Nuit de l'Enfer

(Parte prima)

Terrified again

Of not loving

Of loving and not you

Of being loved and not by you

Of knowing not knowing pretending

Pretending

I and all the others that will love you

If they love you

Unless they love you

Samuel Beckett

Ermete:

Strimpellavano i vulcani, quella notte.

No: era uno con mille bocche.

Tutto era strano su una terra di nessuno, forse tua, comunque non mia di certo, anima cara.

Strimpellavano i vulcani, quella notte.

L'intera mia voce era un'unica canzone: il cielo grigio di sulfuree nubi, la melodia d'una speranza nuova. Speravo in cosa?

Di piangere, un giorno, per la gioia; imparare le lacrime d'un uomo realizzato.

La vita sfuma i sogni, la morte li conserva… a pezzi.

"L'amore non esiste, non fra le persone" parole tue, bugie! quante bugie! Sempre e solo bugie! Per cosa? per rincorrere il tuo sogno, la tua bellezza assoluta ed imperitura?

I desideri sublimati, ogni paura… un riflesso brillante che ritorna.

Lo strimpellavano i vulcani, quella notte…

Anche se fosse verità la menzogna d'allora, oggi cambierò le carte in tavola: la ragione sarà del pazzo.

I riverberi d'un sorriso andato non si sono spenti; sebbene tu non sia più, io ti vedo… ti vedo! Leggero! Passi di piuma sul ghiaccio, soffio di vento sul gelo della mia disperazione, su un'acqua ardente che non riscalda, ma che piano ed inesorabilmente consuma le pietre e lo spirito.

Anima.

Stella d'imbrunire, sotto la neve che per te si dirada. Per te!

Iddio, potessi ricordar le tue canzoni…

Orfeo che passa l'inferno; tu ne emergi da salva Euridice, rubi la musica altrui, le pulsazioni d'un altro.

T'avanzi, costante e irreale su una landa pallida; i primi raggi della sera, dita incantate ti scompigliano i capelli.

Tante lacrime, la vista offuscata, occhi stanchi del mondo che non può offrirmi altro - cosa ha mai avuto da darmi? cosa? - braccia tiepide d'un fratello che ha dimenticato il sole. L'anima d'una donna fredda, che non conosco e di cui ignoro il ruolo nel gioco, aleggia minacciosa sui fantasmi del vespro.

Su noi.

Riesco, però, a sentirti… il dolce mormorio del tuo respiro…

Vivo.

La tua musica di singhiozzi, l'ultimo pianto e poi gli occhi freddi. Adesso, bruciano di febbre o fuochi fatui…

Sapremo scaldarci anche a quelle fiammelle tremolanti e stremate dal non essere, dal non vivere.

Acqua…. Esangue.

Fluido abbattimento, una goccia di tristezza sul marmo perfetto.

Ben lungi da me l'armonia, ma tu ti fai sempre più prossimo ed io ti attendo.

Come sempre.

Al momento.

Ricordi…?

Vivo.

*

- Non possiamo andare avanti così!

Gridò, scaraventando a terra il sacco colmo di mele, che era appena andato ad acquistare in paese, giù fra la gente pronta a fulminarlo con occhiate ambigue in una bolgia di mormorii maliziosi, sconvolti, compassionevoli o colmi d'odio… dicerie oculari d'ogni sorta!

Irritanti. Irritanti come il comportamento dell'altro, accanitosi sul non capire o, semplicemente, sul non volerlo fare.

- Così come?
- Guardati!

Aveva ritrovato un po' di calma, la stringeva fra le dita come un filo di seta pronto a perdersi nel vento, a volteggiare nella polvere d'un fuoco ancora acceso, lì sull'Etna.

Aveva riagguantato quel po' di compostezza e distacco che Zoroastro gli succhiava, goccia su goccia; sanguisuga affamata, bisognosa di nutrimento.

Perché?

Un lungo momento di silenzio, lungo e terribile, lungo e intollerabile.

Fremeva come una corda di violino, in attesa; pregando sommessamente, con un pensiero inespresso, che Zoroastro proferisse qualcosa, qualunque cosa, o lo degnasse d'uno sguardo. Uno sguardo soltanto e sarebbe stato salvo!

Salvo!

- Lasciami in pace…
- Pace? Pace?! E cosa dici a me, eh?! Come pretendi che io trovi la mia pace se per te, ormai, non esiste nulla al di fuori di quel pezzo di marmo?! Marmo, Magister! Marmo! Non ho uno scopo e non sai inculcarmelo, sei bravo solo a piangerti sulle ginocchia! Non vivi e te ne rammarichi! Che vuoi scolpire? I tuoi fallimenti?
- Credevo potessi comprendermi.

Era triste, ed Ermete non poteva sostenere quella nota di malinconica commiserazione nella voce del suo… suo cosa? cosa erano, in realtà, loro due?

- Che c'è da capire? Te lo esplico io: ti stai consumando per un'opera che non riuscirai a scovare dentro di te, e ne sei pienamente consapevole. Ancora… mi assegni esercizi, esercizi su esercizi, senza incrociare i miei occhi, dandomi la schiena; mi allontani quanto prima. Non è finita… stai qui, giorni e notti, intorpidito da un'inerzia totale e paralizzante… e, per giunta, mi fai gentilmente sapere di considerarti incompreso! Insomma…

La voce gli si strozzò in gola, tramutandosi all'improvviso in un mormorio flebile e spezzato, soffocato da profondi singhiozzi e da un ringhio di rabbia contro se stesso, furia istintiva per essere scoppiato in un pianto convulso davanti a lui, a lui che non avrebbe, per nessuna ragione al mondo, dovuto vederlo colà e che, nonostante ciò, continuava a non voltarsi: la linea diritta e tesa delle sue spalle robuste era immobile e ferma.

- Bambino…
- No! non parlarmi! Né così né in alcun altro modo! Non sono un bambino…. Non sono un bambino…. Per Giove! Ho quattordici anni! Quattordici! Sono uomo almeno quanto te, ma - è vero - come fai a saperlo? Ho perso il conto del tempo in cui hai dormito solo… tu non…. Io non ti comprendo, non colgo il senso della tua follia, ma tu non compi nessuno sforzo per venirmi incontro! Non l'hai mai fatto…

E, con le gote rigate da lacrime scintillanti e copiose, corse via sbattendo la porta dietro di sé.

*

Eros:

Le tue mani calde e sussurri, sussurri insensati.

Sospiri e lacrime e poi… Che fai?

Parli di cose strane, cose che non conosco e ti stringi… ti stringi… ti stringi!

Sapevo. Sentivo sin dall'inizio. I giochi felici nelle terre dal tardo meriggiare, compostezza statuaria, colonna vittima di febbri sconosciute e incurabili.

Pietra corrosa.

Tradito da quanto ti porti dentro, perché il fuori non ti tocca. Neppure io.

Non ti amo: troppo egoista e plagiato dalla sorte beffarda per farlo. Ti voglio bene. Soffrire.

Sei prigioniero di te stesso.

Médée… volle liberarmi o ingabbiarmi, non posso dirlo, non ora. Sono a metà: nulla è mai espresso in toto ed io resto sospeso.

Apnea.

I battiti del mio cuore impazzito.

