XIII

 

Astylos aveva una gran voglia di farla finita in fretta con quello sciacallo di Ade. Sentiva impellente sia il bisogno di tornare all’aria aperta, sia quello di dirigersi lui verso Atene, al più presto possibile. Vorvolaka però non pareva intenzionato a lasciarlo andate tanto facilmente; il suo sguardo e il suo volto, incorniciato dalle zanne che adornavano il suo elmo, lo rendevano tenebroso oltremisura.

"Sei pronto a subire il morso del Vampiro?"

Astylos rispose imperturbabile: "Vorresti azzannarmi? Sarà ardua impresa per i tuoi denti incidere la mia armatura d’oro."

"Ma non sarò io a farlo. Osserva i miei fedeli compagni. Voi che ghermite la vita, venite a me!" La sia armatura si accese di un colore rosso scarlatto, quello del suo cosmo, e apparve attorno a lui una moltitudine di pipistrelli.

"Farfalle… pipistrelli…" disse Astylos placido "Sembra che voi servi di Ades stiate a vostro agio tra le bestie. Che sia forse perché tali ad esse voi siete?"

"Come osi!" strillò Vorvolaka con gli occhi iniettati di sangue.

"Sono stanco si sopportare le vostre farneticazioni. Troppo ho dovuto indugiare di fronte al tuo compagno d’armi ma ora che il mio allievo si è allontanato non temo di dar fondo al mio potere."

"Non ti basterà! Prendete la sua vita miei fedeli compagni!" gridò e le creature della notte si scagliarono verso Astylos il quale, sollevando il braccio destro e stringendo il pugno, disse senza scomporsi: "Sagitta!"

Immediatamente numerose frecce d’oro scaturirono del suo pugno e intercettarono le creature che, una ad una, caddero a terra, dissolvendosi.

"Ora hai capito con chi hai a che fare?" disse il Cavaliere d’Oro.

"Con un presuntuoso!" rispose l’altro furente e si lanciò verso Astylos. A pochi metri da lui spiccò un balzo e poi piombò su di lui. "Morso del vampiro!" Il cavaliere tuttavia lo schivò facendo perno su un piede, lo Spettro passò oltre e lui, lesto, lo afferrò per i capelli che fuoriuscivano dall’elmo, tirandolo indietro con forza e precipitandolo sulla nuda terra. Dal basso quello provò a colpirlo ad un calcio ma ne ricevette in cambio uno ben assestato. Provò ancora a librarsi in volo ma si accorse con orrore che le ali dorate del paladino di Atena gli permettevano di fare la stessa cosa.

"Non sei ancora stanco di giocare?" chiese Astylos con fare inquisitorio.

Vorvolaka era stupefatto e dolorante per i colpi ricevuti ma l’orgoglio lo spinse a lanciare l’ultima sfida: "Ti fai burla di me, ma te ne pentirai. Denti del Vampiro!!!" Dai sui bracciali numerosi colpi scarlatti saettarono verso l’avversario che però rispose da par suo.

"Spiacente, te la sei voluta. Onda saettante!" Una sfera di energia colpì Vorvolaka che, attraversato da bagliori dorati e abbattuto, cadde a terra, con l’armatura in frantumi in più punti.

"Ed ora, prima che tu torni dal tuo signore" fece Sagitter avvicinandosi "mi dirai quello che sai."

"Stolto…" gemette l’altro. "Sento che il sole sta sorgendo… per voi è già tardi…"

"Tardi per cosa?" ma quello con una mossa fulminea e inattesa gli sgusciò dalle mani.

"Denti del Vampiro!" Astylos si ritrasse con sorprendente abilità, tuttavia gli artigli del nemico lo colpirono all’addome.

"Ora il veleno ti porterà via!" disse con un ghigno di soddisfazione Vorvolaka che credeva, anche se ormai allo stremo delle forze, di aver messo a segno il colpo decisivo.

