Capitolo 26: Luoghi e guerrieri

Nel territorio sacro degli Hayoka vi era agitazione per l’esplosione di cosmi che, malgrado la distanza, si riusciva a percepire in luoghi lontani quali erano il castello di Amaterasu in Giappone e le rovine dell’Isola di Mur in pieno Oceano Atlantico.

Bow dello Storione era di guardia ai limiti meridionali del territorio sacro, i suoi pensieri vagavano nel silenzio di quella zona, ma l’Hayoka era abituato a tale pace, anzi, la amava oltre ogni altra cosa, in nessun modo avrebbe fatto qualcosa per interromperla, per quanto la percezione di tutte quelle vite sull’orlo della morte e di tutti i nemici caduti per mano di altri guerrieri, fra cui Peckend stesso, lo scuotevano nel profondo.

Il nativo americano dello Storione era forse quello meno adatto alla battaglia, non tanto per le sue abilità di combattente, bensì per la natura troppo bonaria e pacata del suo spirito: troppo spesso si era trovato a dispiacersi nel seguire le battaglie dei santi di Atena ed anche adesso che stavano combattendo contro dei nemici che li avevano assaliti ed ucciso Big Bear, suo diretto compagno, anche in quel momento Bow dello Storione non conosceva odio per i Portatori di Luce, o gli Oscuri generali, ma solo compassione e perdono.

Con questo dispiacere nel cuore, l’Hayoka dello Storione restava ad osservare l’orizzonte, mentre il vento gli accarezzava il volto triste.

Sul versante opposto, quello settentrionale, si trovava Shiqo della Lontra, intento anch’egli a seguire l’esito delle battaglie, ma non altrettanto sofferente per le morti dei nemici, bensì soggetto ad una profonda autocritica: seguiva infatti più che le battaglie il modo in cui i diversi gruppi di alleati avanzavano lungo i territori nemici; per un Hayoka allenato a percepire il fluire degli spiriti e della vita, quello era poco più che un allenamento.

Ogni nuova divisione, ogni momento in cui il santo d’oro di Libra guidava i compagni avanti lasciando un alleato alla battaglia, o mentre Hornwer, suo parigrado, ma comandante di un altro terzetto, compiva la medesima azione, Shiqo si trovava a chiedersi se lui, messo davanti alla medesima scelta, avrebbe abbandonato o meno i compagni per il bene della missione, o avrebbe rischiato di creare danni ben più grandi per non lasciare indietro nessun amico, o alleato.

Un pugno dell’Hayoka solcò il terreno, "Il mio spirito deve essere forte come quello di Golia, Freiyr, o di Hornwer, loro hanno piena fiducia in chi li segue, ne conoscono le capacità e sanno quando lasciarli da soli alle proprie battaglie", si ammonì Shiqo, continuando ad osservare la zona circostante.

Ai confini orientali del territorio sacro, una figura camminava nervosa, percependo il susseguirsi degli scontri, era Taimap del Castoro.

"Perché non mi è stato concesso di andare sul campo di battaglia?", si domandava fra se il giovane Hayoka, "Solo il mio comandante, dei quattro più potenti fra noi, ha voluto partecipare allo scontro, non poteva accontentarsi della guardia come Shiqo, Ash e Bow? No, doveva per forza partecipare alla battaglia", sbottò il guerriero, scalciando il suolo vicino a se, mentre il susseguirsi degli scontri passava con poco interesse attorno a lui, quasi non percepito dalle sue abili capacità.

"Per anni mi sono addestrato, ho persino cercato di farmi bastare la vita di ascesi degli Hayoka, ma non riesco a rinunciare alla curiosità di sapere come sarebbero state le mie virtù sul campo di battaglia", si disse il guerriero, quasi parlasse con qualcun altro, malgrado in quel luogo fosse solo, "mi dovrà restare questa voglia di combattere quindi? Non avrò modo di saggiare le mie capacità, vincere, o morire, per le stesse?", concluse, espandendo il proprio cosmo, quasi fino a farlo esplodere per poi quietarlo, come memore di passati richiami.

