Le forze in movimento

"L’ho trovato! È qui!", una voce di donna spezzò il silenzio di quella biblioteca antica, una voce che guidò un massiccio uomo fino all’ampia sala.

"Ninkarakk, Aruru, cosa succede?", chiese il giovane uomo, allontanandosi dalle mappe che aveva distribuito su ampi tavoli, volgendosi verso le due figure che ora stavano sulla soglia della biblioteca.

Subito i due s’inginocchiarono, "Sire Marduk, non la trovavamo, da diverse ore ormai.", spiegò con tono di scusa la fanciulla, "Pensavamo fosse a riposarsi, in ciò che resta dei quartieri degli Anunnaki ad Anduruna, ma non era lì.", aggiunse l’altro.

Il Re di Smeraldo sorrise ai due sudditi, anzi, più correttamente i due compagni, gli unici che gli erano rimasti dopo le lunghe battaglie scatenate dagli inganni di Sin e Baal, inganni che avevano distrutto quanto di più caro lui avesse mai avuto, uccidendo i suoi afferri: Ea, il maestro saggio che lo aveva cresciuto come un padre; Mummu, la giovane che aveva preso il suo cuore; Girru, Nusku e Kusag, fedeli guerrieri dell’esercito degli Anunnaki; e poi Enlil, il Sovrano Scarlatto, il piccolo e gentile Adapa e tanti altri Ummanu erano caduti in quei giorni passati, alcuni più meritevoli di altri di sopravvivere.

Solo loro tre erano rimasti, unici sopravvissuti di un ordine millenario, solo loro tre si erano salvati, grazie anche alle azioni dei cavalieri di Atena e, adesso, Marduk voleva ricambiare tale debito.

"Cosa fate qui, maestà?", domandò allora il guerriero del Golem, scrutando le mappe disposte sui tavoli: la biblioteca di Accad, la grande Capitale, non si trovava all’interno del palazzo di Anduruna, ma in una delle strutture limitrofe, per questo era sopravvissuta alla guerra dei giorni passati senza subire danno alcuno.

"Ho ripensato alle parole di uno di quei cavalieri di Atena, uno dei due giunti in seguito, sulla Torre di Babele, dove sembra che i compagni di Baal abbiano attinto per alcuni dei loro blasfemi rituali.", spiegò il Sovrano di Smeraldo, "Sì, sire, ricordiamo cosa ci raccontò quel uomo, Abar di Perseo.", confermò anche l’Ummanu di Khuluppu.

"Esatto. Ho ricordato alcuni vecchi racconti di Ea su quel luogo, su come fosse stato creato dai Re degli Uomini di queste terre, seguaci delle antiche divinità che avevano abbandonato i culti politeistici per unirsi alla fede verso l’Unico, ma la cui ambizione li aveva portati a cercare di superare il potere persino dell’Ancestrale.", spiegò Marduk.

"Ricordo un racconto del genere, nei giorni in cui il saggio Ea mi addestrava nella riparazione delle armature…", accennò con tono sorpreso Aruru, "Sì, l’anziano Saggio era solito condividere parti della propria conoscenza con tutti noi, anche quando mi aiutava nella preparazione di impacchi medicinali e nella catalogazione di erbe e cure, amava raccontare storie della nostra cultura e della nostra terra.", ricordò con malinconia Ninkarakk.

"Sì, era nella sua natura.", confermò con un sorriso il Sovrano, indicando poi le mappe, "Ho cercato in tutti i testi più antichi di queste terre e ho trovato una traccia, un percorso che porta verso le terre dell’estremo Est, rispetto ai confini di quello che era allora il regno degli Accadici.", iniziò a raccontare loro.

"Di certo il Coccodrillo Nero aveva memoria di queste mappe; quando fu esiliato, venne scacciato verso Oriente, oltre le terre degli Ummanu, ma, verosimilmente, per non allontanarsi troppo dalle nostre terre, assetato del potere com’era da sempre, Tiamat deve aver curvato verso settentrione.", ipotizzò il Sovrano di Smeraldo.

Aruru e Ninkarakk ascoltarono con attenzione le parole del loro Re, seguendo la mano che disegnava con i gesti dei possibili percorsi lungo le mappe, "Per ora sono solo ipotesi, ma in breve avremo una direzione, un luogo da raggiungere ed in cui combattere.", spiegò ancora Marduk.

"Combattere, Maestà? Torneremo dunque sui campi di battaglia?", domandò il guerriero del Golem, speranzoso di poter affrontare chi aveva causato, indirettamente, tanto dolore alla sua gente.

