Capitolo 36: L’apparizione delle divinità

Nel castello di Amaterasu, presso la stanza che fu della Donnola Volante, le musiche di Real e Peckend si erano infine quietate del tutto: poiché i due guerrieri avevano cessato di assalire, con scarsi risultati, la barriera vegetale che impediva loro d’avanzare.

"Sembra che il comandante delle schiere di Amaterasu abbia preferito sacrificare la propria vita, infondendo energia in queste barriere vegetali per il bene della sua sovrana, anziché sopravvivere allo scontro con Hornwer", esordì il pellerossa del Picchio, "Sì, ormai la Regina di Cartagine dovrà avanzare da sola verso l’ultimo nemico, ma lei fra noi è uno dei guerrieri più potenti, sia per la discendenza di cui è portatrice sia per le virtù che ha saputo rivelare già più volte in battaglia", osservò allora il santo della Lira.

"Questo forse è vero, ma non basteranno le sue comune doti contro la divina Amaterasu, poiché una divinità del Sole è un’entità dai poteri irraggiungibili per i più", osservò allora l’Hayoka del Picchio, "Che intendi dire?", incalzò il discendente di Orfeo.

"So solo notizie tramandate dai nostri predecessori, ma quando gli antichi guerrieri pellerossa combatterono assieme al Manto Rosso d’Occidente contro il divino Inti si trovarono a fronteggiare un potere inimmaginabile, il potere stesso del Sole, sotto una delle sue varie sfaccettature, ma non mi è dato conoscere di più su queste virtù mistiche", spiegò con perplessità il musico pellerossa.

"Il potere del Sole?", domandò ancora Real sorpreso, senza ricevere alcuna chiara risposta.

Medesima domanda stava in quel momento facendo Kano del Pavone a Sekhmet, sua interlocutrice, ormai ripresasi, in parte, "Sì", balbettò appena la guerriera egizia, incapace di effettuare un vero e proprio discorso, tentando di farsi capire dal santo d’argento.

"Il Potere del Sole…. anche il potente Ra lo ha…. come Apollo, tutti possono richiamare le sfaccettature del Sole… a Ra è concesso il Globo di Luce, l’Occhio", balbettò appena la Pharaon egizia, prima di interrompersi.

"Il Potere del Sole? Richiamarne le sfaccettature?", si domandò stupito Kano, chiedendosi di cosa stesse parlando l’alleata, interrottasi per la stanchezza di quelle brevi, ma rilevanti parole.

Il cavaliere d’argento sapeva ben poco dei poteri del divino Apollo, conosceva in qualche modo le doti dei suoi guerrieri: uno, Shuren, era famoso per il controllo del Fuoco, un altro era stato un arciere ed infine Clio era stata un’abile musicista, come Real, suo compagno d’addestramento; niente però sapeva dei poteri di Apollo, seppur poteva immaginare fossero legati a queste tre caratteristiche, l’arte, la Corona Solare e gli arcieri, tutti sacri al dio olimpico. Quale che fosse il Potere del Sole di Amaterasu, non fu difficile per Kano comprendere come questo fosse un pericolo per la figlia di Ikki, un pericolo che la Beast Keeper avrebbe dovuto ben presto affrontare.

Nella sala del Demone Volpe, Joen e Hornwer osservavano con preoccupazione la barriera che li divideva dalla sala di Amaterasu, "Avrei dovuto seguire la mia Sovrana, che razza di Guardiano sono?", si lamentava fra se il Goshasei, prima che dei passi, provenienti dalle due scalinate lo interrompessero.

L’Hayoka ed il cartaginese si scambiarono uno sguardo, entrambi erano stanchi e feriti, ma se fossero arrivati dei nuovi nemici questo non li avrebbe fermati, così ognuno dei due si posizionò dinanzi alla scalinata da cui era salito, ma con loro grande sollievo videro semplicemente arrivare due alleati.

Ryo di Libra giunse claudicante dinanzi al Guardiano del Pavone che prontamente ne resse il peso, aiutandolo a raggiungere quella folta foresta e sedersi all’ombra di quei salici che, fino a pochi minuti prima, erano stati una possente arma nelle mani di Kiten del Kitsune. "Tutto bene, cavaliere d’oro?", domandò il guerriero cartaginese, ricevendo solo un affaticato sorriso come risposta.