Con tanta agitazione nello spirito, Taimap si guardò intorno, osservando se vi era qualcuno prossimo ad avvicinarsi a lui.

Vake del Serpente, al contrario delle altre tre sentinelle, non sembrava per nulla scosso dagli avvenimenti di quel giorno: alcun sentimento lo agitava, né di dolore, né d’apprensione, né bellico che fosse, bensì era egli lì, sdraiato sul terreno morbido del versante occidentale, con gli occhi chiusi, apparentemente addormentato.

"Dimmi, giovane cavaliere d’argento?", esordì ad un tratto l’Hayoka, senza nemmeno aprire gli occhi; Daidaros di Cefeo era ancora a diversi passi da lui, ma ne sentì chiaramente la voce e rimase sorpreso.

"Come hai fatto a capire che ero io?", domandò il figlio di Shun, "Come il serpente conosce bene ogni cosa che succede nel suo territorio, così anch’io, che sono il guardiano di questo confine occidentale, non mi lascio scappare nemmeno un movimento e conosco per nome anche il più sottile filo d’erba di questa bella prateria", spiegò con un sorriso Vake, rialzandosi in piedi verso il proprio interlocutore.

"Se sei qui perché preoccupato per i tuoi compagni, sappi, giovane cavaliere d’argento, che tutti i santi a te pari sono sani e salvi, seppur feriti", affermò con quieta voce l’Hayoka, "Percepisci cosmi così distanti in modo tanto distinto?", domandò allora Daidaros, "Questa è una delle qualità basilari per noi sciamani purificatori; sentire l’esito di una battaglia fra il bene ed il male ed esorcizzare le fonti d’oscurità prima che la loro energia si disperda di nuovo sulla terra, risvegliando altre fonti di oscura malvagità", spiegò Vake andandosi a sedere e guardando l’aria circostante.

"Cosa cerchi, Hayoka?", chiese il figlio di Shun, osservando anch’egli l’orizzonte, "Mi chiedo da dove potrebbero attaccarci e soprattutto quando…. Seppur è più che probabile che attendano l’esito degli scontri contro Erebo e Amaterasu", rispose distrattamente il nativo americano.

"Attaccarci? Ma se tutti i nostri nemici sono intenti già a fronteggiare i miei ed i tuoi compagni", osservò perplesso Daidaros, ma fu allora che l’Hayoka si voltò verso di lui stupito.

"Dimmi, cavaliere d’argento, ricordi, dopo un anno di pace, le strategie base delle battaglie?", domandò ironico Vake, "Nello scontro contro Urano la strategia, sia vostra sia loro, fu di portare più iniziative su più versanti, ma in quel caso si trattava di due agglomerati di eserciti molto numerosi. Contro Pontos e Gea, invece, fu uno scontro frontale fra la loro e la vostra forza offensiva, questo perché erano certi delle loro possibilità e degli uomini che utilizzavano in battaglia, come voi lo eravate delle vostre capacità.

Infine altra situazione si andò a presentare contro gli Horsemen, i Quattro Cavalieri, infatti, richiamarono diverse divinità oscure per aiutarle in battaglia, disperdendovi e costringendovi a battaglie che gli permettessero di guadagnare tempo per ottenere la Fine che tanto agognavano, fortunatamente non riuscirono in tutto ciò perché il vostro numero era superiore e questo vi permise di mantenere una certa disponibilità di guerrieri malgrado i feriti ed i due Runouni più intenti a ricerche che a vere e proprie battaglie", spiegò il nativo americano, enumerando le passate esperienze dei suoi alleati.

"Ora è ragionevole supporre che i nostri nuovi nemici abbiano imparato qualcosa dalle sconfitte di chi li ha preceduti e sappiano che solo nel dividervi c’è la vera via per cercare la vittoria e perché rischiare dei propri servitori quando si possono sfruttare delle pedine per dividere le armate avverse? Credimi, temo che Erebo ed Amaterasu non siano altro che sacrificabili pedoni su questa scacchiera, lo stesso, immagino, suppongano anche il tuo sommo Sacerdote ed il potente Waboose, se hanno acconsentito a lasciare ben dieci guerrieri di guardia alle Quattro Chiavi", concluse tornando a sedersi l’Hayoka.