Bellezza che non muta e non si piega ai giorni, alla nostra guerra. Vita.

Bellezza indomita.

Perita.

Tu palpiti ancora: ultimi spasmi d'un animale agonizzante. Moribondo nel cuore.

No, non saprò salvarti. Chi mai ottiene in soccorso desiderato?

Darò. Darò perché tu deceda o rimanga, libero o incatenato. Acqua schiacciata contro la terra o impalpabile vento in ascesa.

Sii ciò che brami. Avrai l'addio cui aneli.

Da lui.

Da me.

Mi abbandono, concedendomi completamente al tuo incubo. Incubo?! Sogno. Io sogno di nascere e nasco! In compenso, avrai il tuo idillio di morte.

Zoroastro… insegnargli cosa? immortalare chi?

Ucciderò la tua creatura. Sono pulsante anch'io; gli strapperò un'immagine dal petto ed una stilla di rugiada.

Rugiada, intrisa di notti.

Lucente al sole.

La tua anima e sarò uomo anch'io.

Non più muto spettatore.

Ecco un corpo per dar commiato ai tuoi spettri. Amico…

È quanto vuoi. Baci eloquenti, i tuoi. Troppo!

E fremo… arcano calore e fretta di venire al mondo.

Eccoti muscoli, carne per congedarti dalle visioni del passato.

*

Correva.

Ignorava dove le gambe lo stessero conducendo, attorniato da una spessa cortina di tenebre, sotto il cielo sereno dimentico della luna, punteggiato da qualche stella; ma continuava a correre… via da lui o dalla memoria che ne aveva.

Diversa.

Fuggiva.

L'oscurità gli scivolava addosso, costantemente uguale a se stessa, passo dopo passo più cupa… più disperata.

Senza uscita.

Troppe cose erano fosche, troppo torbide per essere interpretate e capite: i suoi pensieri erano un libro chiuso oppure non aveva mai imparato a leggere.

A leggerlo.

L'aveva chiamato "bambino"… bambino!

Scappava anche dalla propria infanzia, dalla fanciullezza che Zoroastro gli aveva rubato, strappato di mano e fatto a pezzi, gettato al vento.

Gli teneva il cuore in pugno e, invece di vivere, di vivere e consentirgli di persistere nella ricerca d'uno scopo; invece di ripagarlo per tutto l'amore che stava trafugando e confessargli le parole dimenticate, risalenti ad anni prima; preferiva consumarsi contro un pezzo di pietra.

Invece di amarlo lo uccideva.

E il giovinetto stava abbandonando, per una manciata di nulla, la propria morte vivente, lì di fronte al niente, avanzando fra rocce scoscese e remoti bagliori che spiccavano sul cielo monotono, giù su prati e fra arbusti. Veloce…

Veloce finché la terra cedette il passo… al vuoto.

Oltre l'orizzonte doveva esserci il mare, il mare su cui erano stati felici, dove aveva colto ciò che il maestro temeva: era lui; egli era la sua maggior paura. Probabilmente l'unica, magari la principale.

Pugnalandolo alle spalle, credeva forse di esorcizzare un sentimento negato e rinnegato vanamente?

Aveva dimenticato? come aveva potuto?

I bei colori del bosco, nel tempo in cui la primavera già assume le pingui fattezze dell'estate, della calda estate italiana. Tutto un gaudio di colli si presentava loro, un armonioso cinguettio d'uccelli, il mormorare sommesso d'un rivo che si snodava sinuoso sino alle acque d'un lago stagnante. Un alito d'aria ed un sospiro di vita.

Un suo bacio.

Aveva scordato?

- Al diavolo…. Al diavolo per avermi mostrato tutto questo e permettermi di distruggermi nel rimpianto. Al diavolo!

Singhiozzava ancora, troppo stanco per proseguire la propria avanzata verso la perdizione, forse finalmente alla pace della tomba; privo delle ali adatte a volare. Se anche le aveva avute, una volta, ormai erano spezzate.

Anelava al cielo e, con una mano protesa verso un piccolo punto luminoso, si lasciò cadere pesantemente sull'erba, abbracciandosi le gambe e sommergendo il viso fra le ginocchia.

- Non mi resta che la notte.

E, probabilmente, aveva ragione.

*

Ermete:

Forse discorrevi di dio. Un lungo ed inutile soliloquio.

L'ennesimo nonsenso di tutta questa storia.

Magari una corda sottile, un fine finimento d'argento vibrava nell'aria, turgido di tensione.

Probabilmente neppure tu sapevi cosa volessi dalla vita né, tantomeno… da me.

Ombre. Scendevano cupe nubi sulle screziature delle tue iridi. Violacee.

Forza animalesca, ci attirava e allontanava.

Amici - Nemici.

Finalmente diventammo quanto ti chiesi di spiegare, mesi prima, non certo anni!

Le cose seguono comunque il loro corso. Agiscono da sé. Eventi che non sappiamo controllare. Destino.

Paura.

Terrore di non finire, di non terminare in tempo e d'aver perso tutto… per nulla.

Zoroastro…

Hai dimenticato?

Cos'è codesto misterioso sorriso?

La tua bocca addolcita da una tenera piega. Zigomi alti. Occhi profondi. Stesse fattezze d'allora. Così… così luminoso di….

Vita.

- Zoroastro…

Il profumo della tua pelle chiara, luce spettrale e funeraria, guance lisce d'un giovane pieno di forza.

Muto desiderio.

- Bambino mio…

Parli, mi parli di nuovo. L'identica voce delle ore felici , sotto le stelle.

Felici!

Signora…. Perché t'incuteva tanto timore l'idea della gioia? Perché rinnegarla? Perché rinnegarmi, senza scacciarmi, ma chiudendomi fuori da te?

- Tu… tu…

Non trovo una domanda da rivolgerti: tante cose mi sono oscure, una moltitudine di quesiti mi affiora sulle labbra e uno m'assilla, m'ossessiona.

Piango ancora. Per te, che insisti nel tormentarmi.

Un ultimo cosciente goccio di miele prima di distruggermi fino all'estremo limite dell'eternità.

Un ultimo assaggio di ambrosia, per poi precipitarmi giù dell'Olimpo. Siamo incatenati. Mi trascinerai con te!

E che sia. Non ho intenzione d'aspettare nuovamente.

- Tu…
- Io sono qui.

Questo mi basta.

Non voglio sentire altro. Lasciati stringere. Concedimi un barlume di dimenticanza fra le braccia dei miei ricordi.

*

Per tutte le illusioni che erano cadute all'improvviso, senza vacillare prima dell'istante del crollo; per il suo tono vuoto, malinconico e intristito, cupo d'una malinconia che era da addebitarsi a lui e a lui solo; per quanto gli risultava incomprensibile e insensato; si sentiva svuotato…

Deluso.

Finché si ha qualcosa in cui sperare, in cui riporre ciascun grammo della propria fiducia, allora si è bambini, ingenui fanciulletti che ancora poco hanno appreso dalla cruda quotidianità, infanti inermi di fronte alla vita.

Di fronte a lui, alle sue spalle diritte ed affilate, taglienti più di lame.

Senza speranza non si è esposti al pericolo di soffrire, al rischio incombente di perdere l'anima, confondendolo in quel grande calderone di fattori.

