Capitolo 37: Le Tenebre

La nera figura del dio Erebo osservava con impassibile attenzione il proprio nemico, un mortale, un individuo che, per quella divinità oscura, era meno che niente, un ostacolo appena percettibile nel suo piano costituito da vendetta e distruzione.

Camus dell’Acquario, d’altronde, ricambiava lo sguardo duro e vuoto che si poteva intravedere su quella maschera di spaventosa malvagità: i lineamenti raffigurati non erano niente che potesse definirsi umano, sembravano piuttosto l’unione fra il volto di un pipistrello e quello di un corvo, qualcosa di tenebroso e di legato alla notte anche nel suo significato più bestiale.

"Bene, cavaliere d’oro di Atena, sembra che quel dio indiano voglia far prima sporcare con il tuo sangue quest’aula, solo dopo sarà per lui il tempo di spirare", esordì con tono indifferente l’oscuro nemico, avanzando di qualche passo, per quanto, con quella lunga tunica nera ed il mantello congiunto, pareva quasi che Erebo si librasse a mezz’aria nell’andare avanti sul terreno.

Il cavaliere d’oro non rispose minimamente a quelle parole secche ed avverse, semplicemente squadrò con freddezza la divinità, sollevando le braccia per meglio difendersi dal suo attacco, che, sicuramente, si sarebbe scatenato di lì a poco.

Shandowse osservava con fiducia lo scontro, il dio pellerossa sembrava certo delle capacità del giovane mortale cui aveva lasciato la battaglia, tanto da poggiarsi riposato alla parete dietro di lui, come se, quello scontro fosse per lui scontato nell’esito, come lo erano state le sue azioni nel sigillare la potenza della divinità nemica.

La mano destra di Erebo, d’un tratto, si alzò e parve quasi che una tenebra più piccola si staccasse impercettibilmente dal resto di un’ombra ben più maestosa, e fu allora che le cinque sottili dita della divinità divennero lance dalla lunghezza impressionante, proiettandosi in avanti contro il cavaliere d’oro, pronte a perforarne il volto senza alcuna pietà.

Camus era però pronto all’assalto, così si spostò di qualche passo sulla propria destra, portandosi ad una distanza più che sufficiente da evitare la traiettoria nemica, ma, proprio quando aver superato incolume il primo attacco nemico, la divinità Oscura scosse impercettibilmente il palmo della mano e, con incredibile velocità, le dita curvarono il loro percorso, tornando indietro, verso il bersaglio dalla dorata armatura. Il cavaliere di Atena scattò quindi in avanti, lanciandosi contro il dio oscuro, i pugni carichi d’energia cosmica ed il passo, già svelto, arricchito dalla velocità della luce, che lo portò a trovarsi dinanzi al corpo, apparentemente privo di difese del nemico, in meno di pochi attimi.

"Ice fist", tuonò il santo di Acquarius, colpendo l’addome avversario con due possenti diretti, ma grande fu allora lo stupore che si lesse sul volto di Camus poiché, a contatto con il suo pugno, la nera figura di Erebo si aprì, lasciandolo passare attraverso di lui. Il figlio di Hyoga si trovò alle spalle del nemico, ma scoprì presto che le sorprese non erano finite: quella che era la nuca del suo avversario, infatti, divenne ben presto il viso, così come tutto il corpo, che parve roteare su se stesso senza nemmeno muoversi e, mentre la mano destra era ancora sollevata, ma le dita ora apparivano normali, dal fianco sinistro, partirono altri cinque strali nere dirette verso l’addome del santo d’oro.

Con un movimento inaspettatamente elastico, Camus si poggiò all’indietro sulle mani, compiendo una ruota antioraria con il corpo, così da distanziarsi dal nemico, mentre le dita oscure cozzavano contro il terreno.

"Quanto mi sottovaluti, misero mortale", sussurrò con voce sarcastica la divinità, "Funi delle tenebre", tuonò poi, mentre tutte e dieci la dita saettavano ora contro il loro bersaglio, occludendogli ogni via di fuga, da tutte le posizioni.

Camus, cercò allora d’indietreggiare, poiché la fitta rete che avanzava verso di lui sembrava provenire da ogni direzione, ma anche questa possibilità gli era tolta: quelle strali nere sembravano illimitate in lunghezza, come lo erano per direzioni possibili da prendere; fu proprio per quello che alla fine il cavaliere di Atena si vide costretto a controbattere con l’attacco, anziché la difesa.