"Sì, mio buon amico, ben presto combatteremo. Oggi ripareremo le vestigia che ci sono rimaste e poi riposeremo, preparandoci alla partenza ed in meno di due giorni mostreremo ai Ladri di Divinità, come i servitori del Divino Giudice Shamash siano uomini che combattono per il bene del mondo e delle genti tutte!", propose il Re della Corona, poggiando una mano serenamente sulla spalla dell’altro.

Gli Ummanu sarebbero ben presto tornati sui campi di battaglia.

***

"Fantasma Diabolico!", urlarono all’unisono le due voci di Kaal e Diana, lanciandosi all’attacco contro Libra Oscuro, "Che siate due, cento, o mille, questo attacco non può avere effetto alcuno su di me! La paura può piegare la volontà dei guerrieri neri, dei soldati di qualsiasi esercito, ma non quella di una divinità! Né quella di chi il potere degli dei tutti sa assorbire, fra gli Homines, io sono il Cinese, la Belva, lo Stratega, il Guerriero per eccellenza.

Forse un tempo questo ruolo condividevo con il Leone d’Africa, ma ora non più!", ruggì colui che un tempo era Lao Qi.

"Davvero, confratello?", domandò d’improvviso una voce alle spalle della Bilancia Oscura, che, voltandosi, trovò davanti a se la massiccia e nera sagoma di Ogum, il Leone d’Africa, dal fiero e valoroso cosmo.

"Per questo mi hai raggiunto, assieme al Norreno, per deridermi e dimostrare la tua superiorità come signore della Guerra nelle nostre schiere, non è vero? Loki, lui è un folle che anela il Cambiamento, che trova divertimento nella casualità e nel disordine, ma tu, Chi Yu, tu hai visitato l’Avaiki, ieri, solo per rimarcare la tua superiorità.", lo accusò il Re d’Africa.

"Proprio come hai deciso di tradire il nostro maestro ed uccidermi per quello stesso motivo! Puoi dire a te stesso che volevi convincermi a seguirti, ma sappiamo entrambi la verità, Lao Qi, per quanto fossimo fratelli, il tuo unico desiderio è sempre stato primeggiare e lo è tuttora!", aggiunse una seconda voce, quella del suo passato compagno d’addestramenti ai Cinque Picchi, Lei-Ho.

"Per lo stesso motivo hai scelto di prendere per te l’armatura della Bilancia d’oro nero, per primeggiare come e più del tuo stesso maestro fra noi guerrieri oscuri!", aggiunse la sagoma di Titos dei Black Four.

"Cosa succederà quando deciderai di ribellarti ai tuoi attuali compagni?", domandò Lei-Ho, "Cosa accadrà se tenterai di primeggiare sugli Homines?", incalzò Ogum, "Credi di poter vincere contro Gemini Oscuro?", suggerì Titos.

I tre lasciarono esplodere i loro cosmi, ma grande fu il ruggito di Chi Yu, nel liberare delle belve di scarlatta energia, che dispersero quelle tetre illusioni, lasciandolo in piedi, dinanzi ai suoi due avversari.

"Dopotutto, non sei poi così potente da vincere i cosmi di due guerrieri!", chiosò la sacerdotessa della Fenice, il cosmo infuocato e deciso, accanto a lui, sicuro ed impavido, l’ultimo dei Custodi ancora in vita.

"Abbiamo giocato abbastanza, ragazzini, vediamo di chiudere per sempre questa battaglia! Ho impegni più urgenti da assolvere, come la lezione da dare al mio passato insegnante.", ringhiò furioso il Cinese, liberando il cosmo scarlatto e lasciando che vorticasse sulla nera lancia biforcuta.

"Ben poco potrai fare, guerriero nero! Ali della Fenice!", invocò Diana, liberando l’immortale Rapace, mentre già un’ondata di calda e luminosa energia s’espandeva dalle mani di Kaal, incrementando il potere dell’attacco della sacerdotessa di bronzo.

"Non volete proprio imparare…", rise divertito Chi Yu, "Long Paoxiao!", urlò, liberando l’energia attraverso la nera lancia, perforando e disperdendo il duplice attacco dei suoi avversari, prima di scagliare l’oscura arma contro di loro.

"Diana!", urlò subito l’ultimo dei Custodi, avvedendosi dell’arma in volo ad una velocità spaventosa e con prontezza si portò a difesa della sacerdotessa guerriero, lasciando che l’oscuro strumento di morte perforasse il suo addome, schiantandolo contro la dura roccia alle spalle.