"Aspetta, cavaliere, lascia che sia io ad occuparmi di curarlo", propose allora una voce femminile, mentre Joen, voltandosi, vedeva Hornwer avvicinarsi assieme all’altra Hayoka, Lihat del Falco Rosso.

"Sei stato più che un superfluo aiuto stavolta, vero cavaliere?", domandò con un gentile sorriso la sciamana, mentre, attraverso le mani poggiate sulla ferita, il suo cosmo riscaldava il figlio di Shiryu, "E tu, Hayoka? Hai avuto modo di fare la tua parte?", incalzò l’altro con voce stanca, "Sì, seppur non ho potuto impedire il sacrificio di un compagno", rispose lei con tono triste, mentre la mano del santo d’oro si poggiava su quella che lo stava curando, "Questo, da sempre, è il rimpianto maggiore per un guerriero, non poter salvare i compagni e le persone più care", concordò mentre anche il suo volto veniva dipinto di tristezza.

"Dopo aver curato le ferite del cavaliere d’oro, Guardiano, Lihat si occuperà anche delle tue", esordì, nello stesso momento, Hornwer, rivolgendosi a Joen, "No, Hayoka del Cervo, non vi è motivo di preoccuparsi per me, ben presto il mio cosmo si sarà rinfrancato dalla lunga battaglia nella sala del Candido Rapace, allora sarà l’energia stessa che alimenta il mio corpo a curarlo", spiegò con tono pacato il figlio di Tige, voltandosi ancora preoccupato verso la muraglia vegetale che impediva l’avanzata.

Una mano del comandante pellerossa si poggiò allora sulla spalla del cartaginese, "Non preoccuparti per la tua Regina, Guardiano, un ben più potente alleato è con lei in quest’ultima parte della nostra battaglia, un divino supporto che non tarderà, nel momento del bisogno, di farsi vedere", concluse Hornwer con un sorriso pacato sul viso.

La corsa di Esmeria di Suzaku, intanto, aveva avuto termine dinanzi ad una gigantesca porta dorata, un sigillo che bloccava con imponenza l’avanzare dei suoi passi, ma che, inaspettatamente, si aprì, quasi mosso da mani invisibili, proiettandola nella grande ed illuminata sala dove si trovava la divinità giapponese.

Per alcuni minuti la figlia di Ikki parve non vedere più niente di ciò che le accadeva intorno, vacillò in quel bagno di luce, finché i suoi occhi non si abituarono, permettendole di comprendere che fonte di tanta luminosità era la figura celata dietro un paravento d’oro.

"Anche il mio Kiten è caduto, infine sono sola dinanzi ai nemici", esordì una chiara e delicata voce femminile, proveniente dal paravento, "sia pure, non vi temo, sono pur sempre divinità dai vasti poteri ed una così misera schiera avversa non m’incute timore alcuno", affermò la voce celeste, mentre ancora Esmeria avanzava con passo attento verso la fonte di quel suono.

"Arrenditi, Amaterasu, dea del Sole, non la tua vita desidero, bensì che questa folle guerra si concluda, prima che sia troppo tardi per tutti", avvisò prontamente la Beast Keeper di Suzaku, "Troppo tardi dici, guerriera dalle vestigia asiatiche? Lo è già, sia per voi quanto per me; coloro a cui sono alleata non accetterebbero una resa da parte mia, inoltre, anche se ora cedessi il passo, non potreste più interrompere ciò che ha avuto inizio in questo lungo giorno di morte", avvisò la dea in tutta risposta.

"Potremmo", ribatté Esmeria, "se tu, dea del Sole, richiamassi l’incendiaria forza dell’astro che dilania le terre a te fedeli, potremmo salvare molte vite", continuò, "Pensi che questo servirebbe? Giovane mortale, tu non capisci che l’avvento del Mostro Olimpico spazzerà via ogni forma di vita che non sarà ritenuta necessaria, per questo, ormai, solo continuando su questa strada potrò dimostrarmi leale a quell’essere e salvarmi, cosa che non potranno fare i miei pari celesti", replicò con chiaro disappunto la divinità, senza ancora manifestarsi.