"Ice Fist", tuonò, colpendo in più occasioni quei neri tentacoli che cercavano d’avvilupparlo, ma, fu il numero a vincere sulla costanza e la velocità alla fine: Camus si trovò intrappolato per gambe e braccia, impossibilitato anche al più semplice movimento.

Un’energia, bruciante come una fiamma, ma priva di un vero e proprio calore, parve perforare le carni del cavaliere d’oro, mentre le dieci corde lo intrappolavano, una forza oscura che dilaniava il corpo di Camus; "Senti la terribile pressione oscura del mio attacco? Questo è tutto l’odio che per anni ho dovuto covare dentro me, un potere tanto grande che, adesso, lo voglio condividere con te, santo di Atena, considerati onorato di ciò", avvisò con voce sadica la divinità, mentre, inaspettato, esplodeva il gelido cosmo del figlio di Hyoga, tanto da placare l’incandescente energia del suo nemico divino.

"Onorato di percepire il tuo odio, dio oscuro? No, non lo sarò, bensì lieto che tu abbia commesso l’errore di renderti del tutto solido, dandomi il tempo di colpirti", avvisò il custode dell’Undicesima Casa, mentre, movendo con rapidità le mani, caricava il proprio cosmo, "Diamond Dust", tuonò poi, scatenando la polvere di Diamanti, che con raggelante furia investì il nemico, intrappolandolo fra bianchi cristalli di ghiaccio.

"La battaglia è dunque già finita?", si domandò allora Camus, che, non avvertendo più il cosmo del nemico, ruppe con facilità quelle che prima gli apparivano come forti corde di tenebre, mentre ora non erano niente di più che semplici e sottili fili di ghiaccio.

"No, cavaliere, non puoi ritenerti ancora vincitore", affermò una cupa voce nella sala, mentre un’ombra nera pareva scivolare via dalla forma di ghiaccio che aveva intrappolato Erebo, spostandosi quindi sulla destra del santo d’oro e perforandone la gamba con un singolo e maestoso strale oscuro.

Mentre lo scontro nell’ultima sala del nero palazzo continuava, tre figure avevano ormai raggiunto il primo piano di quella medesima costruzione, fra le rovine dell’Isola di Mur: erano Zadra, Bifrost e Schon.

I tre raggiunsero con facilità la prima sala, trovandovi i segni della furia di Zahn ed il corpo ferito di Kain, lo Squalo d’oro, riverso al suolo.

"Generale dei Mari", esclamò con inaspettata preoccupazione la Generalessa oscura, andandosi a sincerare delle condizioni del figlio di Ikki, il cui respiro era ancora forte, malgrado le ferite lo avessero indebolito tanto da svenire di nuovo.

"Fortunatamente è vivo", sussurrò l’allieva di Jacov, osservando le ferite che dilaniavano le gambe e le braccia del mariner, "ma non ce la farà a scendere da solo la scalinata", concluse con tono preoccupato.

"Lo porterò io, sono la meno affaticata fra tutti e non sarà di certo un problema oltremodo complesso sostenerne il peso", replicò con sufficienza Zadra, guardandosi con attenzione intorno; "Cosa cerchi, sacerdotessa d’argento?", domandò allora Bifrost, "Il corpo del nemico del Generale dei Mari; non ne vedo traccia alcuna, quindi, se non è stato ucciso, mi chiedo dove possa essere", osservò la Silver saint, "Penso non sia più in questo palazzo", rispose allora Schon, con voce insicura, "non avverto più il cosmo di Zahn, la Tigre Nera, e lo conosco abbastanza bene da percepirne la presenza anche se si trattasse solo del microcosmo; in qualche modo deve averlo fatto scomparire", concluse, indicando Kain come autore di quell’azione.

"La Dimensione Oscura", esclamò allora Zadra, "Che cosa?", ripeté stupito Bifrost, "Non ho mai visto quell’attacco, però ho sentito dire che il cavaliere dei Gemelli è capace di aprire un varco verso un limbo senza ritorno, probabilmente anche il Generale dei Mari, fratello del defunto Abel, ne è capace", concluse, sollevando con estrema attenzione il corpo privo di sensi del figlio di Ikki ed iniziando a ridiscendere le scale.

"Voi raggiungete Re Freiyr, fate in fretta", sentenziò con tono impassibile, ma chiaramente preoccupato, la Sacerdotessa dello Scultore, prima di allontanarsi dagli altri due, che continuarono, al qual tempo, la scala del palazzo.