Urla di rabbia scaturirono dalla maschera della sacerdotessa di bronzo, che balzò alta in cielo, circondandosi con il cosmo infuocato, "Ali della Fenice, distruggete il nemico!", imperò furibonda, scatenando ampie vampe addosso alla Bilancia Oscura.

Per alcuni secondi le risa di Chi Yu echeggiarono attraverso il fuoco, ma le fiamme furono ben presto ghermite, circondate da belve dalle più variopinte forme: un drago rosso, una tigre assetata di sangue, una massiccia e scarlatta carapace e, infine, una fenice, del medesimo colore delle altre tre bestie, che sembrarono tutte assieme prendere potere da quelle fiammate.

Quando le risate cessarono, anche le quattro belve scomparvero, assieme alle fiamme, assorbite dal Cinese degli Homines, che osservò con ironica soddisfazione la sacerdotessa che ancora scendeva in una veloce picchiata contro di lui, pronta a colpirlo con il tacco sinistro.

Chi Yu fu però più veloce, bloccando la gamba dell’altra, roteandola a mezz’aria per ben due volte, mentre ondate di rossa energia dilaniavano armatura e gamba della donna, per poi schiantarla con violenza contro la medesima roccia su cui, ancora, era impalato Kaal.

Fu mentre si rialzava, che Diana vide la maschera dei Custodi sollevata da un cosmo tetro e malefico, tale da rivelare il volto dell’ultimo figlio del suo defunto maestro, occhi azzurri e tristi, ma ancora vivi, seppur stentatamente.

La maschera scivolò fino ai piedi di Gemini Nero e dell’uomo che lo affiancava, lo stesso che disse alla Bilancia Oscura: "Eliminali, Cinese, abbiamo giocato abbastanza.", ordinò.

Dinanzi alla comprensione dell’abisso che la dividevano da quei nemici ed alle condizioni in cui versava Kaal, Diana strappò via la lancia dalla spalla del giovane ed avvolse entrambi nel proprio caldo cosmo.

"Ci sarà tempo per combatterci di nuovo, guerrieri neri, ben presto il Santuario intero si scatenerà contro di voi.", avvisò sicura, "Al contrario, ben presto il Santuario intero sarà distrutto e voi con loro!", ruggì Libra Nero, scatenando ancora una volta il Ruggito del Drago, che spazzò via l’intera montagna, non lasciando niente dietro di se.

Solo i tre Homines erano ormai rimasti sull’Isola della Regina Nera e subito si disposero in circolo attorno alla maschera distesa al suolo.

La cattura degli dei di Grecia era sempre più vicina.

***

Homines 9: Lo Slavo

Quando era giovane, aveva vagato per il mondo, per dieci anni era stato lontano dalla propria casa, nelle terre della Transilvania, aveva viaggiato in cerca della conoscenza, quella conoscenza che gli permettesse di diventare un uomo famoso in tutto il mondo ed alla fine aveva capito: la fama maggiore proveniva dalla guerra.

Lui, però, non era un combattente, no, lui sarebbe rimasto nella Storia per le vestigia che sapeva creare! Per questo aveva studiato dai maggiori esperti di metallurgia dell’Europa del tempo, spingendo anche in Asia, fino a sentir narrare storie e storie su di un popolo capace di forgiare vestigia che andavano oltre le umane comprensioni.

Aveva letto testi, per lo più apocrifi, su questi misteriosi saggi e tutti parlavano di un dono di sangue necessario per tali opere.

Questi i pensieri del giovane uomo, una volta tornato nelle proprie terre, mentre parlava, in una ricca sala da pranzo della sua famiglia, con alcuni invitati degli avvenimenti degli ultimi mesi.

"Sì, vi dico, si dice che Vlad il Sanguinario sia tornato in vita! Hanno trovato decine e decine di cadaveri dissanguati! Dei veri e propri salassi, ma del loro sangue? Nemmeno una goccia.", raccontava uno, "Solo un mostro, fra i più folli che gli Inferi possono sputare fuori, potrebbe fare qualcosa del genere!", aggiunse un secondo. E lui nel frattempo pensava come quel sangue fosse di pessima qualità, quanto inutile fosse stato sperimentare un metodo per assorbire il sangue degli uomini se poi quella stessa linfa non fosse per nulla utile ai suoi progetti.

Per un lungo periodo, la debolezza del sangue umano lo aveva martoriato, disperatamente aveva cercato di scoprire come forgiare vestigia degne di tale titolo, solo dopo altri anni di studi e sperimentazioni, era stato raggiunto da coloro che gli avevano offerto la vera conoscenza.