"Ne sei proprio sicuro?" Il bracciale della surplice scricchiolò e con orrore lo Spettro si rese conto che i due spuntoni non avevano penetrato la corazza dorata ma si erano sbriciolati al contatto con essa. Sferrò un pungo con la mano sinistra ma l’altro lo bloccò con la destra e gli torse il braccio, poi con una ginocchiata lo inchiodò alla parete rocciosa.

"Non voglio perdere altro tempo con te." Così dicendo Sagitter lasciò la presa, facendolo cadere, e si diresse di corsa verso l’uscita. Doveva tornare al più presto al Santuario.

Vorvolaka, ora riverso a terra, con un filo di voce disse: "Stolto, non andrai lontano…" Si levò a fatica in piedi e liberò un lamento lugubre e potente che si insinuò lungo i cunicoli e gli anfratti più reconditi. Innumerevoli pipistrelli e vampiri risposero al richiamo delle onde sonore emettendo a loro volta un richiamo. Astylos non poté udire nulla fino al momento in cui furono le pareti rocciose ed emettere sinistri scricchiolii. Comprese di essere in pericolo ma non riuscì a fare che pochi passi ancora e uno sprone roccioso franò davanti a lui, bloccandoli la via. Poco dopo tutta la volta della galleria crollò fragorosamente, travolgendolo. Tutto si spense, anche la flebile luce che gli era parso di intravedere. Uno sbuffo di polvere aleggiò sinistro e beffardo nel mondo esterno: l’uscita non era che a pochi passi da dove il cavaliere era caduto.

"Non lo sento… non lo sento più!" si lamentava il cavaliere piegato sulle ginocchia. L’elmo giaceva per terra, rovesciato, e calde lacrime gli rigavano il viso.

Mai gli amici avrebbero creduto di vederlo così. Lui, emblema del coraggio e della fierezza, sempre di buon umore e gioviale.

"Il suo cosmo… è come se fosse sparito… Fratello!"

Agghiacciato, il cavaliere che stava alla sua sinistra cercava di percepire di lontano quel cosmo e, con orrore, si accorse che non era il solo che sembrava essere sparito. Si girò verso il compagno che stava in piedi vicino a lui, con lo stesso volto preoccupato, e disse sottovoce: "Nemmeno io avverto più la loro presenza…"

Un’onda fragorosa si abbatté sulla spiaggia. "L’ombra sembra averli inghiottiti…" disse il cavaliere "almeno che…".

Callimaco guardò Lisandro, il quale, asciugandosi le lacrime, si alzò in piedi e con voce ferma disse: "Facciamo ciò che è in nostro potere per difendere la dea. Ma chi deve pagare per questo, pagherà."

Adrasto annuì con fare pensieroso. Ci pensò ancora un attimo e disse: "Sono un semplice pescatore, nipote, e quel poco che mi hai detto mi farebbe pensare che sei fuori di testa, ma ti ho visto fermare il mare a mani nude e ben posso credere che una dea ti protegga. Tu e il tuo amico siete giunti per portare la salvezza a Thera e proteggerla dall’ira di Poseidone."

Archita disse parlando a bassa voce: "Non l’ira di Poseidone, zio."

"E di quale nume celeste allora?"

Fu Anassilao a rispondere: "Non è bene fare il suo nome." Adrasto capì e raggelò.

Erano ancora assorti quanto un boato sordo e protratto si udì percorrere l’isola, mentre dalle alte coste rocciose sassi, detriti e ghiaia precipitavano crepitando in mare. Anassilao, il più freddo e lucido in quel momento, prese per un braccio zio e nipote e si inerpicò rapido lungo il pendio, temendo che una nuova ondata li sorprendesse. Quando, ormai al sicuro, si guardarono attorno, più di quello che videro fu quello che non udirono a spaventarli. L’isola pareva sospesa in un attimo senza tempo, senza vita, senza suoni.

Fu il verso di un gabbiano a riscuoterli dal loro torpore, un grido che suonò feroce in a quel mondo fattosi silenzioso.