"Sei davvero saggio, in effetti, come ragionamento, è una possibilità probabile", osservò preoccupato lo stesso Daidaros, "Bé, se vuoi, mentre aspettiamo, posso esporti altre strategie, che magari ti potranno essere utili anche in situazioni future", aggiunse ironico Vake, invitando l’alleato a sedersi a sua volta ed iniziando subito dopo a parlare.

Al centro dell’accampamento Hayoka, le figure di Botan di Cancer ed Ash del Corvo si stagliavano immobili, intenti in una guardia rigida del territorio che li circondava: sembrava quasi che la sacerdotessa d’oro non volesse rivolgere la parola al cupo sciamano, non per inimicizia o diffidenza, ma per la triste sensazione di disagio che scaturiva in lei ogni volta che percepiva la naturalezza con cui lo scuro guerriero pellerossa sapeva convivere con quel cosmo di morte che era proprio ad entrambi.

Ash, dal canto suo, non era guerriero così garrulo da rivolgere per primo la parola alla propria alleata, sembrava quasi che, in quel silenzio, la mente e lo sguardo dell’Hayoka si perdessero, come affondando in un abisso scuro quanto il cosmo che il pellerossa sapeva scatenare, un abisso in cui lo sciamano non era mai solo, quasi che la morte che sapeva maneggiare gli fosse vicina anche nei momenti di quiete.

Poco lontano, altri due guerrieri avevano proposto di costituire una cerchia di guardia mediana, assieme a Daidaros che, però, li aveva prontamente abbandonati per andare a discutere con Vake del Serpente. La partenza del figlio di Shun era stata una grazia per Elettra e Lorgash che, per tutto il tempo della guardia, si erano scambiati degli sguardi cercando di palesare il meno possibile i sentimenti che provavano l’uno per l’altra.

Quando rimasero soli fu il momento per Elettra di poggiare le sottili mani sull’armatura dorata del Capricorno, "Perché non ti sei proposto per uno dei campi di battaglia? O almeno non hai concesso a me di fare il mio nome? Mi sarebbe bastato un tuo cenno e subito mi sarei fatta notare, così avremmo potuto cercare la battaglia, che ci avrebbe allontanato da pensieri d’altro tipo e soprattutto da questa terribile attesa, per nulla proficua", borbottò con voce ironicamente infastidita l’ultima delle amazzoni.

"Non ci ho tolto la possibilità di combattere, Elettra, semplicemente dovevo compiere il mio dovere come cavaliere d’oro, cioè difendere la chiave che Atena voleva fosse custodita al Santuario; Ryo e Camus sono partiti perché Golia riteneva giusto che almeno qualcuno di noi, santi d’oro, fosse di supporto nelle battaglie contro Erebo ed Amaterasu, ma è possibile che un pericolo ben più grande si presenti a noi qui", spiegò Lorgash avvicinandosi all’amata.

"Lo dici solo per non sentire le mie lamentele", sbottò lei, corrucciando il viso ed allontanandosi di un passo, ma il santo d’oro inizialmente non le rispose, semplicemente accennò un sorriso e le accarezzò i folti capelli con quelle mani che tanto spesso erano state armi di morte, "Lo spero proprio", accennò con un sorriso, sotto cui si poteva facilmente leggere la preoccupazione.

Mentre tutto ciò accadeva nei territori degli Hayoka, Golia entrò nella tenda del potente dio Waboose, dove la divinità gli si palesò nelle sue forme mortali, dinanzi cui il sommo Sacerdote di Atena s’inginocchiò.

Con un gentile sorriso ed un gesto della mano, il Bisonte Bianco invitò l’alleato ad alzarsi, "Come avrai di certo notato, Oracolo di Atena, oltre i miei ed i tuoi guerrieri, anche Shandowse e Wabun hanno abbandonato questo luogo per altre missioni, mentre Mudjekewis cerca di purificare le Quattro Chiavi, così che la Bestia non possa più essere risvegliata in alcun modo", spiegò prontamente la divinità pellerossa, invitando il santo d’oro a seguirlo.