"Dunque preferisci la tua salvezza a quella dei tuoi fratelli e dei sudditi? Da come ti descrivevano l’HakuHou ed il Kitsune pensavo tu fossi una saggia Regina, però, ai miei occhi, di sovrana fra gli uomini, appari come una codarda, una divinità potente, certo, ma codarda dinanzi ad un mitologico mostro", la ammonì allora la figlia di Ikki, con tono accusatore.

"Come hai osato chiamarmi tu, misera mortale? Dici di essere una Regina fra gli uomini, ebbene? Credi che ciò ti dia il permesso di giudicarmi? Tu non puoi comprendere la vastità dei miei poteri e dei doveri ad essi legati. Io sono Amaterasu, colei che fermò la furia dei Bijuu nell’era del Mito. Io guidai i miei nove Portatori in battaglia e con loro interruppi la mitica guerra delle Bestie con le Code, che tanto male faceva alle nostre terre", esclamò con furore la divinità da dietro il paravento, "però, ora che le mie schiere sono perse, nulla è più possibile contro il Mostro Olimpico, niente potrò fare, se non sopravvivere", concluse con rammarico la dea.

"Questo, Amaterasu, è l’agire di un codardo", replicò laconica la Regina di Cartagine.

"Ora, mortale, hai osato troppo", tuonò la divinità nipponica, mentre già la luce dietro il paravento pareva mutare in una fiamma, "Housenka", esclamò.

Una pioggia di fuoco partì da dietro la superficie dorata, fiammate che caddero come tempesta, dirette contro la figura di Esmeria, che già era pronta a muoversi, per evitarle, ma, prima ancora che la giovane Regina potesse muovere un passo, un mantello rosso si pose fra lei e le fiamme, bloccandole con la propria massiccia figura.

"Bene, dunque l’essere che guidava le fila si è infine rivelato, attendevo di combattere contro qualcuno che non osasse tenermi testa solo a parole", avvisò a quel punto la dea, mentre la pioggia di fuoco cessava, permettendo alla figlia di Ikki di osservare con attenzione chi le era giunto in soccorso.

Correva in un lungo corridoio nero una figura dorata, la cui luminosità delle vestigia si combatteva con la notte di quell’unica via; questo era il secco passo di Camus dell’Acquario attraverso l’ultima tratta che lo divideva dall’Oscuro Erebo, la minaccia che si era rivelata nelle profondità degli abissi, fra le rovine di Mur.

Il cavaliere di Atena varcò la cupa soglia entrando in quella sala priva di luce, che parve inghiottirlo nella sua oscurità.

"Un guerriero sacro ad Atena? Tu sei colui che è giunto fino a me? Strano, pensavo che Vize ti avrebbe eliminato", osservò una voce, che pareva riempire l’intera stanza, "ad ogni modo, sciocco mortale, decidi", continuò l’entità, "potrai essere schiacciato o inghiottito, la vastità del mio cosmo non ti teme", concluse.

"Nemmeno io ti temo, essere oscuro, già ho avuto modi di combattere con entità a te pari per potenza", replicò con fredda sicurezza Camus, "Già, la battaglia contro gli alleati degli Horsemen, ho saputo, ma tu, che sei ancora vivo, di certo non avrai affrontato uno dei Quattro, quindi non puoi minimamente immaginare la terribile forza che mi è propria", replicò con soddisfazione il dio antico.

Quelle parole erano, in effetti, veritiere: Camus non aveva avuto modo di confrontarsi personalmente e singolarmente contro i Quattro Cavalieri, solo Varuna, divinità indiana delle Acque, gli era stata avversa in un singolar tenzone, e lì l’elemento del dio gli era stato vantaggio poiché, dopo un’ardua battaglia, aveva saputo fermarne la corrente, cosa avrebbe potuto fare adesso contro una divinità che nelle tenebre trovava la sua vera forza? Questo era il dubbio che si stava stillando nella mente del santo d’oro.

"Ora basta con le parole, però, guerriero di Atena, preparati ad essere schiacciato, dall’insetto che sei", concluse ad un tratto l’onnipresente voce di Erebo, mentre quella sala oscura sembrava animarsi e quasi l’ombra aumentare d’intensità dinanzi a Camus che, quasi spinto da un istinto innaturale, saltò all’ultimo secondo, così da evitare l’innaturale rumore di un peso che crollava contro il terreno.