Camus dell’Acquario era in ginocchio dinanzi al nemico, rosso sangue scorreva abbondante dalla ferita apertasi nella gamba, una ferita che aveva trapassato da parte a parte carne ed ossa, "Così, ora, cavaliere d’oro, non scapperai più dai miei strali, semmai avessi intenzione di usarli di nuovo su di te", avvisò la gutturale e sadica voce del dio nemico, mentre questi riprendeva la forma che aveva prima, mostrandosi di nuovo come un’immensa ombra dall’aspetto vagamente umano.

"Pensi forse che solo la fuga mi sia data come arma, Erebo? Credi che io sia un vile, o un codardo? Ho evitato i tuoi primi attacchi, questo è vero, perché pensavo di poterti raggiungere e colpire con i possenti pugni di ghiaccio di cui sono padrone, ma sembra che questa strategia sia stata inutile, come l’uso della bianca Polvere di Diamanti della Siberia, che mio padre mi ha tramandato, un attacco che pareva averti intrappolato, ma è stato solo piccolo sepolcro per te", osservò con voce decisa il figlio di Hyoga, espandendo il proprio cosmo, "ebbene, ora ti mostrerò una corrente d’energia gelida ancora più potente della precedente, qualcosa che plachi la fluidità della tua persona, costringendo anche te a restare immobile nel punto da cui attacchi", avvisò con impassibile certezza il cavaliere dell’Undicesima Casa, "preparati a subire l’Aurora del Nord, Erebo, solleva le tue difese, se ne hai, poiché nient’altro potrà salvarti contro questo attacco", continuò con decisione, "Aurora Thunder Attack", concluse, scatenando il colpo dal gelido bagliore.

La corrente d’energia gelida, però, oltrepassò con fin troppa facilità la figura di Erebo, nel cui petto si aprì un foro, non creato dall’energia dell’attacco nemico, bensì frutto della volontà del dio, che con estrema semplicità aveva evitato il diretto contatto con quel colpo, che andò a schiantarsi contro la parete alle sue spalle, congelandola.

"Un attacco del genere portato allo zero assoluto? Padroneggi un’energia tanto grande? Non sei dunque un cavaliere da poco, ma, purtroppo per te, ancora una volta mi sottovaluti", avvisò la divinità, mentre il foro sul suo petto andava chiudendosi, "concedendomi un varco da cui attaccarti", concluse. Proprio in quel momento parve a Camus che il nemico fosse privo di braccia, ma, mentre osservava quella che sembrava una strana allucinazione, dal suolo stesso proruppero due maestose mani nere, che lo avvinghiarono fra loro.

"Abbraccio dell’Oscurità", sussurrò con tono di voce sempre più compiaciuto il dio, mentre osservava la stretta aver ragione del suo nemico, "perditi e perdi la forza vitale che ti nutre, gustando tutto l’odio che in questi secoli mi ha mantenuto vivo e deciso nel mio intento", gli augurò Erebo, immobile dinanzi a lui.

Il figlio di Hyoga sentì ancora quella fiammata incandescente, ma stavolta era diversa: la sensazione di calore andava unendosi ad un’oppressione senza pari, un peso che quasi lo schiacciava fra quelle tenebre, che ora gli occludevano persino la vista, nascondendolo fra le maestose dita d’oscurità che lo avevano avvinghiato a se, una presa da cui non pareva possibile fuggire.

Con sgomento, lo sguardo di Camus si abbassò sull’armatura che ora non brillava più del colore dorato che le era proprio, bensì pareva lentamente ammantarsi di un nero simile alla pece, un colore ben più tenebroso di quello che aveva visto sulla sua oscura nemesi portata da Jacov, un colore che somigliava sempre più a quello di Erebo, il colore della notte senza luce. E con quell’oscurità, le vestigia sembravano appesantirsi, tanto che al cavaliere parve quasi che le ossa andassero in frantumi sotto il peso di quella sacra armatura che per tanti anni era stata per lui leggera come un fuscello, mentre adesso gli era fardello indescrivibile da sopportare.

Queste sensazioni, unite al calore che ne divorava le carni, producevano un senso di rabbia ed incapacità tali da far agitare il cavaliere più di quanto lui avesse mai creduto possibile: una rabbia senza pari ora lo muoveva, scotendone la mente e spingendolo persino ad urlare frasi senza senso, ricche solo di rabbia e scurrilità, dirette contro il nemico.