Senza felicità, nessuno può portarsela via.

Altrimenti, si sarebbe aleggiati in un fluido di minaccia onnipresente, spaventosa ma...

Eccitante.

Aveva sbagliato, commesso l'ennesimo errore nel corso d'una lezione che non sarebbe mai finita; non era riuscito a mantenere le aspettative del maestro, ma aveva considerato costui le sue?

Non contava affatto: era secondo ad un blocco di marmo vergine. Perché? Ancora perché…?

Non aveva più nulla da offrirgli?

- Eppure… ho tanto da… ricevere…. Ricevere.

Singhiozzava, incapace di fermarsi, di concedere un alito di riposo al respiro provato dalla corsa e dal pianto. Morire di sofferenza… perire e rimanergli sulla coscienza, angosciandolo fino alla tomba con la consapevolezza d'una colpa fatale.

Tradimento.

Che idee assurde! Assurde! La sua esistenza non aveva né capo né coda, fatta di immagini fluttuanti prive d'ogni importanza, riflessi effimeri e passeggeri.

Viveva per lui, solo per lui. E, smarrendolo, perdeva ogni cosa, anche se stesso.

Fuggendo dalla sua bellezza tenebrosa… si sarebbe dilaniato il cuore, ingoiandolo morso suo morso.

Ma, in fondo, prima o poi sarebbe dovuto succedere, fra due come loro, all'inseguimento di un sogno più grande; era inevitabile.

- Ermete…

Un lieve sussurro dietro di sé - il rumore dei passi era stato attutito dal fiorente manto erboso - lo riportò alla realtà, strappandolo bruscamente ai propri pensieri.

Ai propri vaneggiamenti.

Mentre l'altro gli si avvicinava piano, avanzando con circospezione, come temendo di essere troppo brusco o, semplicemente, invasivo; il ragazzino si teneva il viso premuto contro le rotule, interdetto alla luce fioca della notte impenetrabile, rischiarata da qualche timida stella.

- Ermete…

Gli chiedeva il permesso di assediare un regno privo di padrone, l'insidiosa terra di nessuno; di ripiombare con la propria entità fisica in un caos tutto mentale.

Un inferno privato.

Non venne consenso… né rifiuto.

Zoroastro gli si sedette accanto, rivolgendogli uno sguardo che, benché non levasse gli occhi ad incontrare i suoi, il discepolo si sentiva addosso, interrogativo ed inquisitore…

Tentatore.

- Ermete…
- Tu…. Tu…

Non sapeva che dirgli, voleva solo allontanare la minaccia di ricascarci, di farsi nuovamente abbindolare da qualche frasetta dolce ed un'interminabile carezza. Non sarebbe tornato in gabbia; non più.

- Io sono qui.

E gli passò un braccio intorno alle spalle, tirandoselo al petto in un gesto paterno e lasciandolo piangere contro la propria clavicola.

- Non volevo. Credimi, piccolo mio, non volevo…

La voce gli tremava, specchio di una volontà lacerata da rimorso e esitazione. Si era, però, spinto troppo oltre: la sua opera…

- … io devo finirla.

Mentre pronunciava le ultime sillabe, si sentì un idiota o soltanto un pazzo.

Un ulteriore singhiozzo del compagno, eccessivamente fuori di sé per mantenere finanche il minimo controllo del contegno misterioso che lo rivestiva d'una luce attraente e sensuale, intrisa d'una virilità velata dalla svolazzante coltre dell'adolescenza; fu per lui una pugnalata inattesa.

Era un verme. E lo sapeva.

- Io… Ermete… non, non…

Balbettava turbato, visibilmente a disagio, indeciso se rimanere fedele alla causa o venire meno al dovere di cavaliere, sacrificando le convinzioni di un'esistenza intera ad un faccino che sarebbe forzatamente scomparso, presto; molto presto.

Era là, fuori del proprio personale universo, disseminato di vittime ed arte; era là, accarezzando una creaturina tremante cui avrebbe offerto tutto, ma che non lo guardava, non accettava quelle pseudoscuse né le respingeva, rimanendo distante, avvolto in un fosco mantello di dolore.

- Ti chiedo scusa.

Gli aveva sollevato il mento fra tre dita, costringendolo ad incrociare gli occhi con i suoi, percependo in lui un brivido gelido, che gli correva per la schiena.

Ermete aveva paura, probabilmente anche Zoroastro.

Temevano per ciò che le scelte di allora, le decisioni annebbiate e irrazionali d'un frangente d'eternità che sarebbe passato, lasciandosi dietro conseguenze imprevedibili, avrebbero comportato.

Erano due Cancer, dalla calma soltanto apparente, sotto la quale ribolliva il fermento d'un tormento radicato, una sensibilità oppressa dall'onere del dovere.

Erano fragili.

La vita li avrebbe massacrati.

Entrambi, però, non l'avrebbero mai ammesso; non l'uno di fronte all'altro.

- Posa per me.

E, così, scagliava la prima pietra della loro lapidazione.

*

Eros:

Non ho nulla, e pretendo di darti tutto.

Sono un tramite. Messo viaggiatore. Messo di qualcosa che non mi appartiene.

Un nemico.

Cosa c'è di bello nella guerra? Nel sangue? Nella morte. Quella ch'era gente non sarà più niente.

Niente.

Invincibile: la mia assenza di morte è invincibile, non posso sconfiggerla. Non la vedo. Non sento.

Médée…

La bellezza, ma quale? Quale? La tua?

La tua non lo è: si tratta di disperazione, pura disperazione.

Non hai accettato il continuo divenire, l'allontanarsi del traguardo. Ad ogni passo.

Non poteva essere parziale. L'insegnamento completo ti ha sconvolto.

Nemici…

Ferito a tal punto che cerchi di dimenticarlo.

Inseguo i miei nemici.

Invano.

Non sono in pace né in conflitto. Non con me né con alcun altro essere al mondo. Non sono esistito. Mai. Culla. Non sarebbe stato poi molto diverso.

In fondo.

Cosa so io? Adesso? Cosa? cosa?!

Signora? Impartire lezioni, io?!

Ti insegno la perdizione pur non avendo avuto alcunché da smarrire.

Non ho un tesoro da scovare. Mare deserto. Mare maledetto!

Come te. Gelido marmo.

Come lei. Lei che taglia fili su fili, vite su vite ed intreccia le trame.

Penelope sfila di notte e ritronca i miei sogni. S'illude: non ne ho.

L'unico gaudio che ottiene è tenermi, imprigionarmi qui senza sperare, senza osare pregare.

Per cosa? perché finisca.

Non avevo questo. Eppure è arrivato da sé; il buon profumo del sole.

Con te e col tuo dolore.

Non l'ebbi mai domandato. Mai.

Oggi mi prendo il mio idillio. Una beffa a chi m'ordinò di non ridere e consacrarmi al gelo, come i suoi occhi…

Spenti.

I tuoi bruciano, ardono di mali convulsi; non più gelidi come sul litorale greco, alla vigilia della partenza. Distanti…

Non li saneremo, non ora e non qui.

Contagia anche me, fremo di scoprire quel che ancora non so.