"Per gli dei!" urlò Adrasto. "Il villaggio!"

Guardarono tutti nella medesima direzione e videro degli sbuffi di fumo che si sollevavano dalle povere abitazioni, alcune delle quali si erano sfaldate a causa del sisma. Un occhio attento avrebbe potuto osservare scene analoghe in tutti i villaggi vicini, sia quelli dei pescatori, sulla costa, sia quelli abbarbicati sulle pendici di quella che fu Kallistè prima di divenire Thera. Poi al di sopra di crolli e rovine, ruppero quel silenzio innaturale pianti, lamenti e grida di disperazione.
Adrasto, disperato, si lanciò a capofitto lungo il sentiero, con la massima velocità che gli consentivano le sue gambe di anziano pescatore. Nel giro di pochi minuti il trio giunse al villaggio di Adrasto. Molte abitazioni erano state danneggiate in modo serio; pietre, travi di legno, terra e pagliericci ostruivano gran parte delle strade. Uomini e donne correvano qua e là come impazziti, coperti di polvere, taluni di sangue. Bambini e vecchi si aggiravano, smarriti e confusi, nei loro abiti logori e strapparti. Molti, e soprattutto donne, piangevano e invocavano il nome dei figli innanzi a quelle che erano state le loro case.

Adrasto sparì in un vicolo, Anassilao fece per seguirlo ma guardando verso il compagno s’arrestò di colpo. Archita era terreo in volto, gli occhi sbarrati e lo sguardo, solitamente vivido e profondo, pareva ora vuoto. Il ragazzo, partito anni addietro per diventare cavaliere di Atena, contemplava ammassi di rovine di quello che un tempo era stato il suo paese.

Adrasto ricomparve, disperato e piangente, con un giovane uomo in braccio, morto. Qualcosa doveva averlo colpito violentemente al capo, coperto di sangue. Archita lo riconobbe e non riuscì a trattenere le lacrime.

Anassilao stava cercando disperatamente le parole adatte per quel momento ma, di fronte a tanta distruzione e disperazione, non ne trovava alcuna. A poco sembrava valere, in quella situazione, tutto ciò che aveva appreso ad Atene. Le uniche espressioni che gli affioravano alla mente erano maledizioni che avrebbe voluto rivolgere all’indirizzo di chi aveva provocato un tale flagello, anche se sapeva che vano era adirarsi con i Numi, soprattutto con Colui che aveva apertamente dichiarato guerra agli uomini. Assorto in tali meditazioni su sentì chiamare: "Signore, dov’è mia madre?"

Una ragazzina piangente, con i capelli bruni scompigliati e magrissima, zoppicava venendo verso di lui. Le sue gambe erano rigate di sangue, la sua tunica impolverata e lacera. Anassilao si tolse il mantello e lo avvolse attorno a lei, la prese in braccio e l’adagiò in quello che doveva essere stato un orto.

"Cercherò io tua madre, piccola."

"E la troverai?" disse lei con le lacrime agli occhi.

Anassilao si sentì come qualcuno gli volesse strappare il cuore dal petto, poi trovò la forza per dire: "Se gli dei mi assistono, la troverò di sicuro."

"Ma tu sei un dio?" disse un’altra voce. Voltandosi, il cavaliere vide un bimbetto che lo guardava con gli occhi colmi di meraviglia. "La nonna dice sempre che gli dei sono bellissimi e si vestono con abiti eleganti e luminosi come quelli che hai tu!" proseguì alludendo all’armatura d’oro.

"Credo che la nonna non si sbagli, ma io non sono un dio." rispose cercando di sorridere per mettere a suo agio il bimbo, poi lo invitò a sedersi vicino alla ragazzina, ferita e tremante. Istintivamente lei gli porse un lembo del mantello.

Anassilao si alzò e sparì tra le case in rovina. Di sfuggita vide Adrasto e Archita che, steso a terra un giovane uomo, si apprestavano a dare aiuto a quanti ancora ne avevano bisogno. Nuvole nere erano arrivate all’improvviso a turbare quella che era parsa fino a quel momento una limpida giornata d’inizio estate.