Adesso era lì, nelle fucine sotto l’Isola di Pasqua, così com’era chiamato quel luogo, intento a lavorare per la sua massima creazione, le armature di tutti gli Homines!

Ogni colpo del martello sulle piastre di metallo echeggiava come un tuono in cielo, scuotendo le fondamenta dell’isola!

Il sangue dei guerrieri di bronzo nero, i frammenti delle vestigia che furono degli eserciti di Inti e di tutti quelli distrutti nell’avanzata dell’Armata d’Africa, la polvere di stelle presa nelle valli del Jamir e, su tutto, una parte del cosmo rubato agli dei di tutto il mondo, che infondendosi nel sangue dei mortali, ne aumentavano il potere rendendolo un ottimo sostituto di puro Ichor divino.

Con questi mezzi aveva già iniziato la forgiatura delle loro vestigia, di cui alcuni segmenti, sparsi attorno a lui, stava ora osservando: una nera testa di cane, che sarebbe diventata una spaventosa spalliera; un pettorale fatto di piume d’oro; una testa di capra, bellissimo elmo per una guerriera dalla perfida bellezza; il possente segmento di un’armatura bianca, umanoide; la coda di uno scorpione, ottima copertura per un avambraccio; e tanto altro ancora.

Quelle sarebbero state le sue creazioni e, su tutte, l’argento e massiccio martello che ben presto avrebbe impugnato, non più per forgiare vestigia, ma per essere ricordato nella Storia!

Questo il suo sogno, questa era la sua essenza, l’essenza dello Slavo, colui che si faceva chiamare Svavog!

***

Quando era diventato uno dei guerrieri neri a comando delle schiere d’argento oscuro, il suo maestro, Luis, gli aveva rivolto poche parole di consiglio, come aveva spesso fatto negli anni, sia con lui, sia con Kirin e Yuri, che egualmente erano finiti sull’Isola Prigione per motivi differenti.

"Ricordati, Akab, voi quattro non siete soltanto i più potenti fra gli uomini d’argento oscuro, ma siete anche, e soprattutto, coloro che devono guidarli, quando noi d’oro nero non siamo presenti.

Ricordalo sempre, perché non so quanto i tuoi pari si preoccuperanno del bene del nostro esercito: Tolué mette la propria fama al di sopra di ogni altra cosa, una fama che vede come necessaria per onorare il proprio insegnante; Syrin, per quanto anche lei discepola di Virgo Oscuro, è piuttosto superba, incapace di vedere oltre le azioni del momento; Omega, invece, è una belva sanguinaria, creato dall’odio e dalla rabbia, assetato di uccidere e di vendetta, una sete che supera quella di chiunque altro fra noi. È probabilmente il più pericoloso di tutti voi.", concluse con tono perentorio.

Quei pensieri lo scuotevano mentre osservava Ariete Nero, il cosmo immenso, normalmente silenzioso e celato ai sensi di tutti, che ora pareva quasi un vento in tempesta, quasi parte stessa dell’intero tempio di Eolo, qualcosa che, il guerriero della Vela Oscura, proprio non riusciva a credere possibile.

Aveva avvertito le battaglie nell’Ingresso di Tramontana, la sala dov’era arrivato poco prima assieme ad altri tre compagni e proprio due di quei compagni, Nesso e Viktor, erano ormai caduti contro la Dominatrice dei Venti del Nord e l’inatteso supporto che uno dei guerrieri di Atena le aveva dato.

Akab non poteva non lodare il coraggio di quella ragazzina di nome Oritia, che aveva affrontato ben due guerrieri neri, sconfiggendoli, ma morendo nel farlo.

Ora avvertiva la restante presenza del cavaliere di Atena dirigersi verso le sale centrali.

Dall’ingresso di Ponente, invece, erano arrivati Pesci Neri, ora nella sala centrale con loro, e tre delle Cinque Bestie dell’Isola; due, li aveva avvertiti, erano morti combattendo contro un altro dei Dominatori di Eolo ed il santo di Atena giunto in suo soccorso, mentre già Kirin, suo compagno d’addestramenti, a detta della guerriera d’oro oscuro, stava per affrontare in battaglia uno dei restanti seguaci dei Venti.

All’ingresso di Ostro aveva avvertito scoppiare furioso il cosmo di Kurnak, che aveva saputo vincere un altro dei Dominatori, evitando lo scontro con uno dei seguaci di Atena, lo stesso che, poc’anzi, aveva avuto ragione di Amaltea dell’Auriga Oscura, mentre già il Leone Nero ed il suo allievo restante di quel quartetto si dividevano per le diverse anticamere.