Agitato. Tu non lo eri mai: già avevi la tua conoscenza. Io no.

Contagia anche me: nella malattia finirà il torpore deficiente di salute o infermità.

Privo di imperfezioni, privo di… vita.

*

- Siediti lì.

Armeggiava con le candele per l'illuminazione, contemporaneamente cercando gli attrezzi, frugando freneticamente nella penombra, rapido nella sua agitazione. Il ticchettio dei passi, lo sfregare metallico di lime e scalpelli poggiati assieme per puro caso, in un gesto sonoro, era l'unica reminiscenza che avessero del tempo, nella capanna di gelida pietra, con le imposte della finestra sbarrate per non lasciare entrare una notte che sarebbe stata lunga.

Ermete si accomodò sul bordo del letto sfatto, il volto congestionato semi inghiottito dall'oscurità, i pugni chiusi posati sulle ginocchia, come uno scolaretto impaurito dal potere dell'autorità.

In fondo, anche lui era del tutto inerme, sottomesso. Aveva provato a fuggire, spinto da rabbia o delusione; ma aveva fallito e non gli restava che continuare.

Infelice e fedele.

Zoroastro si fermò, in bilico fra il tremolante bagliore di tre piccole fiamme e le tenebre rossastre, costrette a strisciare sulle pareti, cacciate via dallo spazio intriso d'una luce dorata che giocava sulla pelle abbronzata delle gambe del ragazzo.

- Porti ancora i pantaloni corti.

Osservò il maestro, senza una particolare inclinazione nella voce, ricevendo in cambio una cupa occhiata obliqua, carica d'attesa, di paura dell'ignoto.

"Non sono più un bambino"

Ogni cosa sarebbe stata diversa, ma doveva riuscire a fissarsi nell'anima la sua innocenza, imprimerla nel proprio cuore di pietra.

- … benché tu ormai sia un uomo.

Non voleva essere ironico né pungente, ma probabilmente l'altro, a giudicare da come tese improvvisamente i muscoli del collo, che iniziavano a rilassarsi, aveva di netto frainteso.

Si avvicinò, perdendo le sue pupille negli occhi rossi e gonfi di lui, contandone i capillari irritati, cercando i solchi lasciati dalle lacrime sulle guance belle e calde come il sole. Si chinò, sfiorandogli la pelle liscia ma tesa d'una gota, gelida.

- Non credevo che… sapessi piangere.
- Non credevo che me lo avresti insegnato e non sapevo che facesse così male.

Aveva un tono inespressivo, distante, del tutto disincantato, smarrito nella minuscola goccia che, quasi nascosta, gli stava già scorrendo giù per la gola.

- Non voglio… non posso perderti.

Era tenero, gentile mentre gli sussurrava quelle parole che, pronunciate da qualcun altro, sarebbero suonate come una dichiarazione d'amore; e gli lasciava scivolare la camicia bianca su una spalla, rivelando una clavicola armoniosa, immobilizzata in un'unica contrazione di muscoli e volontà.

- Mi chiedo se tu mi abbia.
- Ti ho mai avuto, bambino mio?

*

Ermete:

 

- Cosa cerchi da me?

Cosa? cosa? il profumo della tua pelle non è stato lavato via dal mare. Dalla morte. Ci sei di nuovo, come se non fosse cambiato nulla; nulla.

Le tue labbra. Lo stesso sapore.

Non rispondere. Taci. Baciami e basta.

Saprò farti mantenere il silenzio.

Maestro… non hai nulla da spiegare. Nulla.

Non rendermi conto dei tuoi errori.

Non del tuo dolore.

Non di quello che mi hai fatto ingoiare, gustare lentamente.

Piano. Boccone su boccone.

Il mio cuore… dilaniato a morsi; un monumento in pietra.

Fermo. Vieni qui. Abbandonati alla sorte e non scappare.

Sei fuori del tempo, distante dal destino.

Cancer… per te l'Ade può aspettare. Ora sei qui per me, solo per me.

Insegnami l'ultima lezione, amore. Insegna.

- Il tuo saluto, piccolo mio.

Sei fuggito, corso via, ungi da me, dalle mie braccia e dai miei sogni. Lungi da quello che siamo adesso, e saremo potuti essere.

Sono ubriaco di dolore e credo finanche di poter essere felice. Felice…

- Ave magister, ego periturus mortem et te saluto.

Ridi. Cristallo argentino che sbatte sul ghiaccio, del tuo tocco disanimato.

Questa notte d'incubi antropomorfi non mi darà che rimorsi. Sono avvolto dai miei rimpianti, che sghignazzano allegri.

- Sei diventato un uomo; non morirai… non per me.

Mi sciolgo in un pianto profondo, sommesso e pacato. Come un bimbo cresciuto, contro la tua spalla, la tua clavicola un tempo morbida e calda. Oggi è di marmo.

- Ex vita discedo tamquam ex hospitio, non tamquam domo. Rammenti? La cosa più bella, quella più cara… l'unica veramente importante…

Parlavi, parlavi anche allora. Dicevi cose che non capivo, in una lingua strana. Al lago. Un fiore giallo fra le mani. Conservalo negli occhi.

Avrei presto appreso, scoperto il senso stesso delle parole, non quello che gli davi.

Mi hai amato, spettro? O torni nel mio sogno per placare la mia paura e lavarti la coscienza?

Il sole. Giorno e mattina. Vita e giovinezza.

Infanzia.

Innocenza… carpita.

- … sei tu, discipule.

E così… così parlò Zoroastro.

*

Zoroastro lasciava scivolare le dita sul marmo liscio, ancora liscio, ignaro di che fosse uno scalpello, lasciando copiose tracce d'acqua, gocce che scorrevano lungo la pietra pallida, illuminata dalle candele, incupita dalla notte profonda.

Accarezzava il suo capolavoro nascosto, sospirando di vivo desiderio, spasimando di stringere un sogno senza doverlo distruggere, di concretizzare un ideale pur non trovandosi costretto a sacrificarlo alla realtà. Fare del proprio amore, di quel fanciullo ancora sconvolto che posava per lui seminudo, le mani giunte, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo assente di chi cerca altrove la risposta alle proprie domande; fare di quella carne mortale un monumento che non teme il tempo e legarlo a sé, trasformandolo nella sua stessa felicità, tale era il suo folle proposito.

Fissava il blocco marmoreo, come se potesse prendere da sé le sembianze dell'efebo; fissava il marmo e continuava a tastarlo, a cospargerlo del liquido che non sarebbe sgorgato dai suoi occhi, non allora; insisteva in un umido abbraccio, per rubare il pianto della terra o espiare quello del ragazzo.

- Dimmi… dimmi se mi ami.

Parlava con lui o con l'opera?

Non avrebbe mai dovuto azzardare la domanda, regalando all'altro la convinzione d'avere qualcosa di più che un evanescente e freddo insegnante, ossessionato dalla propria arte, da perdere; eppure la richiesta era affiorata sulla sua bocca, concepita da un cervello stanco e accaldato, impegnato a combattere col presente deluso e gli spettri del passato… col fantasma di lei.

- Cosa?
- Dimmi se mi ami.