I due bambini, avvolti nel mantello di quello che era loro apparso come un dio, attesero. Passò un tempo indefinito ed ecco l’uomo d’oro vestito tornare a loro. In braccio portava una donna, che respirava a fatica e aveva il volto tumefatto, volto che però si accese quando vide la figlia scattare in piedi e venire verso di lei barcollando. Anassilao posò la donna che poté dunque riabbracciarsi con la figlia. Poco dopo, esitante, anche il bambino si univa a loro.

Il cavaliere di Atena stava per lanciarsi in aiuto di altri quando notò che la luce si stava affievolendo. Alzò gli occhi al Sole. Le nubi nere, apparse dal nulla poco prima, lo stavano avvolgendo. Nello stesso tempo percepì dei cosmi, ostili e malvagi, avvicinarsi dal mare.

"Presto!" disse con voce decisa rivolto alla donna "Porta i bambini fuori dal villaggio verso la montagna. E dì a tutti quelli che vedi di seguirti."

"Perché?" fece la donna con aria smarrita e stupita.

Il cavaliere, dovendo persuaderla con dolcezza per non spaventarla ulteriormente, disse: "Ho fatto tanta fatica per tirarti fuori di là, qui c’è ancora troppo pericolo. E poi dal mare arriva qualcosa che non mi piace."

"Ho capito." fece la donna "Il mare sa essere cattivo a volte. Venite bambini!" E si allontanò portando in braccio la ragazza e dando la mano al piccolo. I due fanciulli si voltarono ancora una volta a regalare un sorriso a quello strano personaggio che li aveva salvati. Anassilao ricambiò il saluto poi invitò altre persone che stavano nei pressi a seguirli. Proprio allora ricomparve Archita, un’ombra profonda sul viso. Al cenno dell’amico si avvicinò perché aveva capito.
Lungo le strade ora non si vedeva nessuno e le ombre si allungavano tra muri e muriccioli mentre il cielo di faceva sempre più buio.

"Mostratevi vigliacchi!" intimò Anassilao.

Un coro di risa stridule giunse a risposta e subito dopo ecco apparire cinque Spettri di Ade con le loro corazze nere lucenti, adorne di artigli, maschere di morte, corna, uncini e serpi contorte.

"Sarete i primi." disse uno di loro.

"I primi a far cosa?" chiese sprezzante Anassilao.

"I primi a soccombere!" rispose un altro dalla voce profonda "Nostro compito è liberare queste terre dalla presenza umana. Le truppe degli Inferi vi dimoreranno a breve, cosicché il sommo Ade possa controllare la superficie del vasto mare oltre che la terra bruna. Io, Balchos della Stella della Terra della Brutalità, farò in modo che ciò avvenga nel modo più rapido possibile!"

"E credi di riuscirci?"

"Certo! Non sarete voi due a fermarci. Gli Spettri della Stella della Terra Cadente, della Terra Opprimente, della Terra d'Attacco e della Terra Disgustosa faranno scempio di voi, di queste genti e dei loro sozzi villaggi." E una nuova risata lacerò il silenzio.

Archita, che fino a quel momento non aveva proferito parola, fece alcuni passi avanti. Nella sua voce vi erano determinazione e rabbia, quasi ferocia. Mai Anassilao lo aveva udito parlare così.

"Questa è la mia terra, immonda feccia di Ade. Non vi permetterò di causare altro dolore a queste genti. Le vostre minacce di distruzione sono un motivo più che sufficiente per annientarvi. Che nessuno osi avanzare di un altro passo per provare a spargere sangue sulle alte coste di Thera o con queste mani vi rispedirò nell’abisso donde siete venuti."

"Stolto! Siete solo due contro cinque, cavalieri di Atena!" disse un altro con una voce sibilante. "Sarete voi a essere annientati."