"Che cosa gli hai fatto?", domandò allora Shandowse, facendo alcuni passi contro il nemico, "Una variante sul Sigillo dell’Oblio di Vize, anzi, ad essere più esatti, il vero colpo da cui deriva quella misera tecnica costrittiva del mio defunto Primo Comandante", rispose con impassibile indifferenza il dio oscuro, "questa gabbia non imprigiona il nemico nutrendosi del suo cosmo, bensì, dopo che la scateno, trasmette parte della mia essenza nel corpo dell’avversario: gli permette di comprendere l’immensa Oscurità, di comprendere me ed il mio odio per ogni forma di luce e d’esistenza, oltre che la volontà di vendetta verso gli altri dei", spiegò con calma Erebo, senza nemmeno voltarsi verso il dio pellerossa.

"E tu ti definisci una divinità? Sei solo un folle!", tuonò Shandowse, scattando in avanti verso il nemico, ma, d’improvviso, decine di lame oscure apparvero dal terreno, sollevandosi come un’immensa gabbia a circondarlo d’ogni parte.

"Lame Nere", fu l’unica frase che disse in quel momento Erebo, quasi rapito nell’osservare, ed ascoltare, la tortura che stava compiendo sul cavaliere d’oro. "Certo che sono una divinità, misero Guardiano, molto più antico di quanto tu possa mai essere; ricorda che esistevo già quando il Tiranno del Cielo e suo fratello si combattevano per ottenere i favori della Madre Terra; la mia nascita è stata una delle prime, poiché non potevano esistere il Cielo, la Terra ed il Mare senza un’Ombra, un tenebre che si avviluppasse sotto di loro; specie considerando che, assieme a quelle tre entità Ancestrali, vi era anche il Fuoco Devastatore, il Caos; e proprio colui che ora si risveglierà è alimentato dalla medesima fiamma distruttrice, egli spazzerà via l’ordine costituito e ne creerà uno nuovo, uno in cui io sarò un elemento rilevante; così avrò la mia vendetta ed otterrò il potere che le tenebre non hanno mai potuto avere, dovendo restare celate al resto dell’umanità", spiegò con soddisfazione Erebo.

"Tu, maledetto pazzo", ringhiò il Coyote d’Argento, espandendo il proprio cosmo, mentre già le lame nere iniziavano a piegarsi, dirette contro il dio pellerossa; "Non tentare niente, non te lo consiglio: posso facilmente portare avanti un attacco a tuo danno, poiché non ho bisogno di mantenere costante la mia attenzione sull’altra preda, ma preferisco finire prima con il santo di Atena, anziché lasciare a metà quella tortura per preoccuparmi di te", avvisò con disinteresse il dio oscuro, tornando ad ascoltare le urla di Camus.

E molteplici erano le urla del cavaliere d’oro dell’Acquario: quello da sempre era conosciuto come il più gelido dei dodici custodi dorati stava ora apparendo come un isterico fanciullo; privo d’ogni via di fuga, sembrava quasi che la mente del figlio di Hyoga avesse ceduto alla forza nemica, che ora lo schiacciava sia nel corpo sia nello spirito.

Qualcosa di vero però quelle tenebre lo avevano trovato: un appiglio su cui partire per iniziare a far cedere le certezze di Camus, un dubbio che attanagliava la mente di quel cavaliere d’oro, un dubbio sulle sue capacità.

Dalla fine dello scontro con gli Horsemen, Camus, come già Ryo, aveva sentito sulle proprie spalle un peso indescrivibile, non per la sua grandezza, bensì per il tipo di sentimenti che alimentava in loro: rimorso, perché non avevano potuto aiutare i compagni caduti nelle battaglie contro le divinità alleate dei Quattro Cavalieri, ma ancora di più per la scomparsa di Odeon e Tok’ra. Sembrava quasi, agli occhi del cavaliere d’oro, che lui, figlio di Hyoga, avrebbe dovuto avere più motivi, quasi fosse stato per lui un diritto, sacrificarsi per la scomparsa di uno dei Quattro, mentre, alla fine, il suo aiuto era stato relegato alla vittoria su Varuna e poi a dei brevissimi scontro contro la Guerra e la Morte, battaglie in cui era stato quasi d’aiuto secondario.