Lo ripeteva, incapace di tacere o scolpire o guardarlo negli occhi e raccontargli il proprio dolore, spiegargli ciò che gli sarebbe toccato patire fra qualche anno oppure di lì a pochi giorni, rivelandogli il dramma d'essere padroni del tempo e schiavi di sé stessi.

Di sé stessi e delle proprie paure.

- Lo sai che ti sono molto affezionato.

Ermete tentennava e si interruppe un istante, incerto se continuare o abbassare le iridi rilucenti sulle dita intrecciate, che si contorcevano spasmodicamente.

- Ma tu mi ami?

Fu un attimo di silenzio, poi un monosillabo aleggiò triste, pressappoco disperato, rotolando sul pavimento e contro i muri.

- Sì

Strinse più forte la materia inerte che stava esplorando col tatto, stordito dalla stanchezza; la avvolse fra le braccia, come a volerla stritolare in un tenero amplesso di morte, e si rese conto di non possedere altro.

*

Eros:

Mi accarezzi; con le mani e un mormorio mi tocchi.

E che sia.

Vieni pure, saziati di questo mio tesoro di niente, vuotalo, rendimelo colmo di una cosa che non conosco.

Tante cose non conosco.

Médée…

Vi ho sempre invidiato. Lo sai? Non conto assolutamente nulla. Non per lui. Non per te…

Lei… lo disse: "Non accostarti, non accostarti mai ad una rosa… con troppa tenerezza."

Triste… troppa tenerezza.

Io non ne ho mai ricevuta, da nessuno.

- Dimmi… dimmi che mi ami

Parli con lui. Con lui. Il tuo magister…

In cosa mi ha erudito la mia?

Gli dici frasi tenere, vaneggiamenti d'amore.

A non essere felice…

Stringi me ma chiami lui, vuoi solo lui.

… per non soffrire.

Zoroastro…

Per non soffrire.

Non proverò dolore. Non stanotte. Amalo, amico mio; ama pure il tuo ricordo.

- Perché mi hai lasciato? Perché…

Amalo senza fargli domande cui non saprà rispondere.

Il male di alzarsi ogni mattina. Sempre stanchi di doversi stancare ancora. Seguire i suoi passi di donna, sottili e leggeri sulla neve.

Neve…. Irreali.

Vento…

Il riflesso privo di sostanza dei suoi capelli mi attirava. Magnetico richiamo animalesco.

Non si è lasciata pettinare da me, neppure una volta. Non mi ha concesso neanche… un briciolo di tenerezza.

Di felicità.

Donna….

- Perché?

Non singhiozzare. Non più. Non vorrà vederti piangere prima di andar via, senza dirti niente.

- Perché?
- Per non soffrire.

*

Si era addormentato tutt'a un tratto, non sapeva neppure lui come. Semplicemente, il sonno era sopraggiunto, il corpo si era inclinato nell'ultima involontaria contrazione, dei muscoli di spalle e collo, prima del rilassamento; e gli occhi si erano serrati, sprofondandolo in un oblio scuro, senza luce né sogni.

Ed in quello stato di completa incoscienza, ricordava d'averlo sentito piangere, lì contro la statua, piangere e bagnarla di acqua e lacrime, di rancore e disperazione.

Ricordava di aver percepito la propria rabbia salire su dalle profondità del cuore, ma poi spegnersi in una molle stanchezza, soffocata dal vento, nel disinteresse totale.

Ricordava di aver desiderato rompere quell'inutile pezzo di marmo a mani vuote e sporcarlo del proprio sangue, dargli un fluido vitale, per il solo gusto di distruggere un essere "carnale" come lui, un'effigie mortale.

Ricordava di avere imparato la lezione.

Avrebbe fatto altrettanto, in un riposo macchiato d'inchiostro; l'avrebbe ritratto in una parola, su un pezzo di carta da strappare, dimenticare.

Quando si svegliò, era già mattina; timidi raggi di sole si infiltravano fra le imposte lignee, rischiarando Zoroastro, nei suoi vent'anni o poco più, che gli giaceva accanto, tirandolo a sé con un braccio.

Malgrado il corpo del maestro fosse caldo, teneramente tiepido ed insolitamente morbido, disteso, Ermete aveva freddo, un freddo profondo ed intenso. Per quell'uomo, non era che un essere da superare, al fine di creare qualcosa di superiore.

Per quell'uomo non era niente.

Lo spostò, con delicatezza, per non destarlo, e si alzò, infilandosi una tunica, prendendo carta e penna e recandosi a rubare uno stralcio di giorno.

*

Ermete:

È tutto un alito di vento, puro vento che penetra in me, puro vento che mi squassa, correndomi dentro all'impazzata.

Sei tutto un alito di vento. Vento che ulula e mugugna. Sospiro di dolore; soffio di piacere.

Aria impazzita, ribelle, che si trascina indomita lingue di fuoco. Il profumo del mare.

Onde. Rumore di onde e di acqua. Non c'è più la neve.

Lontano… lontano dal gelo… lontano con te.

La sera era così fredda. Fredda.

Un cupo borbottare saliva dalla terra.

- Baciami

Correnti si inseguivano. Il litorale ombroso.

Sale. Labbra di sale. Mielose.

Carta. Accartocciarsi di carta. Notte ed inchiostro, scuri sul bofonchiare del monte.

Il colore del fumo.

Un filo di sogno, tu dietro a dormire.

A morire.

Uccidi anche me oppure prendimi!

Ridi! Ridi! Chinato all'indietro, fra le mie braccia, muscoli lisci, capelli corvini in una cascata nera di luce annebbiata.

Perduta.

- Hai sempre la stessa risposta.

Tu vestito di stelle, un'immagine illusoria del mio Mediterraneo. Mio!

Di chi sono io?

Forse libero? Liquido schiavo d'un corpo. Fluido legato alla terra.

Di chi sono io?

Poche parole da prendere e stracciare.

Rabbia poiché ero il tramite della tua arte.

Rabbia poiché non riuscivi a realizzare un'opera, a ridisegnare me.

- Perché tu…

Poche parole che non parlano d'amore, né di odio o di felicità.

Poche parole che non dicono niente.

Poche parole da spartire in silenzio tra noi. Ladri di ombre.

L'alba sull'orizzonte, il tuo respiro nel mio - vento…- dopo tanto tempo. Era un giorno remoto.

Io ti appartengo.

- … non hai che una domanda.
- Non cambiare mai.

L'avevi capito; avevi compreso il perché del tuo inevitabile fallimento.

*

Era sorprendente con quanta delicatezza la luce strappasse la maschera della notte alla terra, velando e scolorando, in tinte pastello, un miraggio del mare non molto lontano. Tutto riprendeva vita, terrena e pulsante, come la carne di chi dolcemente riemerge dal sonno, caldo e irrequieto come il cuore di un bambino, l'erba cullata dal vento, cresciuta su rocce che mai avrebbero indotto a credere di poter ospitare una qualsiasi manifestazione animale o vegetale.

- Una mela?

Zoroastro gli era comparso, ancora una volta, alle spalle, camminando col suo impercettibile passo felpato, afferrandolo e plasmandolo con quella voce…

- No.
- Dovresti mangiare di più, sai? Non ti fa certo bene…

Ermete si voltò bruscamente, fulminandolo con uno sguardo innervosito, recante ancora le postreme reminiscenze d'una furia che bruciava come una ferita aperta. Non l'avrebbe perdonato, non poteva più ormai e, forse, l'altro era intenzionato ad arrivare esattamente a quel punto.