La zona che, però, maggiormente interessava Akab, era quella di Levante: da lì s’era introdotto il suo maestro, Luis del Sagittario Nero, assieme ad altri tre guerrieri oscuri, fra cui Syrin, sconfitta dall’unione di due dei santi di Atena, fin lì giunti.

Ora, però, avvertiva lo scontro di un altro dei Dominatori dei Venti contro qualcun altro dei suoi oscuri compagni, mentre già la presenza del maestro era scomparsa da quelle sale, così come poco prima era riuscito a scomparire lui, assieme all’Ariete Nero.

Tutte le forze in campo ancora si muovevano e molti scontri stavano per scoppiare nelle varie Anticamere dei Venti, ma la vera preoccupazione di Akab era la quantità di suoi compagni che stavano cadendo in quella battaglia.

***

La preoccupazione di Dauko, Vecchio Maestro e cavaliere della Bilancia, era immensa: ancora una volta non poteva fare niente di più che rimanere ad osservare, così com’era stato nelle passate battaglie, poiché più alto era il suo compito, più importante di ogni altro.

Ma era vero questo? Sentiva gli scontri in tutta Atene: avvertiva la battaglia spostarsi lungo le Dodici Case; dopo la Prima e la Seconda, ora anche la Terza era soggetta ad un violento scontro e, probabilmente, ben presto anche la Quarta lo sarebbe stata.

Avvertiva le strade di Rodorio dove ancora si combatteva, dove già un giovane cavaliere di bronzo aveva sacrificato la propria vita ed altri, forse, lo avrebbero ben presto raggiunto.

Avvertiva le battaglie che si scatenavano nella Grande Arena dei Tornei, dove, dopo due vittorie per mano di cavalieri d’argento, ora un terzo scontro si stava prospettando loro, mortale quanto i precedenti.

Più di ciò sentiva i cosmi che stavano muovendosi per giungere in aiuto dei compagni: quello di Amara, che dall’Altura delle Stelle stava scivolando verso i luoghi delle battaglie; quello del cavaliere che poc’anzi aveva concluso una battaglia furiosa vicino alla Meridiana dello Zodiaco, quelli dei suoi due discepoli, che stavano solcando l’entroterra dell’Asia, diretti verso la Grecia.

E, ancora, sentiva le battaglie che ancora si combattevano in altre terre, oltre l’Italia, nelle sperdute isole del mondo, lì dove venivano imprigionate le Ombre criminali e nel luogo dove alcuni aspiranti cavalieri venivano addestrati da uomini valorosi come Edward di Cefeo.

In Siberia anche si combatteva da tempo, il cavaliere dell’Acquario ed i suoi discepoli si difendevano strenuamente, come i guerrieri sull’Isola di Andromeda e più degli ormai sconfitti ultimi difensori della Regina Nera.

Su tutto, però, sovrastava il senso di timore del cavaliere di Libra, la consapevolezza che, come già successo a Shamash e tutti gli dei di Accad, come accaduto ad Ukupanipo ed alle divinità della Polinesia ed a qualsiasi altra entità lungo il Sud dell’Asia, mentre avanzava l’esercito d’Africa, adesso anche le essenze delle divinità dell’Olimpo e dell’Egitto sembravano prossime ad essere assorbite dalla fame di potere dei Ladri di Divinità.

Era giusto che lui restasse lì, a Goro-Ho? Controllando delle anime rinchiuse, sigillate da quasi duecento anni e che ancora per molto avrebbero dormito? Era suo dovere seguire gli ordini di Atena, dopo tutto quel tempo, o il suo primo dovere era correre in soccorso di allievi, amici e compagni, in soccorso della sua stessa dea, contro la brama e la follia di un piccolo gruppo di uomini?
Questo dubbio dilaniava la coscienza di Dauko, ma ben poco poteva fare in tal senso, se non pregare gli dei tutti ed attendere l’esito di quella guerra, poiché era nella sua natura rispettare gli ordini ricevuti.

***

Quando uscirono dalle fresche acque dell’Oceano, Moko di Tiki iniziò subito a lamentarsi: "Ti rendi conto che potevo finire affogato, gigantesco pazzo?"

La mano di Toru dello Squalo Bianco lo bloccò per la bocca, però, prontamente, "Potrei farti affogare adesso, se non la smetti di lamentarti in questo modo!", avvisò deciso, sollevandolo da terra con la sola forza di un braccio.