In Camus il rammarico ed il rimorso andavano confondendosi con una sottile forma d’invidia, qualcosa di innominabile, quasi un’adorazione per quei due cavalieri suoi pari che avevano avuto il coraggio e la forza di abbandonare la vita per eliminare gli Horsemen e non in battaglie inaspettate, come era accaduto a Jenghis dell’Avvoltoio, trovatosi, a quanto gli avevano narrato, a combattere contro la Bestia per salvare Botan e l’amazzone, o come era accaduto a Neleo di Hammerfish fronteggiando l’inaspettato arrivo della Pestilenza sulla sua strada; no, i santi d’oro del Leone e della Vergine erano partiti quel giorno con la certezza di spirare nelle battaglie contro gli ultimi due nemici.

Tutti, era vero, avevano vissuto quella notte come se fosse stata l’ultima per loro, sia i sette cavalieri d’oro sia i due Runouni di Giada loro alleati, ma solo Odeon aveva la certezza che sarebbe dovuto spirare per controllare la Fiamma di Smeraldo, l’unica arma in grado di abbattere la Morte; Tok’ra, poi, era tanto sicuro del proprio sacrificio da aver stretto, quasi in segreto, una promessa con Kano, suo unico compagno d’addestramento ancora vivo, e lui, Camus, invece, cosa aveva fatto? Ben poco rispetto a quanto compiuto dal santo di Virgo e da quello del Leone, come ben poco fece il giorno dopo.

Dalla scomparsa del padre, della madre e del fratellastro in Camus era andata maturandosi, silenziosa, una sensazione d’incapacità, come se lui fosse aiutato da una buona sorte a sopravvivere a tutti gli scontri, ad uscire vivo dalle battaglie minori, lasciando quelle più rilevanti ad altri, meno fortunati; questa sensazione era culminata l’anno prima, con la scomparsa di Tok’ra e Odeon, e per tutto quel tempo, quel sentimento si era sopito dentro di lui, per essere risvegliato dal cosmo di Erebo.

Tutto ciò era ora chiaro alla mente di Shandowse, divinità pellerossa preposta, con i suoi tre compagni, alla custodia della pace e, proprio per questo, capace di avvertire ogni forma d’odio e di rabbia, anche la più recondita, sopita dentro l’animo; quella era una variabile che non aveva immaginato nello scontro, ma non poteva lasciare che il giovane cavaliere rimanesse consumato dai suoi stessi sensi di colpa.

"Ascoltami, cavaliere d’oro; i guerrieri muoiono. Cadere in battaglia, per chi ha deciso di votare la propria vita alla difesa di un credo, che sia una divinità, un Regno, o semplicemente un motivo più umano per combattere, è cosa più che scontata; ma, per quelli che se ne vanno, è vero, ve ne sono molti altri che restano; uomini e donne che vivono nel ricordo di ciò che è accaduto, di chi un tempo era assieme a loro ed ora non vi è più, di coloro con cui vivevano e combattevano a fianco, un fianco che ora è scoperto. Proprio l’impossibilità di impedire questo ineluttabile destino produce il rammarico più grande nell’animo umano, ma questo non è un sentimento da soffocare e covare come una serpe, gustandone il venefico siero, no, è una parte della natura di voi uomini, una cosa che molti dei non potranno mai capire nella loro eternità. Non odiarti perché sei sopravvissuto ai tuoi compagni, non provare rammarico perché tu, figlio di un eroe antico, avresti dovuto fare come tuo padre, sacrificarti per primo, anziché andare avanti fino ad oggi, no, devi superare questo limite, devi capire quale è la vera strada che si apre dinanzi a te: la possibilità di nuove battaglie, di vincere ancora altri nemici per supportare coloro che già i tuoi cari hanno voluto salvare, per far sopravvivere altri che verranno dopo di te e lasciare che conoscano la bellezza della pace. Per questo, e per i tuoi compagni caduti, te ne prego, Camus dell’Acquario, risvegliati, riprendi coscienza di te, ricorda il motivo per cui hai provato orgoglio nel considerarti compagno di eroi del calibro di Odeon e Tok’ra, ricorda ciò e combatti quest’antica ed oscura divinità, vinci la malvagità e le tenebre che cercano di attaccarti, sia dentro di te, sia in questa sala", urlò, quasi d’un fiato, Shandowse.

"Il vero folle sei tu, semidio Guardiano, ora sarai schiacciato sotto il taglio delle mie nere lame, scoprendo quanto debole è in effetti l’animo umano", sentenziò con voce secca Erebo, dopo aver ascoltato le parole del Coyote d’Argento, prima di calare contro questi decine di fendenti oscuri che, d’improvviso, si fermarono, come paralizzati da una fredda corrente di ghiaccio.