- Cosa vuoi?

Fu sorpreso di scorgere nelle iridi violacee del maestro un luccichio sereno, tranquillo, che tremava, colpito e scosso, il riflesso dell'illusione che cadeva, anche in lui.

Rimase lì, a guardarlo, inarcando appena il collo sulla spalla sinistra, e mostrandogli due polposi frutti rossi che stringeva in mano, in attesa che il bambino si addolcisse, che si calmasse, convinto che si trattasse solo di un capriccio passeggero, sicuro che si sarebbe dissolto. Tutto passa; ne era certo.

Non venne, però, dall'esserino un tempo scherzoso e burlone, leggero e incostante, pronto a scappare da un momento all'altro; dal piccolo angelo ribelle che aveva amato tanto, e desiderava ardentemente come sempre, come quel giorno nel bosco, con un fragile fiore giallo fra le dita; da quel sogno che stava distruggendo perché divenisse reale; non venne neppure un sibilo.

- Pensavo che le avremmo gustate insieme…

Azzardò timidamente, troppo a disagio per chiedere spiegazioni di sorta, consapevole di doverne egli stesso altrettante. L'allievo non avrebbe potuto comprendere, non a fondo, né la situazione né tantomeno lui; e il giovane Cancer glielo leggeva in volto, scritto a grandi lettere, in una tristissima ed inesprimibile poesia che cantava di amore e condannava l'egoismo di un amante incapace.

Ben conscio di ciò, tentennava, era indeciso esattamente al pari della sua sensei anni prima; ciascuno si struggeva per un cuore che non doveva battere, che non doveva essere felice per non perdersi nel regno dei morti.

Non poteva.

Per non soffrire.

La vita di Ermete sarebbe diventata una grande opera, la stessa che Zoroastro non era in grado di realizzare, perché adorava il fanciullo, ne era completamente stregato.

Quella notte, giacendo con lui, tirandolo a sé come nei giorni gioiosi, liberi sul Mediterraneo; quella notte aveva visto ed era giunto alle dovute conclusioni, ricordando il proprio addestramento e… lei.

Non l'aveva mai odiata, mai, neppure dopo che l'ebbe abbandonato.

"Non ti voglio"

Sette anni, circa 61362 ore consumate bruciando insieme, perseguendo arte, inferno e bellezza; avevano trascorso il periodo più bello della loro esistenza, la prima giovinezza lui ed il momento in cui ci si affaccia alla maturità lei, senza domande e senza pretese, aspettando che le porte dello spirito si spalancassero.

Cavaliere del Cancro… l'unico che non rimanesse legato a questo mondo.

Aveva creduto che fosse possibile vedere l'averno senza morire, continuando a godere delle meraviglie della terra e la beltà di Médée, come Proserpina raggiante a primavera, circondata da rose, che lo dimostrava inconfutabilmente.

Poi, invece…

"Mi spiace ma…. Non ti voglio"

E gli aveva insegnato il più grande segreto, strappando sotto il suo naso un disegno idilliaco, il suo ritratto immersa in un mare di petali bianchi.

Per superare il confine, devi rendere l'anima al diavolo, condannarti spontaneamente ad essere cadavere pur vivendo, provando, vivo, ciò che sentono le tue vittime, morte.

Quel "non ti voglio" l'aveva ammazzato, gli aveva fatto ingurgitare ogni frammento del proprio cuore infranto, spingendolo a ritrovare la passione fra le braccia di un efebo, cui impartire la lezione della quale, solo, non sapeva sostenere il peso, amandolo per distruggersi con lui.

Uno schizzo stracciato, gli occhi di lei gelidi e puri come ghiaccio spesso gli tornavano in mente, quando rivedeva lo stesso guizzo di impassibile distacco, di indifferenza, in quelli del suo pupillo, il passato nello sguardo del presente.

Da allora avrebbe scolpito nel marmo, perché nulla gli togliesse ciò che gli dava la forza di continuare, di svegliarsi ogni giorno e seguire una dea distante… troppo distante. Ermete… l'avrebbe privato d'ogni fiducia, della voglia di vivere e di morire, mettendolo a cavallo fra due universi, ma l'effigie del ragazzino elfico, che correva libera fra i monti, sarebbe rimasta, come una pietra tombale.

*

Eros:

Fino a che punto il dolore può portare un uomo…

Fino a che punto un uomo può restare legato a se stesso o a quanto ritiene di essere, da semplice stolto e nulla di più.

Dimmelo!

No, sospiri ancora. Le tue labbra ora sono distanti.

Parli con lui o lo contempli, perso in un sogno di aria e metallo.

Una rosa d'argento.

Il suo sorriso e il vento fra quelle mani che stringevano neve, e il mio pugno.

Colpire…

Non volevo farle male. Non voleva che la ferissi.

Provare piacere. Oh, dammi il piacere completo ch'ella non m'ha concesso: era d'un altro e non m'ha insegnato ancora il nome col quale le stelle invocano il fanciullo Amore.

Eros…

Non certo io! Non io!

Mandare a fondo l'attacco, fin dove perviene il mio fiato, sulla sua bocca un bacio per dimostrarle d'essere forte.

E poi? più niente.

Ammira una rosa e non la toccare, fragile fiore cosparso di spine.

Ha promesso, senza parole, la mia dose di dolore, ritarda il regalo per non soffrire.

Tu vivi, Médée è già morta. O è come me.

Come me…

Acqua, figure infrante su terre bianche e infinite.

Le chiavi d'inferni e paradisi fra le sue dita, chiuse vicine… con troppa tenerezza.

Sono un esile animaletto che brama i suoi occhi chiari, scovare la luce nel buio, mattina d'inverni polari.

Paglia sottile dei campi, memoria del mare di Grecia, libero vento che modella i corpi.

Marmo dell'ultima casa.

"La fine e l'inizio del mondo"

Gelida su una colonna, aveva in mano una cetra e ne ritendeva la corda spezzata.

La fine e l'inizio d'un sogno.

"Che intendi dire?"

Non rise né pianse, ferma come una statua con le sopracciglia inarcate.

"Che presto starai più di là che di qua"

Vuoto di templi e di chiese. Capanne tiepide abitate da chi non ti vede o comprende.

Errare da pellegrino, avendoti al fianco, per lande assolate e brulle.

Adesso.

Agosto, i campi di grano e la luna.

I campi di grano, e te che rinneghi sofferenza ed amore.

*

- Che stavi facendo?

Domandò chinandosi sul piccoletto, cercando con gli occhi il testo scarabocchiato sul foglio che quegli nascose rapidamente sotto una piega della candida tunica.

- Perché t'interessa saperlo?

Sorrideva di nuovo, ed era un buon segno, un prodromo meraviglioso, perché i morti non sanno farlo. Era solo ferito, ma gli restava ancora tutta la vita per poter morire.

Non vorrei mai vederlo… ammise tra sé Zoroastro, pensando al momento in cui anche il suo amore sarebbe stato distrutto.