L’altro parve tranquillizzarsi, mentre un rumore di passi catturava l’attenzione dei due litiganti e dei loro compagni di viaggio: una sagoma, mastodontica, tale persino da superare di alcune spanne il massiccio comandante dell’Avaiki di Ukupanipo, si palesò da una grotta poco lontana dalla costa dove i quattro guerrieri dalle vestigia bianche erano giunti.

Non indossava armatura alcuna, il corpo era segnato dagli anni, ma, malgrado ciò, era evidente la possanza celata in quei muscoli mastodontici, così come la bontà insita in quel gentile sguardo.

La mascella era larga e, quasi, rettangolare, ricordava quella di una vera e propria balena, in un modo persino buffo, i capelli, bianchi, erano corti e radi sul capo dell’uomo, la pelle abbronzata e segnata da diverse cicatrici sulle mastodontiche braccia e sul petto nudo.

L’anziano gigante guardava i quattro con i suoi sottili occhi azzurri come il mare, "Da molto non vedo più uno dei sacri Eroi della Polinesia, da quando, qualche anno fa, Tiotio ed Afa vennero a farmi visita, per dirmi che stavano ritirandosi dal comando dell’Avaiki.", esordì il massiccio uomo.

La guerriera della Tartaruga Marina s’inginocchiò subito, "Nobile Oro, la salutiamo, io sono Arohirohi, allieva della venerabile Tiotio della Piovra.", iniziò a dire la ragazza, ma un gesto dell’altro la zittì subito.

"So bene chi sei, la tua maestra mi ha raccontato tutto degli anni di addestramento, così come ha fatto lo Squalo Tigre, di cui tu, ragazzo, immagino sei l’allievo che è diventato nuovo comandante dell’Avaiki, giusto?", domandò il gigante, indicando il più massiccio dei presenti.

"Sì, sono Toru, lo Squalo Bianco.", confermò l’altro, avanzando verso di lui, "E loro sono Tawhiri della Torpedine e Moko di Tiki, comandante dell’Avaiki di Pili ed unico sopravvissuto dello stesso.", aggiunse, presentando gli altri compagni.

"Unico sopravvissuto?", ripeté turbato il gigante, "Dunque i miei sensi non m’ingannavo? La guerra ha dilaniato gli Avaiki?", chiese, quasi a se stesso, sedendo su un macigno poco distante, "Così tante vite ho avvertito spegnersi in un tempo tanto breve e non solo loro…", balbettò, cercando nei volti degli allievi dei suoi passati compagni qualcosa che fosse l’opposto di una conferma, che, invece, trovò.

"Dei nemici molto particolari ci hanno attaccato, aiutati da un grande esercito, proveniente dalla lontana Africa.", rispose per prima Arohirohi, "Nemici capaci di assorbire e rubare, per rendere propria, l’essenza stessa delle divinità.", spiegò.

"Come una pestilenza, sulla scia del Nero esercito che ci ha assalito, si sono mossi, colpendo le terre dell’Asia, fino alle Filippine e poi giungendo da noi ed investendoci con tutta la violenza dell’africana armata, una violenza a cui abbiamo saputo rispondere, ma che è stata incrementata dalla presenza di traditori fra le nostre stesse schiere, traditori che hanno ucciso i loro compagni seguendo un falso sogno di libertà e rinascita per la Polinesia.", aggiunse rabbioso Toru.

"Anche adesso, lo avverto chiaramente, stanno agendo, concentrando la loro attenzione sulla Grecia e sul bacino del Mediterraneo, ambiziosi e desiderosi di piegare ogni divinità al loro potere.", continuò la Tartaruga Marina, "Proprio dalla Grecia sono giunti gli aiuti di alcuni guerrieri, consacrati alla dea della Giustizia di quelle terre, aiuti che ora non potremo ricambiare.", affermò, prima che fosse lo Squalo Bianco a farsi di nuovo avanti.

"Non così ridotti: in quattro, stanchi e privi di vestigia degne d’essere indossate. Per questo siamo fin da te giunti, Oro dello Squalo Balena, perché sappiamo che tu ed il tuo discepolo siete l’unico aiuto che possiamo ricercare per continuare questa guerra e vincerla! Per liberare il divino Ukupanipo e tutte le altre divinità della nostra terra!", propose il massiccio comandante.

"Mi chiedi di tornare a combattere?", domandò sbalordito l’anziano, "Sono vecchio e da tempo ho scelto la non violenza.", aggiunse.

"Hai scelto la non violenza? Il mondo è stato privato delle divinità che più l’amavano! L’oceano è un luogo vuoto adesso, dove i pesci vagano meno lieti perché Ukupanipo è stato loro rubato! E tu rifiuti di compiere il tuo dovere perché hai scelto la non violenza?", ruggì sconvolto Tawhiri.