"Ma che cosa?", riuscì appena a balbettare il cavaliere d’oro, "Non lo avevi ancora capito, guerriero di Atena? Io sono ovunque in questa sala. Io sono la tenebra che ora ti circonda e riempie questo luogo, non avrai modo alcuno di sfuggirmi, non in questa stanza", sentenziò la voce che lo circondava, mentre ancora una volta l’innaturale senso di un peso che andava per gettarsi contro di lui costrinse il figlio di Hyoga ad un balzo, evitandogli di venire travolto da un tonfo duro e secco, che si scagliò contro il terreno.

"Tutto è inutile, cavaliere, qui la fuga non ti è concessa ed ogni tuo movimento è solo un attimo in più di sofferenza. Ben presto scoprirai perché si temono le tenebre, scoprirai perché gli dei olimpici temono Erebo, tanto da esiliarlo ed imprigionarlo nei fondali marini, gli stessi da cui mi libererà la Creatura con cui sono alleato", esultò la voce onnipresente, mentre una nuova carica correva contro il santo d’oro, che la evitò con un agile capriola verso destra, portandosi contro un angolo morto della stanza.

"Questo passo falso ti sarà fatale, guerriero di Atena", concluse la voce della divinità, mentre già la pressione circondava Camus da ambo i lati, quasi prendendo la forma di due grandi ed oscure mani, che ben presto si lanciarono contro i fianchi del santo d’oro.

Fu proprio in quel momento, quando il cavaliere di Atena stava condensando il proprio cosmo, che ne esplose un terzo, rivelandosi in bagliori argentei, disposti intorno al figlio di Hyoga, tanto da bloccare le mani oscure con la sola presenza.

"Dunque eri tu che avevo avvertito, sotto quell’impronta d’energia così strana", sussurrò la voce del dio oscuro, mentre una figura si delineava dinanzi agli occhi di Camus, una figura amica.

Al di fuori della sala dove lo scontro fra Erebo e chi gli era nemico stava avendo luogo, in quello stesso palazzo, Freiyr di Dubhe era fra la veglia ed il sonno, in uno stato quasi catatonico, stordito dalla perdita di sangue continua e dalla gelida barriera di ghiaccio a cui era appoggiato, "Non posso abbandonarmi così", mormorava fra se il Re di Asgard, prima di gettarsi, con tutto il peso del corpo, in avanti, tanto da annaspare fino ad un punto del muro privo di quel gelo che tanto stordiva i suoi sensi, ma incapace ad ogni altro movimento.

Sorte non molto differente toccava a Kain di Shark, ultimo Generale dei Mari, incapace a muoversi, intento nel tirarsi fino ad una qualsiasi sporgenza del muro, non l’inutile, quanto doloroso, tentativo di risollevarsi sulle gambe gravemente ferite, "Il cavaliere d’Oro, sta combattendo da solo una battaglia per la difesa del Regno dei Mari, devo soccorrerlo, egli è un mio alleato, un amico, un compagno di Abel", sussurrò fra se il figlio di Ikki, cercando invano di rimettersi in piedi, mentre una lunga chiazza di sangue seguiva ogni suo movimento.

Rumori ben più numerosi provenivano dall’esterno del Palazzo, dove i passi di cinque individui presto raggiunsero l’Hayoka dell’Oca Polare e la sua avversaria, ancora fermi dinanzi alle porte della nera costruzione, i passi dei sopravvissuti alle altre battaglie.

"Whinga", esclamò Kela, vedendo il compagno con i piedi congelati al suolo, mentre Zadra notava, con suo stupore come anche un’altra dei Generali Oscuri fosse ancora viva, "Questi Hayoka devono avere dei problemi, ovvio che non combattono, se lasciano sempre i loro nemici vivi", borbottò fra se, passandosi con perplessità una mano fra i rossi capelli.

"Re Freiyr", esordì Bifrost, fermandosi dinanzi alla costruzione, "è nel castello, è ferito", balbettò il god warrior, "Sì, ed il nobile Camus è ora arrivato dinanzi ad Erebo", continuò Helyss.