- Perché sono il tuo magister e avrò pure qualche diritto su di te, no?!

Rispose scherzosamente, agganciandogli il collo, in una mossa giocosa, con il gomito e arruffandogli i capelli dai riflessi blu con l'altra mano.

Era un piacere per l'anima sentirlo almeno superficialmente felice e voleva goderne a pieno: il marmo non sa sghignazzare come un ragazzino di quattordici anni.

- Ma questa mela?
- Prima consegna il capolavoro alla somma opinione del tuo qui presente superiore, poi se ne parla!

Non riuscivano a computare le frasi, scossi entrambi da lieti singhiozzi che nascondevano paura, paura di perdersi, consapevolezza che non sarebbe più stata come prima, né l'esistenza né la serena campagna in cui il discepolo svolgeva, lontano dai sensi della gente comune, i propri esercizi. Una muta tempesta le aveva sconvolte, la notte aveva rubato ogni colore, non rimaneva che la finzione.

Zoroastro, con uno spintone che rasentava i limiti della slealtà, avvalendosi della maggior forza delle proprie braccia, costrinse Ermete supino nell'erba, mantenendolo per le spalle e osservandolo ridere, smarrendosi con lui in quell'assurdo gioco adolescenziale spartito fra due adulti, maturi e formati, che fra non molto avrebbero dovuto salutarsi. Dirsi addio. Intanto, lasciava scorrere veloci le dita sul torace del monello che era lì, incantevole e spaventosamente importante, indispensabile, caldo come Médée non era mai stata, già avvolta allora nel dolore o nel distacco, indifferente.

Le iridi scure del più grande continuavano ad essere maliziosamente beffarde, mentre il volto gli si contorceva in una smorfia che imitava male l'espressione d'una "persona seria", col sol risultato di far sganasciare ancor più il giovinetto sotto di lui.

- E va bene! Va bene, mi arrendo! Mi arrendo! Consegno le armi, ma il solletico no…
- Da' qua!

Afferrò il pezzo di carta che l'altro sventolava in un pugno e lo lasciò libero, sedendosi lì di fianco e srotolando il prezioso bottino di guerra. Era bianco.

Si girò per protestare, ma Ermete era già in piedi, sulle bellissime gambe da cerbiatto, con le mani posate sui fianchi, in una seducente posa d'attesa, pronto a correre, impalpabile come aria.

- Briccone d'un quattordicenne!

L'uomo balzò d'un tratto, repentinamente gettandosi all'inseguimento del compagno che, con altrettanta prontezza, volava sui prati, libero da qualsiasi peso; tentò di agguantare una risata nel sole, protendendo un braccio verso la sua esile schiena infantile, con un immane sforzo, nonostante il quale le dita non riuscirono a sfiorare il corpo adorato.

- Non mi prendi!

Gridava, il respiro per nulla affaticato, come se stesse camminando, e il sensei gli si sarebbe rivolto con altrettanta facilità, se solo avesse avuto una parola, una sola parola per lui e per il mondo.

Probabilmente, la covava, calda e protetta in fondo all'anima dilaniata, martoriata dal significato di quell'unico termine che, bene o male, in fin dei conti, era la causa e lo scopo di tutto.

Il monello si fermò improvvisamente, col viso verso quello del maestro, anch'egli arrestatosi in un colpo, a pochi centimetri dal suo naso.

Estrasse dalla cintura un foglio stropicciato, con scarabocchi illeggibili; glielo mostrò, come si fa con la testa d'una bestia rara uccisa, come Davide col capo di Golia; e lo strappò. Con gesti lenti, ripetitivi movimenti del polso, lo fece in mille minuscoli pezzettini e, stringendoli fra le palme, soffiò, lasciandoli svolazzare in direzione del destinatario dei versi che, ormai, erano i frammenti di quello che, in altre circostanze, si sarebbe rivelato un capolavoro.

Zoroastro strinse i polsi dell'implume poeta, lo accarezzò piano, come se potesse sparire insieme ai brandelli di carta frustati dalle correnti ascensionali, agli stralci di pensieri non espressi.

Questi, dal canto suo, posò, da bimbetto quale era, la testa contro il torace del cavaliere, per nascondergli gli occhi rilucenti di lacrime, velati di confusione.

- Cosa c'era scritto?
- Cose che già conosci.

Levò il capo per guardarlo, in un attimo più alto, più saldo…

Più uomo.

- Voglio la tua anima.

*

Ermete:

Bambino… ero bambino. Solo, col gelo, la fame ed il sole, la foresta dai molti sussurri, ma senza parole. Solo.

Mi credevo grande, selvaggio e imperituro. Non sapevo… non sapevo che fosse la morte.

L'hai trovata? Hai trovato la tua eternità? Anima…

"Tu sei vero?"

Avevi un nome, io avevo il tuo. Avremmo potuto chiamarci, ma non lo facemmo.

Non facemmo nulla di logico. Mai.

"Guarda il lago"

Bianco su azzurro sporcato di terre, questo scorgevo lontano. Piume brune nascoste. Foglie occluse su porte di casa. Ne ho mai posseduta una?

Faccio ritorno al passato. Vivo in un sogno.

Chinato, il mio viso e un sorriso innocente; promettevo ciò che non mi aspettavo; ho una domanda.

"Che c'è di strano?"

"Guarda bene!"

E si inginocchiò accanto a me, occhi contro occhi rispecchiati fra torbide onde frementi, increspate di platino chiaro.

Mi voltai e mi smarrii nelle sue iridi viola.

Viola, mon coeur, viola!

Ho chiesto al mio amore vestito di notte, che fosse la vita, il senso del nostro finire; nelle screziature d'opale che ti porti in faccia ho scoperto il riflesso d'una fine tetra, l'ho rubato e lo reco nel petto.

Ho chiesto al mio amore vestito di sole di darmi una goccia d'ambrosia e la promessa di un istante perpetuo, che tu mi hai forgiato con lava e con pianto, con fuoco e lapilli di un'Etna già vecchia.

Il mio amore con gli occhi viola, viola, è rimasto di sera legato al tramonto.

"Sai cos'è un bacio?"

*

La risposta lo fece tremare, sconvolgendolo molto più in profondità di quanto si possa pensare.

"Voglio la tua anima", gli risuonava nelle orecchie; ronzante, ossessivo, vero e presente… non gli dava pace. E, mentre si chinava sulla testolina del ragazzo, inclinata sul collo in una tipica movenza che gli era propria, ed avvertiva la sua lingua tiepida infilarsi fra per proprie labbra, carica di un'irrefrenabile onda di desiderio o rabbia repressa, rassegnazione frustrata, si sentì privato di una parte di sé, di un soffio di vita; ed ebbe l'impressione, staccandosi dall'abbraccio e barcollando all'indietro nel tentativo di muovere qualche passo verso nessun luogo, lontano da quel demone, di ripiegarsi come un contenitore vuoto, un sacco che si affloscia sul pavimento del granaio durante d'inverno.

"Che ti succede?"

Lo aveva raggiunto e lo sorreggeva ma, dietro la zelante e innocente preoccupazione, si nascondeva la consapevolezza, che rendeva il quesito, or ora posto, puramente retorico.

- Niente. Tutto a posto… Tutto a posto.