"Sì, sommo Waboose, ho notato tutto ciò, ma so anche che le nostre forze sono quasi consapevoli del pericolo di una terza schiera di nemici che ci potrebbe assalire", continuò il Sommo Sacerdote, "Esatto. Proprio in funzione di questo ti ho chiamato; poiché, per quanto mi dispiace ammetterlo, questa è una guerra di mortali e solo degli uomini possono combattere l’ultima battaglia contro la Bestia, ma nessun colpo creato da mente umana può vincerlo, per questo servirà una forza che sia pari almeno a quella di una divinità minore quale sono io", continuò Waboose, voltandosi verso Golia. "Una forza tale può essere ottenuta solo con lunghi allenamenti, o brevi ed intensi scontri, perciò, Oracolo di Atena, affrontami, qui, adesso", concluse la divinità, espandendo un bianco e maestoso cosmo che stupì il santo d’oro, prima che un sorriso, simile a quello che tante volte si era dipinto sui campi di battaglia sul volto del cavaliere del Toro, non invadesse di nuovo la faccia del gigante, "Sia pure, divino Waboose", concordò Golia, preparandosi a quel particolare scontro d’addestramento.

Nel castello di Amaterasu, Kano del Pavone espandeva il proprio cosmo, cercando al qual tempo di prepararsi all’attacco contro la parete che li bloccava ed essere un faro, nell’oscurità dello svenimento, per Sekhmet di Bastet. La guerriera egizia, infatti, era ancora svenuta, visibilmente stremata, per quanto le sue ferite erano ben misera cosa dinanzi a quelle subite un anno prima contro la furia di Seth, ma, malgrado ciò, i veleni entrati nel corpo della Pharaon l’avevano indebolita più di quanto Kano potesse immaginare; proprio temendo ciò, il santo d’argento cercava, attraverso il proprio cosmo, di riscaldare il corpo indebolito dell’alleata, curandone le ferite venefiche con l’espansione del proprio spirito.

"Stringer Fine", "War Drum", urlarono all’unisono, circondati dalla melodia, i due musicisti bloccati nel versante opposto del castello; ma, né il battere dei tamburi, né la melodia dell’arpa d’argento, furono fruttiferi per Peckend del Picchio e Real della Lira.

I due guerrieri, dopo l’ennesimo attacco, si appoggiarono alle pareti ai loro lati, "Tutto ciò è incredibile", balbettò l’Hayoka, "come può reggere? Sarà stato il decimo attacco che scagliamo contro quelle radici", osservò titubante il giovane pellerossa.

"Diverse variabili ci sono contro, amico mio", replicò allora Real, "abbiamo entrambi da poco concluso degli ardui scontri, specie il secondo, contro Hyui del Kamaitachi, inoltre, considera che il cosmo che ha generato queste radici è pari a quella dei santi d’oro, forse anche dei titani, la casta più potente di cavalieri che io abbia mai visto", spiegò il discendente di Orfeo, "se fossimo entrambi riposati avremmo ben più possibilità, ma chi ha sollevato questa barriera sapeva che contro i tuoi compagni sarebbe stata inutile, perciò ha deciso di usarla su di noi", concluse il musico greco.

"Su questo, nobile cavaliere, ti do ragione, sono tutti particolari che non avevo valutato", concordò Peckend, sorridendo, "temo che dovremo attendere qui", concluse l’Hayoka, sedendosi; "Hai ragione, temo", replicò l’altro, andando anche a sedersi sulle scalinate.

Nel terzo piano sinistro del castello, i tre guerrieri pellerossa entrarono in quella che sapevano essere la sala dello "Spirito dell’Acqua", sala che trovarono piena di nebbia.