"Che succede?", riuscì appena a dire la divinità delle Tenebre, mentre un gelo innaturale bloccava anche il suo corpo, "Kolito", fu l’unica risposta che provenne a lui dalla gabbia in cui aveva imprigionato Camus.

Freiyr di Dubhe ebbe un sussulto, sentiva il cosmo del cugino agitarsi, come sotto un terribile stress mentale, più che fisico, ma, oltre questo, avvertì, d’improvviso, tutto il vigore del Cavaliere d’oro ritornare, veemente e deciso, come una fredda tormenta di neve.

"Re Freiyr", sentì urlare il figlio di Siegfried, mentre la figura di Bifrost appariva, quasi indistinta, ai suoi occhi.

Il guerriero di Megres fu sconvolto nel vedere il proprio sovrano al suolo, sanguinante e ferito in modo a dir poco fatale, "Maestà", urlò ancora il giovane god warrior, poggiando le mani sul suo sire, mentre già Schon si era avvicinata al corpo ferito.

"Dobbiamo bloccare la fuoriuscita di sangue", suggerì la Generalessa, "devi utilizzare il tuo cosmo sulla ferita, cristallizzare i vasi sanguigni ed impedire che il sangue ne esca", continuò, rivolgendosi a Bifrost, "Cosa?", tuonò questi sconvolto, "Sì, è l’unico modo; è una tecnica che un tempo mi spiego il mio maestro Jacov, qualcosa che in gli aveva mostrato Hyoga in persona: serve bloccare la fuoriuscita di sangue congelandola, oppure, in questo caso, con la tua teca d’ametista", rispose Schon.

"Sei l’uomo che odiava Grun, giusto? Sei colui che domina l’ametista. Saprai usare a tecnica simile alla bara di corallo del Dinichtys, quindi fallo subito, se tieni alla sua vita", suggerì la guerriera oscura, indicandogli la ferita.

"Serve una precisione a dir poco chirurgica nell’uso del cosmo per una cosa del genere", balbettò Bifrost, "ed io sono ferito per di più", si disse con preoccupazione, "Ebbene? Un guerriero del Nord si fa intimorire da queste cose? Costui è il tuo Re, ti preme la sua vita? Allora agisci per salvarla!", esclamò con determinazione Schon, che pareva quasi parlare a se stessa, ormai chiara del perché il suo maestro voleva allontanarla dal destino di sangue a cui ogni cavaliere è destinato.

Il fratello di Alberich scrutò con sorpresa la Generalessa della Manta Oscura, "Hai ragione", sussurrò con rammarico il cavaliere del Nord, congiungendo le mani e portandole poi vicino alla zona ferita.

Bifrost si concentrò, doveva percepire ogni vaso sanguigno, doveva quasi vedere ogni singola lacerazione del corpo per espandervi il proprio cosmo e così fece: con una concentrazione che mai, dai tempi dell’addestramento, aveva raggiunto, il guerriero dei Megres espanse una sottile trama d’ametista attraverso la ferita, depositandola sulle ferite e chiudendole con la stessa, così da interrompere l’emorragia.

"Complimenti, cavaliere di Asgard, hai appena salvato il tuo Re ed il Regno in cui vivi", esordì dopo alcuni attimi Schon, osservando il viso di Freiyr che lentamente riprendeva colore.

"Kolito", quella semplice parola era stata un avvertimento non compreso da Erebo, che solo dopo si accorse di non riuscire più a muovere nemmeno parte delle oscure protuberanze che aveva espanso lungo la sala.

"Come puoi esserci riuscito?", domandò la divinità, mentre lentamente ritirava le mani che circondavano il santo d’oro, rivelandolo pallido, ma pronto a continuare la lotta, "Come, cavaliere? Come sei riuscito a congelare parte del mio corpo?", tuonò il dio oscuro.

"Vedi, Erebo, tu non sei un essere propriamente solido, ma la tua natura non è nemmeno liquida, no, piuttosto sei simile ad una macchia d’inchiostro, me ne sono reso conto mentre la tua stretta mi schiacciava, mentalmente e fisicamente; ti espandi dove è possibile, come un vero e proprio liquido, ma puoi condensarti, diventando una struttura ben più solida", esordì Camus, avanzando di qualche passo, "quindi, siccome la tua massa può variare dal solido al liquido, ho pensato bene di disporre dentro di te gli Anelli del bianco Cigno, tecnica che mio padre mi ha trasmesso, un colpo che ti congelerà interamente, poiché ogni particella di quel tuo corpo è in continuo movimento; non era sempre lo stesso lembo di pelle, se con te di pelle si può parlare, a stringermi, avvertivo chiaramente lo scorrere delle particelle su di me", concluse il figlio di Hyoga, sollevando e congiungendo le mani sopra il proprio capo.