"Ho avuto la mia guerra, ragazzo! Ho visto i miei compagni bruciare nel fuoco della guerra che dal Giappone proveniva! Non ho bisogno di vedere altri Areoi morire!", ribeccò il gigante.

Una risata scoppiò allora dalle labbra di Moko, "Non hai bisogno di vedere altri Areoi morire, vecchio? Questo pensi che vogliamo noi? Ero comandante di un intero Avaiki, e Toru come me, ed abbiamo visto tutti i nostri compagni cadere, tutti quei giovani che in noi credevano con così grande ardore sono morti, uno dopo l’altro, per mano non solo di nemici, ma anche di quelli stessi amici che, pensavamo, ci avrebbero difeso, protetto!", esclamò, il viso rigato dalle lacrime.

"Sai cosa vuol dire una cosa del genere, vecchio? Hai avuto la tua guerra, è vero, contro un nemico leale, qualcuno che ti attaccava sul campo di battaglia frontalmente, forse con qualche sotterfugio, ma non con individui così abbietti da scatenarti contro i tuoi stessi compagni, così vili da mandare centinaia di giovani, da tutto il mondo, al massacro, solo per ottenere tempo a sufficienza per rubare il mondo della sua stessa essenza, delle divinità che lo rendono unico e sempre diverso!", aggiunse furioso l’Areoi di Tiki.

"Certo, vogliamo vendetta, ma, e credo che tutti concordino con me, siamo saturi di morte e sangue sulle nostre mani ed attorno a noi! Combattiamo non per il piacere di farlo, ma per il dovere che abbiamo verso compagni ed amici!", concluse con voce spezzata.

"Belle parole, Areoi! Mi hai quasi convinto!", esclamò allora una nuova voce, giovanile, prima che un altro individuo uscisse dalle grotte alle spalle di Oro.

Era un ragazzo dal bello aspetto, i lineamenti erano chiaramente meticci: aveva la carnagione e la fisicità di un uomo della Nuova Zelanda, di poco meno robusto di Toru stesso; i capelli corti e biondi ne indicavano il ceppo europeo, così come gli occhi, di un elegante colore verde.

Non portava armatura, ma alla cinta teneva legate due fruste dalla robusta impugnatura.

"Tuo nipote? Il ragazzo con l’ultima delle vestigia sacre ad Ukupanipo?", domandò Arohirohi con un sorriso cordiale, "Sì, esatto, Tuifi, ultimo degli Avaiki, assieme a mio zio, qui presente.", si presentò con un soddisfatto sorriso l’uomo.

"Ultimo? Ragazzo, siamo in sei qui.", lo corresse subito Moko, "Non mi sembrate poi così adatti al vostro ruolo, dato come avete lasciato morire tutti gli altri nostri compagni!", li accusò con fare superiore il ragazzo.

Subito Oro si alzò in piedi, "Chiedo scusa per mio nipote, è giovane ed avventato, non sa come s’agisce fra compagni, sono sempre stato il suo unico esempio e maestro.", esclamò prontamente l’anziano.

"No, in fondo ha ragione, è giusto che critichi il nostro modo d’agire.", ribatté Arohirohi, volgendo uno sguardo a Toru ed accennando un sorriso, prima di continuare: "Mi chiedo, Tuifi, ti reputeresti migliore nel comandare le truppe degli Areoi? Pensi che avresti potuto evitare tutto ciò?", domandò in modo cortese.

"Certo, avrei saputo fare meglio di entrambi i vostri comandanti qui…", rispose quello con superiorità, "Bene, ragazzo, allora vediamo se è vero ciò che dici!", esclamò allora Toru, lasciando che, in un’esplosione d’energia, le vestigia dello Squalo Bianco abbandonassero il suo corpo.

"Se dimostrerai che puoi comandare meglio di me, di essermi superiore, rinunceremo al nostro piano, altrimenti, tu e tuo zio dovrete accettare di seguirci!", propose subito il gigante.

"Aspetta…", ebbe appena il tempo di balbettare Oro, cui la situazione stava sfuggendo di mano, "Accettiamo!", esclamò subito il nipote, sorridendo pronto allo scontro.

"Un modo poco convenzionale, ma forse potremmo trovare ancora l’aiuto sperato…", bisbigliò allora Moko di Tiki, di fianco a Tawhiri, in attesa di osservare quella piccola inattesa disputa.