In quel mentre notarono che Anassilao si stava allontanando, voltando loro le spalle. Balchos allora apostrofò Archita con scherno: "Vedi, il tuo amico, quel vigliacco, ti lascia solo. Non hai scampo!"

Anassilao, senza nemmeno voltarsi si arrestò un attimo e disse: "Non c’è bisogno della mia presenza. Non perdo tempo con cinque cadaveri che camminano."

"Come dici?" fece Balchos inferocito.

"Hai capito bene, idiota." rispose glaciale "Voi siete già morti." E si allontanò.

I cinque si guardarono attorno dubbiosi poi i loro sguardi si fermarono su Archita. La sua armatura ora ardeva e una volta stellata sembrava brillare dietro di lui. Il cavaliere incrociò le mani al petto e poi le distese. Miriadi di stelle parvero danzare nell’aria circostante.

"Non sfiorerete nemmeno gli abitanti di quest’isola!" disse con voce autoritaria "Tornate nell’abisso che vi ha generato! Per il Sacro Ariete! Rivoluzione Stellare!" Fu come se un’intera galassia si abbattesse sui cinque. I primi due si dissolsero all’istante, i rimanenti ebbero il tempo di provare a difendersi ma il disintegrarsi delle loro corazze e delle loro membra fu un tutt’uno. Un turbinio di astri inghiottì la loro oscurità. Quando Archita abbassò le braccia davanti a lui erano rimasti solo pochi frammenti anneriti e fumanti delle armature dei nemici. Poco dopo anche il sole tornava a baciare Thera e il suo arcipelago.

Plistene fissava il mare, limpido, azzurro, che si stendeva per leghe e leghe davanti a lui. Tante domande gli si erano affacciate alla mente in quelle ore e ben poche erano state le risposte che aveva saputo trovare. Ora solo una cosa gli pareva impellente, un rapido ritorno ad Atene. Eppure aveva l’impressione che qualcosa di fondamentale fosse lì, a loro portata.

"Al porto." disse rivolto ai compagni "La traversata sarà lunga e abbiamo poco tempo."

Lisandro si era già avviato, chiuso in un dignitoso silenzio. Callimaco stava per seguirlo quando Plistene lo trattenne per un braccio: "Ascolta!"

"Che cosa? Non avverto nulla."

"Vieni con me!" disse deciso l’altro che si lanciò in direzione di un pendio. Callimaco tenne dietro e quando stava per arrivare la crinale percepì pure lui, nitidamente, la presenza di un cosmo ostile. "Plistene, lo avverto chiaramente!"

I due giunsero sul crinale che dominava la baia. I loro occhi non videro nulla, furono i loro sensi a suggerire la direzione. "Eccolo!" disse Plistene e già Callimaco aveva a sua volta individuato una sagome nera, adorna di quelle che sembravano essere delle ali. A colpirli maggiormente fu qualcosa di brillante che si portava appresso. Udirono Lisandro chiamarli dal basso. Non vi era tempo per le spiegazioni. Si lanciarono in avanti e provarono ad avvicinarsi al nemico. Quando però questi si accorse della loro presenza si bloccò per un attimo. Sulle prime parve non accadere nulla poi, d’improvviso, un bagliore ed un suono assordante. Plistene e Callimaco furono investiti da un qualcosa che non era troppo potente, anche data la distanza, ma che fu sufficiente a stenderli a terra, quel tanto che bastava per far si che la nera presenza sparisse dietro ad uno sperone roccioso.

"Ci ha colpiti da quella distanza… Grande forza la sua." mormorò Plistene.

"E purtroppo ci è sfuggito. Cosa pensi che portasse con se?"

"Non ne ho idea, Callimaco. Di sicuro non è un bel segno che si sia dileguato così, ignorandoci, quasi che la sua missione fosse un’altra che non affrontarci."

"Maledizione!" disse Callimaco "E noi che abbiamo battuto inutilmente l’isola e non siamo riusciti a individuarlo." Si accorse però che la frustrazione era dipinta anche su volto del compagno.