"Cosa pensi di fare?", tuonò in tutta risposta Erebo, la cui calma era ormai scomparsa, "Lame nere", esclamò ancora, mentre la medesima gabbia di affilate spade oscure si disponeva attorno a Camus, "come vedi, quelle piccole particelle di ghiaccio che hai disposto nel mio corpo si sono perse, sconfitte dalla vastità delle tenebre, come te", concluse il dio, mentre già l’assalto calava contro il santo di Atena.

"Ormai è troppo tardi per ogni assalto, divinità oscura, lo scorrere delle Acque Sacre consoliderà la mia vittoria", sentenziò il figlio di Hyoga, "Aurora Execution", tuonò poi, scatenando il sacro Acquarius contro il bersaglio.

Le lame oscure si fermarono, congelandosi all’istante per quel colpo che padroneggiava con superba abilità lo Zero Assoluto, l’intero terreno fra i due nemici fu congelato, mentre Erebo cercava di aprire il proprio corpo, così da evitare quel nuovo assalto, ma grande fu la sorpresa nel constatare come l’Esecuzione dell’Aurora, al contrario dell’Aurora del Nord, non fosse un così semplice assalto, bensì una tecnica sacra, simile allo scorrere di gelide acque che, scontrandosi anche lievemente con la natura in parte liquida del dio, ne congelarono per intero la persona.

"Dunque, è finita", sussurrò Shandowse, mentre anche le lame che lo circondavano diventavano di ghiaccio, così che il dio poté oltrepassarle con un balzo e raggiungere in fretta Camus.

"Complimenti, cavaliere, sei riuscito dove nessuno prima era stato capace: hai vinto colui che rappresenta l’Oscurità", si congratulò il dio, aiutando l’alleato ad uscire dalle lame che lui stesso aveva congelato, "ora si tratta di sigillarlo per sempre", concluse poco dopo.

"No, non ancora", fu l’unica risposta che però il figlio di Hyoga diede alla divinità pellerossa, indicando la statua di ghiaccio, che, lentamente, stava tornando alla sua forma oscura e tetra.

"Erebo è come un vaso pieno d’oscurità, anche cercando di congelarlo, il ghiaccio resterà comunque in superficie ed il dio riuscirà ad uscirne in qualche modo", spiegò preoccupato il cavaliere d’oro.

"Esatto", fu la replica che prontamente proruppe dalla statua di ghiaccio, mentre, come molteplici gocce d’acqua, delle macchie nere ne uscivano, trasudando al di fuori dello stesso e formando una chiazza oscura al suolo, che mutò nuovamente nel corpo del dio nemico.

"Te ne devo dare atto, cavaliere, sei saggio ed abile, capace di mettere in difficoltà persino me. Primo di questo giorno, solo l’unità delle tre maggiori divinità olimpiche: Zeus, Hades e Nettuno, è riuscita a sostenere così a lungo uno scontro contro la mia persona, ma loro avevano poteri ben più vasti dei tuoi e di quelli del dio sciamano che ti accompagna; Zeus comanda gli elementi, Nettuno le correnti e Hades ha un potere oscuro quanto il mio, assieme potevano ben aver ragione di me, ma tu come pensi di farcela? Come credi di costringermi a restare oltre in quella prigione sommersa?", domandò con saccente sicurezza Erebo, mentre le braccia riapparivano sul suo corpo, prendendo ora la forma di due cupole.

"Vi schiaccerò, cavaliere, te ed il tuo alleato, annullerò con una tale violenza i vostri corpi che sarà inutile anche solo cercarne i resti", ringhiò il dio, mentre le due semisfere sembravano diventare gigantesche muraglie nere.

"Sia pure, fatti avanti, dio oscuro, non ti temo più. Ho capito che i limiti della scienza umana non possono vincerti, ma io possiedo un’ultima eredità di mio padre, un attacco che va oltre l’umano discernimento, un attacco che estingue persino l’Aurora", sentenziò con determinazione Camus, sollevando le braccia sopra il capo, ma lasciando le mani aperte, anziché congiungerle in un pugno.