"Comandante Hornwer, non crede che sia del tutto innaturale una tale foschia?", domandò con voce sottile Lihat del Falco Rosso, avanzando con passo leggero, prima di accorgersi che nessuno gli aveva risposto e, quando si voltò, la nativa americana capì di essere sola; una risata però proruppe nella nebbia, "Non preoccuparti, giovane guerriera, non sei l’unica ad essere rimasta sola", avvisò una voce, "nella sala di cui sono padrone l’Acqua, che tutto bagna e circonda, vi è nemica tanto quanto me e, se non lo hai ancora notato, sei immersa nell’acqua fino alle caviglie, proprio come i tuoi sfortunati compagni", spiegò la misteriosa presenza, prima di scomparire.

Lihat non ebbe nemmeno il tempo di replicare, poté solo chinare il capo verso il suolo, notando l’acqua che le bagnava le vestigia, "Comandante, Firon", sussurrò preoccupata la guerriera, cercando di vedere i compagni in mezzo alla foschia.

Nella sala del "Rapace Candido", la terza sulla destra, Ryo di Libra avanzava, accompagnato da Esmeria e Joen; i tre camminavano in fila indiana lungo quello che appariva come un magnifico giardino giapponese, ricco di magnifici alberi dalle verdi foglie, ricche di vita, foglie che lasciavano ampi spazi vuoti fra le estremità dei rami stessi ed il tronco centrale, luogo ottimo perché un rapace vi planasse.

D’improvviso, intorno al gruppo che avanzava, esplose un rumore simile allo stridere di decine di falchi che si innalzano intorno alla loro preda, come se, uno stormo di famelici signori dei cieli, si fosse scagliato all’assalto delle tre figure appena giunte. Al posto dei rapaci, però, arrivò qualcosa, un’esplosione d’energia che travolse il santo d’oro ed i guerrieri di Cartagine, gettandoli al suolo, mentre una bianca ombra li sorvolava, atterrando su un albero dinanzi a loro: il custode di quella sala era arrivato.

Kiten di Kitsune, intanto, era entrato nella sala della sua divinità, Amaterasu; subito il Portatore di Luce s’inginocchiò dinanzi al paravento che copriva la dea.

"Vi chiedo perdono, mia Sovrana, già quattro dei soldati a voi fedeli sono caduti, morti per mano dei loro nemici", esordì con rammarico sincero il Portatore di Luce, "Non a te va la colpa delle loro sconfitte, Kiten, non sei di certo stato tu a dar loro la morte, anzi, le nozioni che gli avevo offerto, gli hanno donato la possibilità di iniziare una vita", replicò con voce semplice la divinità.

"Il secondo potere che voi, miei Portatori di Luce, siete capaci di risvegliare è incredibile, finora solo tre dei miei nove guerrieri sono stati capaci di manovrarlo, tre soli sono rinati da semplici Portatori a veri e propri Jinchuuriki e tu, Kiten, fra tutti sei il più potente, poiché non inebriato, ma capace di domare questa natura", spiegò Amaterasu.

"Sì, mia Sovrana, ma proprio coloro che non hanno capacità di controllare quel potere, né di risvegliarlo, sono caduti", osservò ancora il Portatore del Kitsune, "per prima Mai del Ki-Lin, che appena comprendeva il potere dell’Ichibi; poi Ko di Baku, i cui poteri del Nibi sono stati inutili contro un suo naturale nemico; subito dopo il Sanbi che era in Hyui del Kamaitachi, ucciso da due nemici che collaboravano ed infine lo Yonbi di En dello Shachihoko, le cui capacità, appena sfruttabili da quell’egocentrico sciocco, sono state inutili contro una donna capace di uccidere una divinità", spiegò il guerriero asiatico.

"Fatti avanti, Kiten", ordinò con voce quieta la dea, prima che il Portatore compisse due passi in avanti, inginocchiandosi dinanzi al paravento, "Come te, anch’io percepisco tutto ciò che succede. So delle poche capacità di Mai del Ki-Lin, della sorte avversa a Ko di Baku, delle forze ben maggiori che hanno dovuto affrontare Hyui del Kamaitachi ed En dello Shachihoko, come altrettanto bene so ciò che ti ha proposto Yamata dell’Orochi.