"Anche il Generale dei Mari è ferito, dobbiamo andare a soccorrerli", aggiunse Schon, stupendo sia Whinga, sia Blat.

"Dobbiamo?", ripeté Zadra, "Credi forse che ti permetteremo di avvicinarti ad uno dei nostri alleati feriti?", incalzò la Sacerdotessa d’argento, "Non preoccuparti, guerriera di Atena, Schon è ormai una nostra alleata, ha compreso quale sia la vera via da seguire", replicò il guerriero pellerossa dell’Oca Polare, mentre l’asgardiana poggiava nervosamente la mano sulla maschera d’argento, "Voi Hayoka", sbottò la Silver saint.

"Costei è discepola di Jacov, tuo compagno d’arme", continuò incurante Whinga, "Discepola di Jacov?", ripeté la voce dell’asgardiana, ora meno dura verso la giovane dalle nere vestigia, "Sì, sua discepola ed adesso nostra alleata", concluse il pellerossa.

Zadra scambiò un veloce sguardo con Helyss e Bifrost, "Sia, allieva di Jacov, accompagnerai me e Bifrost nel soccorrere il Mariner e sua maestà Freiyr, ma stai attenta a non agire nel modo sbagliato, non ti sarebbe perdonato", avvisò la guerriera d’argento, varcando il nero palazzo, subito seguita da Schon e dal fratello di Alberich.

"Tu, Hayoka dell’Alce, che fra noi sei la meno ferita, dovresti andare anche, potresti aiutare il nobile Camus nella battaglia, non penso che qui vi sia bisogno di aiuto per nessuno di noi", suggerì pochi attimi dopo Helyss del Pittore, "Non serve, sacerdotessa d’argento, già altri sono andati in soccorso di chi affronterà le divinità nemiche", rispose allora Whinga con un sorriso sereno.

"Che intendi dire?", incalzò la guerriera di Atena, "Shandowse e Wabun sono partiti, sotto forma di puro spirito, assieme a noi all’inizio del viaggio, per combattere a fianco di chi incontrerà Erebo ed Amaterasu", spiegò subito Kela, stupendo l’asgardiana.

"Perché? Forse è sfiducia quella che guida i vostri dei?", domandò allora Helyss, "No, non sfiducia, ma un dio Hayoka non manderebbe mai i propri guerrieri in battaglia contro una divinità senza seguirli; non è nei diritti delle nostre divinità intervenire in scontri fra uomini, ma quando la battaglia si svolge fra un mortale ed un essere celeste, allora loro possono apparire e soccorrere quest’ultimo, per evitare che l’esito dello scontro sia sancito prima del tempo", rispose il nativo americano dal cosmo gelido.

"Capisco, seppur questo non è modo di fare di una divinità olimpica", osservò Helyss, "Grande è la fortuna che avete voi sciamani Hayoka nel poter contare su divinità del genere", continuò Blat del Pesce Sega Oscuro, "Erebo a noi ha mostrato solo odio e disprezzo, mai interesse o preoccupazione di alcun genere", concluse il Generale nero.

L’argentea figura umana di Shandowse si era rivelata dinanzi a Camus dell’Acquario, proteggendolo dalla pressione delle mani oscure di cui Erebo sembrava padrone, "Ti chiedo scusa se solo ora mi sono fatto avanti, cavaliere di Atena, attendevo di capire cosa potesse esserti avverso in questo scontro, per supportarti quanto possibile, prima di lasciare questo campo di battaglia", esordì con voce quieta il dio pellerossa del Coyote.

"Lasciare il campo di battaglia, divinità americana? Forse non ti è chiaro, questo luogo lo abbandonerete solo quando la vostra stessa persona sarà parte delle mie tenebre", esclamò la furiosa voce dell’oscuro nemico, "Lo vedremo", sussurrò in ironica risposta l’altro dio.

Il Coyote argenteo poggiò le mani al suolo, chinandosi sulle ginocchia, "Intanto, Erebo, prova a prendermi", sussurrò appena, prima che, in un bagliore d’argento, la sua figura si spostasse fino al lato opposto della sala, senza che nemmeno Camus riuscisse a seguirne i movimenti.