"Avvento Nero", tuonò il dio, mentre la muraglia nera da lui creata calava con inesorabile decisione contro l’avversario e Shandowse, "Aurora exctintion", replicò con altrettanta determinazione il Custode dell’Undicesima casa, quando la corrente di gelida energia, inferiore persino allo Zero Assoluto, correva dai suoi palmi verso il bersaglio.

L’impatto fra le due tecniche fu sconvolgente: per alcuni secondi parve quasi che l’oscurità volesse inghiottire tutta quelle energia gelida, rifiutandosi di soccombere dinanzi alla stessa, ma, mentre urla di dolore provenivano dal corpo di Camus, stremato per la prolungata espansione del proprio cosmo, la muraglia nera cedette e divenne di ghiaccio, un ghiaccio che ben presto andò in frantumi, come il resto del corpo di Erebo, incapace di difendersi dinanzi a quell’attacco.

"Ora lo hai sconfitto davvero", esordì dopo pochi attimi il dio pellerossa, mentre indicava il ghiaccio, ormai in frantumi, sciogliersi in nere gocce, che lentamente cercavano di ricongiungersi, restando però divise in neri blocchi, l’uno distante dall’altro.

"Adesso, cavaliere, un ultimo sforzo solo ti chiedo: sigillare questa divinità", aggiunse Shandowse, guardando dispiaciuto l’alleato, ormai stremato.

"Che intendi dire?", domandò Camus, allo stremo delle forze, zoppicando qualche passo in avanti, "Osserva tu stesso, santo di Atena, non riesce a ricongiungere il proprio corpo: l’assideramento a livello atomico ha fatto impazzire persino lui, così particolare nella sua forma né solida, né liquida, però ben presto riuscirà a ricongiungersi, quindi dobbiamo agire in fretta", spiegò il dio pellerossa, "Cosa vuoi che faccia?", fu l’unica domanda che aggiunse il santo d’oro.

Shandowse si portò davanti al proprio alleato, lasciando che i blocchi neri di Erebo fossero l’unica distanza fra loro, "Non ti chiedo di usare una tecnica di tuo padre, bensì un colpo che lui ha subito un tempo, per ben due volte, per mano del precedente cavaliere dell’Acquario: la Bara di Ghiaccio; chiudi all’interno di quella cella gelida queste gocce oscure, solo questo chiedo", propose la divinità.

Camus non rispose, semplicemente sollevò il braccio destro, ora circondato da una gelida presenza cosmica, prima di lasciarlo calare contro la superficie del terreno; dopo pochi attimi una bara di bianco ghiaccio si alzò dal suolo, ma all’interno non vi era un corpo, bensì diverse macchie bianche, disposte in punti vari dentro la nera superficie di quella gabbia candida.

Il dio pellerossa aprì allora le mani, poggiandole sulla superficie di ghiaccio, diverse parole nelle antiche lingue dei nativi americani proruppero dalla sua bocca, parole che ben presto rivelarono l’energia cosmica di Shandowse, che si dispose sulla bara, lasciandola quasi risplendere di luce propria.

"Cosa hai fatto?", domandò appena Camus, sempre più stanco, "Ho aggiunto un sigillo divino a questa già portentosa gabbia che raggiunge lo Zero Assoluto; ormai, per millenni e millenni, sarà impossibile ad Erebo uscire da questa prigione", rispose il dio, andando a sorreggere l’alleato.

"Sei stato abile, cavaliere di Atena, un eroe al pari dei tuoi compagni", si congratulò ancora Shandowse, "Ti ringrazio, divinità pellerossa, ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza il tuo intervento", replicò con rispetto il santo dell’Acquario, mentre l’alleato lo aiutava ad uscire dalla sala.

"La battaglia è conclusa, ormai il cosmo di Erebo non è più percepibile", sussurrò Whinga, che attendeva con i compagni al di fuori del palazzo; "Il nobile Camus è riuscito nel suo intento: ha vinto il dio delle Tenebre", aggiunse lieta Helyss.

Kela non disse niente, semplicemente accennò un sorriso a Blat, il cui sguardo era perso nel vuoto, quasi sconvolto, "Erebo è caduto, non siamo più legati alla vendetta ed all’odio", sussurrò il Generale Oscuro, quasi piangendo.

Tutta quella gioia, però, impedì ai quattro di notare dei sottili occhi che li scrutavano fra le rovine dell’Isola di Mur, occhi di un mostro, un nemico che aveva seguito tutta la battaglia in silenzio.