Di tutto ciò, però, non ho interesse; non mi preoccupo di quel traditore, né degli sconfitti, tutto ciò di cui mi curo è che tu, mio primo e più fedele guerriero, sia qui, al mio fianco come difesa ultima. Tu sei l’unico che è riuscito a domare il potere del Kyuubi insito nelle vestigia del Kitsune ed ora sei qui, al mio fianco, legato da una fede ben più profonda della devozione; per questo credo che, anche se l’Oscuro dei Mari fallirà, noi vinceremo, dimostrandoci validi di rispetto dagli alleati che riunirono le nostre due schiere", concluse la divinità, mentre una mano, bardata dentro vestigia dorate e rosse, accarezzava i capelli del guerriero asiatico.

"Vi ringrazio, mia Sovrana, mi avrete ridato fiducia e certezze", sussurrò Kiten, allontanandosi di qualche passo ed uscendo poi dalla sala, dove Amaterasu rimase da sola; "Spero solo che la battaglia non mi costi ben più di questo esilio, che i miei due oscuri alleati siano altrettanto rispettosi dei patti", si lamentò fra se la divinità.

Presso le antiche rovine dell’Isola di Mur, Zadra dello Scultore correva verso il punto in cui aveva percepito esplodere i cosmi di Kela dell’Alce e del suo avversario; la sacerdotessa d’argento sapeva che la sorella Helyss e Bifrost erano ancora svenuti, seppur vivi ed al momento dispersi, quindi non poté far altro che correre in soccorso all’Hayoka.

Ciò che la guerriera asgardiana vide la stupì: Kela era ferita, appoggiata ad una parete semidistrutta e rideva, accanto ad un uomo, ferito ripetutamente a gambe e petto, ma, i resti delle sue vestigia, lasciavano intuire che questi era un Generale Oscuro.

"Sacerdotessa di Atena", la salutò sorridente la pellerossa, "Che succede qui?", domandò perplessa Zadra, "Ho sconfitto Blat, ma ora stavamo discutendo su come sia vivere in questo luogo", spiegò sorridendo la nativa americana, ma a tale sorriso l’asgardiana non rispose.

"Voi Hayoka dovete avere qualche problema", osservò Zadra, "con un nemico vinto non ci si mette a scherzare", ammonì la sacerdotessa, "Ma noi stavamo aspettando te", replicò Kela, "Perché?", incalzò l’asgardiana, "Per recuperare i due vostri compagni caduti nelle grotte sotterranee di Grun", rispose allora il Generale Oscuro ferito, "io so dove trovarli", concluse.

Zadra osservò prima Kela, poi Blat, quindi tornò a guardare la sciamana, che accennò sorridente di si con la testa, "Va bene, ci aiuterai", concluse la Sacerdotessa, sollevando l’Hayoka e porgendo poi la mano anche a Blat.

Kain di Shark, assieme a Whinga, Camus e Freiyr, intanto, avanzava con passo deciso verso il palazzo di Erebo, finché, d’un tratto, i quattro furono fermati da dei passi provenienti proprio dall’interno della costruzione.

"Ci vengono ad accogliere, sembra", osservò l’Hayoka dell’Oca Polare, "Sì, ma temo che tutto ciò che riceveremo sarà un nemico", aggiunse il figlio di Ikki, mentre un cosmo s’espandeva dinanzi a loro.

"Che cosa?", esclamò Camus, guardandosi intorno, "Questo cosmo, ricorda quello di un guerriero che già abbiamo incontrato, ma è impossibile, egli è morto combattendo contro le Furie", affermò Freiyr, "Dici il vero, ma il suo cosmo è diverso da quello che entrambi ricordiamo, come lo era dal mio e da quello del suo maestro Cooler, ma, pur sempre, cugino, è qualcuno che domina le energie fredde", concluse il santo dell’Acquario.

"Inoltre, cavalieri, questo cosmo è pieno d’odio e rammarico", aggiunse Whinga, mentre le nere rovine andavano ricoprendosi di bianca e sottile neve, mentre una nera ombra si delineava sull’uscio del palazzo.

In una piccola sala, all’interno del palazzo di Erebo, una cupa figura avanzava nell’ombra, era Vize, "Dimmi, mio primo comandante", sussurrò allora una voce che sembrava circondare l’intera sala, anzi, essere la sala stessa.