"Cerchi forse di spazientirmi?", tuonò allora la voce nemica, "In questa sala sono ovunque e non potrai di certo bloccarmi in un così misero modo", sentenziò la divinità, "Vedremo", replicò con semplice voce l’altro, mentre con un singolo gesto delle mani dipingeva un simbolo d’energia cosmica sulle pareti attorno a lui, qualcosa che agli occhi del santo d’oro parve molto simile alle runes usate da Helyss, qualcosa che ebbe un effetto su quella sala.

Dalla parete, infatti, provenne un’esplosione di luce ed energia cosmica, tanto vasta e potente da illuminarla, almeno così parve da prima, solo dopo che quella luce si quietò il cavaliere di Atena riuscì a capire che non si era illuminata la parete, bensì le tenebre di Erebo si erano dovute allontanare da essa, come fuggendo da un’energia incredibilmente vasta.

"Purificherò la tua presenza da questa sala, toglierò l’oscura impronta che tu lasci da ogni superficie, così che tu debba rivelarti nella vera forma, quella antropomorfa, quella che il cavaliere potrà sconfiggere", spiegò con secca voce Shandowse, scattando nuovamente.

Stavolta Camus le distinse: due mani che apparivano in continuazione dal suolo, come onde, ai lati della divinità pellerossa, cercando di schiacciarla, ma che il dio, con una velocità fuori del comune, riusciva ad evitare di continuo, con rapidissime variazioni di percorso rispetto alla propria direzione originaria, fino a fermarsi accanto ad un’altra delle quattro pareti, su cui ripeté i medesimi sigilli, liberando anch’essa.

Un’altra corsa partì subito dopo, uno scatto formidabile dinanzi al quale si sollevò persino un muro d’oscurità, ora ben distinguibile, ed una mano maestosa, entrambi evitati con lesti movimenti dal Coyote argenteo, che con incredibile abilità si portò sulla successiva parete, liberandovi ancora una volta il proprio cosmo, così da restringere ancora di più lo spazio d’azione dell’essere oscuro: restava un’ultima parete, quella alle spalle di Camus.

Il santo d’oro era pronto a supportare il dio pellerossa nell’ultima corsa, ma non fu necessario, poiché Shandowse apparve alle sue spalle senza che nemmeno lui se ne accorgesse, "Lascio a te la vera battaglia, guerriero di Atena, poiché ho fiducia negli uomini e nelle virtù che sanno rivelare nel momento del bisogno, compi il miracolo, mostra una forza tale da sconfiggere un dio antico quanto quelli che tu servi, rivelati un eroe al pari dei compagni che sono caduti e sono stati feriti per permetterti di arrivare qui, in questo giorno; solo una cosa devi ricordare ancora: Erebo è oscurità, egli ha forma fisica, ma non sempre ciò coincide con averne una solida. Combatti come sai fare, cavaliere di Atena", affermò con voce sicura il Coyote d’argento, disperdendo il proprio cosmo sull’ultima parete, prima di appoggiarvisi ed indicare al figlio di Hyoga il centro della sala.

In quel punto, dopo che anche l’ultimo sigillo fu posto, l’ombra sembrò confluire, quasi volesse scappare alla luce, e lì le tenebre si fusero, prendendo una struttura liquida, mentre mutavano in qualcosa di solido, qualcosa di nero, che apparve come un uomo dal lungo mantello e dalle vestigia che con questo abito si fondevano, vestigia che non avevano una forma specifica, semplicemente coprivano come un saio il corpo di chi le portava, prendendo la forma di un cappuccio attorno al capo e mutando nella forma di una maschera mostruosa sul volto dello stesso: questo era Erebo, un’ombra, quasi una macchia, il cui lungo mantello e la nera armatura lo facevano confondere con l’ombra stessa; questo era il nemico di Camus dell’Acquario, ora che la vera battaglia stava per iniziare.

Dinanzi allo sguardo stupito di Esmeria si delineò la figura di chi l’aveva salvata: Wabun, l’Aquila Rossa, la divinità pellerossa, era appena intervenuto nella battaglia, bloccando la pioggia di fuoco scatenata da Amaterasu.

"Lascia a me questa battaglia, Regina di Cartagine, che sia una divinità ad affrontarne un’altra, io mi occuperò di costei, bloccando il suo folle piano", avvisò il dio nativo americano, mentre si sollevava a mezz’aria, espandendo il proprio cosmo luminoso, già pronto alla battaglia.