***

Homines 10: L’Azteco

L’Egitto era un luogo così brullo e sabbioso, a dir poco inospitale, come avesse fatto una qualche popolazione a decidere di vivere in quelle terre, per lui era un mistero! Lui che proveniva dall’America Centrale, da terre molto più ricche di vegetazione e vitalità, quei luoghi sembravano davvero deprimenti.

Eppure, anche lì c’erano delle divinità che dovevano essere trovate e punite per la loro ossessione di essere onorate e servite, com’era buffo il mondo!

Più buffo del mondo stesso c’era la guerriera ora dinanzi a lui: una fanciulla, come i lineamenti degli occhi facevano intendere, che indossava una strana armatura nera dalle forme di un rospo, o qualcosa del genere.

Aveva dovuto trattenere una risata nel notarla, fra i quattro nemici portatisi dinanzi a loro, "Vi prego, lasciatemi quella rospetta!", aveva dichiarato ai compagni, avanzando con fare sicuro fin davanti a quella strana figura.

"Invasore, preparati a cadere per mano di Anuqet di Heket, la divinità Rana!", si presentò prontamente la giovane guerriera, il cosmo che vibrava della fresca brezza delle acque.

"Non avete solo sabbia in questo deprimente luogo? Ne sono lieto!", ridacchiò l’Homo, avanzando con fare tranquillo contro di lei, il corpo completamente celato nell’ampio mantello, da cui solo le mani, arricchite da complessi tatuaggi che si diramavano attraverso le dita, erano ben visibili.

"Furia del Nilo, investi l’invasore!", invocò decisa la giovane egiziana, lasciando che la fresca energia delle acque fluisse fra le sue mani, prima di liberarne la potenza ineguagliabile e scatenarla addosso all’avversario.

"Così non sarà, mi dispiace per te!", affermò sicuro l’Azteco, oltrepassando l’avversaria ed il suo attacco e lasciando che delle profonde crepe, simili a tagli, s’aprissero sull’armatura di lei, all’altezza del braccio sinistro, costringendola su un ginocchio per il dolore.

Subito l’Homo le fu di fianco, bloccandole il braccio ferito fra le mani, "Dimmi, Anuqet di Heket, come onorate le divinità in queste terre? Ho sentito parlare di un metodo per la mummificazione degli uomini che proviene da questi luoghi, assieme alla costruzione di alte piramidi, come quella alle mie spalle, monumenti di devozione, giusto?", chiese, torcendo l’arto sanguinante e costringendola ad urlare per il dolore.

"Nelle mie terre natie si praticavano sacrifici umani, si strappava la pelle alle persone, ancora vive, le si scorticava in onore delle divinità, quindi ti chiedo, da Homo libero a schiava di antichi culti: credi giusto che un dio chieda la pelle dei suoi seguaci, letteralmente?", incalzò e nel piegare il braccio dell’altra, parte del suo mantello si aprì, rivelando un addome dove, chiaramente, la pelle era stata strappata via.

"Senti la sofferenza che scuote il tuo braccio? Piccola cosa rispetto ai secoli di dolore che i credenti di qualsiasi fede hanno sofferto per guerre, sacrifici ed altre follie loro richieste in nome del loro credo, fosse anche le quattro vite che, in questo momento, le divinità dell’Egitto sacrificano per un’inutile ultima difesa.", concluse, rilasciando l’energia del proprio cosmo attraverso la mano che toccava le dita di quella di Anuqet.

Un urlo di sofferenza acuto esplose dalle labbra della guerriera di Heket: le vestigia sull’arto furono strappate via, assieme alla pelle, lasciando in bella vista muscoli, ossa e vasi sanguigni, visibilmente danneggiati.

La mano sinistra dell’Azteco si poggiò sul pettorale dell’armatura nemica, "Onorare i propri dei produce solo sofferenza!", furono le sue parole, liberando dalla punta delle dita un’ondata di lame energetiche che dilaniarono le vestigia e strapparono via la pelle, dalla gola in giù, di quella giovane guerriera.

Per un attimo, l’Homo osservò il viso, distorto in un’ultima acuta smorfia di dolore, della seguace di divinità egizie, poi si voltò verso la Coreana, che già aveva iniziato il rituale per rubare anche quelle entità, che si proclamavano divine, dal mondo, liberandolo dalle stesse.

Un sorriso, sul volto celato dal cappuccio, si dipinse, mentre, chinandosi avanti, poggiò le dita sul volto della defunta avversaria, strappando via la pelle anche da quello.

Così combatteva lui, così disonorava i propri dei e tutti gli altri; il distintivo modo d’agire dell’Homo di origini azteche: Xipe Totec.