La figura camminava affogando nell’oscurità di quella piccola sala, "Porto tristi nuove, potente signore; Riesig, Grun e Ruck sono caduti e Blat, mio allievo, è sconfitto ed arreso dinanzi agli avversari", enumerò Vize, "Pensi di darmi delle cattive nuove, mio comandante? Nelle tenebre di queste rovine niente sfugge all’occhio di Erebo", rispose la voce che circondava la sala oscura, "Sono dovunque ed in ogni ombra in questo luogo, potrei muovere un pugno e stringere tutti i miei nemici in una presa che li schiaccerebbe, ma non è questo il patto che ho sancito, come non lo è quello della sciocca divinità giapponese. Non posso permettere che la mia fretta faccia fallire il risveglio dell’Invincibile che vinse su Zeus; rischierei di restare in questo cupo esilio, mentre tutto ciò che anelo e di condividere con il mondo intero l’oscurità che mi annega lo spirito, che tutti gli esseri viventi gustino di questa sofferente notte e mi adirono, o si uccidano fra loro. Perché io ottenga tutto ciò, voi, che siete le mie pedine, dovete combattere, massacrando chi odiate e chi non conoscete, poi, quando nessuno dei Generali resterà, sarà il mio pugno a stringersi sul corpo delle vittime da me prescelte, uccidendole, ti è chiaro questo, Vize dell’Aragosta Nera?", concluse la voce.

L’ombra sembrò allora scacciare la piccola figura al suo interno, evidenziandola in un bagliore di chiarore: era un uomo alto, elegante nelle lunghe vestigia nere che ricoprivano il suo corpo. L’intera armatura sembrava fatta da strati, come il guscio del crostaceo che doveva rappresentare, all’altezza delle gambe, vi era come un sottile gonnellino che si apriva alla spalle del Generale, mentre le coperture per gli avambracci erano caratterizzate entrambe da un piccolo uncino ricurvo parallelo al taglio della mano, mentre un’altra coppia d’uncini era sulla schiena del guerriero.

L’elmo, infine, era la testa del crostaceo e copriva appena lo sguardo sottile e verde del guerriero, i cui corti capelli viola ben si confondevano con l’armatura, mentre i lineamenti del Comandante dei Generali ricordavano chiaramente quelli del defunto santo di Libra Oscura, Sairon, morto più di un anno prima sull’Isola della Regina Nera.

Questi era Vize dell’Aragosta Nera, che prontamente rispose al suo signore: "Sì, potente Erebo, ho compreso", prima di uscire dalla sala, che nuovamente affogò nell’oscurità; "Lo spero bene", echeggiò allora la voce della divinità.

Un cratere brillava in una gigantesca caverna, dispersa in un luogo che non era dato conoscere, scintille simili a fulmini prorompevano da quella bocca dell’abisso, mentre dei ruggiti di dolore sembravano accompagnarli.

Una figura, celata nell’ombra delle pareti rocciose, guardava con occhi fiammeggianti il cratere, finché un altro essere entrò nella sala.

"Madre, le battaglie continuano come previsto, i nostri nemici si sono divisi fra i mari ed il Giappone, in pochi sono rimasti a guardia delle Chiavi", esordì il nuovo giunto, "Bene, figlio caro, ottime notizie mi porti, adesso si tratterà di attendere che gli scontri finiscano e che ogni elemento della mia prole sia al suo posto, allora potremo agire e liberare chi domina su di noi", concluse la figura dagli occhi rossi, prima di voltarsi verso la bocca del cratere.

In quel momento, mentre scariche elettriche brillavano nell’abisso oscuro, sembrò quasi che due scintille rosse come fiamme infernali rispondessero allo sguardo della misteriosa "madre".

"Ben presto, mio signore e padrone, ben presto, grazie a Gea tua madre, alle piccole pedine che abbiamo messo in azione ed a ciò che ho fatto per te, ritornerai a distruggere", rassicurò la voce della figura nell’ombra, prima che un ruggito le rispondesse dall’abisso.