"Inutile è il tuo intervento, divinità minore, ai miei occhi non sei molto di più di quella piccola mortale che ha osato rivolgermi così infime parole, per te il destino sarà al suo simile, solo che cadrai per prima, divinità pellerossa", replicò con voce secca la dea del Sole giapponese, espandendo di nuovo il proprio cosmo.

"Housenka", urlò ancora una volta Amaterasu, mentre la pioggia di fuoco scaturì dal paravento dorato, diretta verso Wabun che spiccò un volo elegante a mezz’aria per evitarne le devastanti fiamme.

"Ben più di questo dovrai fare contro di me", avvisò allora la divinità Hayoka, mentre, a mezz’aria, espandeva una luce scarlatta dal proprio corpo che, si gettò come una coppia d’ali roteanti contro il paravento dorato, senza però raggiungerlo, poiché ancora una volta le fiamme gli furono contro, parandosi come una pioggia difensiva dinanzi alla loro padrona.

"Se pensi che la pioggia di fuoco è poco per te, divinità pellerossa, ebbene, preparati, perché ora dovrai volare con tutta la velocità di cui sei padrona, perché sarà una ben più mitica bestia a darti la caccia, il mio Drago Infuocato", tuonò la voce di Amaterasu da dietro il paravento, "Ryuuka", concluse poi, mentre un ruggito prorompeva improvviso e, fra le sagome rosse, si delineava quella di un mitologico rettile che, nato dal respiro della dea, si alzò in volo, correndo contro Wabun.

Il dio pellerossa compì una rivoluzione su se stesso, con traiettoria discendente, gettandosi verso il suolo della sala, per poi rialzarsi d’improvviso verso l’alto e lanciarsi, in una piroettante caduta, proprio contro la fiera di fuoco, che ancora gli andava dietro, tutto ciò sembrava però inutile, poiché l’essere non solo seguì con facilità ogni movimento della preda, bensì spalancò le fauci, per nulla intimorito dal volo suicida, pronto ad inghiottirlo.

Esmeria vide, con suo grande stupore, Wabun lasciar esplodere il proprio cosmo; antiche parole pellerossa proruppero dalla bocca del dio, mentre altre due coppie d’ali scarlatte si aprivano sopra di lui, scotendosi per poi prorompere in delle lame d’energia, lame che volarono all’interno del drago, fino alla fonte di quella lunga fiammata d’energia: Amaterasu.

Quando quelle ali taglienti giunsero al bersaglio avvenne un’esplosione, tanto potente da travolgere quasi la stessa Esmeria, che per poco evitò la potenza del colpo del dio, a sua volta travolto dal proprio colpo, tanto da cadere al suolo, mentre il paravento dorato andava in pezzi.

"Hai compiuto il tuo ultimo atto sacrilego, divinità minore, ora che hai visto il mio volto perirai della più terribile delle morti", ringhiò la voce della dea giapponese, mentre questa si manifestava dinanzi ai propri nemici.

Era una donna giapponese di rara bellezza, i lineamenti, eleganti, risaltavano ancora di più per la candida pelle, tanto bianca da sembrare porcellana, solo i neri capelli contrastavano con quello splendore, ancora più sottolineato da due occhi dorati; gli abiti erano anch’essi fatti d’oro, apparivano come un lungo kimono rappresentante le diverse lingue solari, ma, ad uno sguardo più attento, non sarebbe stato difficile capire come quello non era un kimono, bensì un’armatura disposta sul corpo della dea, con la medesima eleganza del tipico abito delle donne giapponesi, un abito d’oro e di fiamme che la faceva splendere più del sole che le era consacrato.

"Ora perirai, divinità pellerossa", sussurrò Amaterasu dinanzi al corpo ferito di Wabun, "No", tuonò allora una voce, mentre un cosmo fiammeggiante riempiva la sala, rubando l’attenzione della dea: era Esmeria, "sarò io la tua avversaria, divinità del Sole, con me, e non con un ferito dovrai combattere", concluse la figlia di Ikki, mentre anche la Sovrana dell’Astro supremo la guardava con occhi colmi di sfida. La battaglia fra le due Regine stava per iniziare.