Lo aveva ripetuto, come per convincersene, allorché si lasciò cadere sull'erba, circondato dalle braccia morbide e lisce di Ermete, il quale si era genuflesso al suo fianco, senza lasciarlo, braccandolo con uno sguardo velato di qualcosa che le parole non sono in grado di definire, permeato d'una poesia che, in nessun'epoca, sarebbe mai stata scritta.

È un baratto equo, no? Finché non mi strapperai la mia, io ti lascerò la tua a posto. Non perderemo, in ogni caso.

Si era espresso con calma, non con un distacco da 007 o il conturbante fascino di chi è troppo appassionato per gestire il gioco e non dare a vedere la propria esaltazione, consentendo così che la luce rivelasse i fili dei burattini; si era pronunciato come se la cosa non avesse alcuna importanza o la sua realizzazione fosse tutt'altro che imminente e non lo riguardasse.

Entrambi gli uomini, però, tralasciavano un dettaglio: Zoroastro non aveva più nulla da insegnare all'ormai forte e preparato, padrone del settimo senso, alunno.

Entrambi ignoravano di appartenersi.

*

Eros:

Correvi veloce, le esili gambe di bimbo muovevano il tempo del vento. Il tuo passo era scandito dal rumore del silenzio, un bisbigliare di grano che non osava infrangerlo.

Avresti gridato alla luna il tacere dei suoi occhi, lo vedevo nei tuoi movimenti rapidi, scorrevoli e impauriti, ma… statuari.

Forse ti aveva picchiato. Ormai era solito farlo. A volte.

O forse eri tu a farti battere. Ed è una cosa diversa, molto diversa.

Sulle tue guance una lacrima rossa, nei tuoi polmoni il niente, o un nome soffocato che ti strozza ancora.

Vi ho invidiati, comunque.

Ho bramato soffrire il dolore della vostra carne, il male delle vostre menti. Il mio è peggio.

Ma, qu'est-ce pour nous, mon coeur?

Qu'est-ce?

Cosa e poi perché.

Nasci con un destino, nasci con un ruolo da teatro, ma puoi declinare l'offerta, puoi rifiutare la tua buona stella.

Una lacrima rossa.

Vero?

Dimmi che è vero… ti prego.

Il maestro ti chiese una promessa d'amore, io ti domando un giuramento di verità.

In cambio di lui.

Un mazzo di rose e la convinzione che non pungano.

Tu sei veloce. La voglio vera o, perlomeno, verosimile.

E con lui un sorriso.

Vera o, perlomeno, verosimile.

Vera, come il tuo sogno.

Sono anch'io un disperato.

Ricordo lo stormire delle cicale. La stasi delle parole era infranta: terra pure si pronunciava e i tuoi piedi non proseguivano oltre.

Scappi sempre da qualcosa.

Ti fermasti nel campo, senza luce, tutto un'ombra ed io un fremito dietro di te.

Un fremito, dietro, per te.

"Atena, m'uccida, ma non mi consenta…"

Scappi da te.

"…di vederlo morire"

*

Ermete aveva svolto gli esercizi lì, sul prato in fiore, e Zoroastro lo aveva guardato, seguendo con attenzione ogni singolo movimento, costantemente sul punto di correggerlo, ma sprecando energie nel vano tentativo di trovare un'imprecisione per cui rimproverarlo.

Esausto, col sole calante, si gettò a terra accanto al maestro, incrociando le braccia sotto la nuca e cercando le prime stelle in cielo. Mai l'Etna gli era sembrata più lontana dal mondo, più persa nel suo cosmo lunare, così arcana, così impervia e…

Crudele.

- Hai mai pensato…

Cominciò, rivolgendosi all'insegnante che, anch'egli steso, poggiando il capo su una mano e standosene comodamente adagiato su un fianco, in una posa pigra e languida, lo guardava con l'apparente interesse che ha la gente la cui mente vagabonda per lande ben lontane.

- Hai mai pensato?
- … a come sia la pasta asciutta?

L'uomo rise, ma rimase alquanto perplesso.

- Intendo dire quella cucinata decentemente, non come la tua!

La cosa più buffa, o quella più strana, era la profonda serietà nel tono del giovinetto: parlava di spaghetti come se fossero l'unica cosa veramente importante, aveva nella voce la stessa intonazione di un cantore intento a narrare il suo miglior racconto.

- Non venire a raccontarmi che la mia cucina non è deliziosa… - Si finse risentito.
- Perché, tu sai che significa cucinare?
- Ti va una proposta?

Il bimbo si rivolse all'altro, i cui capelli erano lievemente mossi dal vento e intarsiati di riflessi dorati dalla morente luce del tramonto, tutta la propria attenzione, pendendo dalle sue labbra che abbozzavano una smorfia divertita, magari intrisa di una qualche malinconia, per la quale il giovinetto non aveva una spiegazione. Il passato del magister, per lui, era un enorme punto interrogativo, un quadro sfocato da cui, nei momenti di tristezza - come quel giorno in Grecia, prima della partenza - o quando nel sonno il cavaliere vaneggiava frasi e pensieri sconnessi, emergevano delle figure umane confuse e torbide, acqua di un fiume in piena che lava tutto e rimescola il dolore, trascinandosi un nome di donna, farfugliato a stento da una bocca impastata.

- Spara.
- Non siamo mai stati insieme, giusto? Insieme come due persone normali, voglio dire. Gli altri apprendisti sono tutti i ragazzini della tua età che conosci, vero?

Il fanciullo annuì, lasciandolo proseguire… lasciandosi accarezzare una gota ancora imperlata di sudore.

- Desidererei che tu vedessi quello che c'è laggiù. In fondo, ci sei nato sulla montagna più alta, non t'ho guidato in nessuna scalata, ma le miserie umane che ti ho porto, stringendole fra le mani come mio solo bagaglio, ti hanno fatto piangere. Tu devi riderne, Ermete, riderne… capito? Promettimi, promettimi che ne riderai…. Promettimelo.

Non capiva, per l'ennesima volta la lezione appariva semplicemente priva di un senso, come la canzone dei folli e il riso del vulcano; le spiegazioni si sarebbero sommate, se richieste, alle spiegazioni, inutilmente; ancora una volta, Zoroastro lo aveva condotto proprio nel luogo cui anelava si recasse, muto e passivo, incapace di comprendere, incapace di scegliere fra onere e piacere, incapace di rendersi conto, di prendere coscienza, della realtà, di accorgersi che il momento era prossimo.

- Te lo prometto.

L'uomo abbassò le palpebre e sospirò, per poi illuminarsi di vita, quasi, finalmente, sereno.

- Allora, domani andremo a pranzo fuori.

*

Ermete:

Anni dopo i tuoi baci hanno fatto male, male da impazzire; non era il dolore delle percosse, no, ben altro.… i tuoi baci avevano tutti il sapore dell'ultimo.

La tua era una bocca di marmo, amor mio: avevi intenzione di scolpire me, ma ritraesti te stesso, quello che eri e che è stato distrutto.

Ci distruggono tutti, prima o poi.

È inutile indietreggiare.

Qualcuno ritroverà i nostri pezzi.

Il mare lambisce la spiaggia, strappando al continente un brandello di terra, giocando a tira e molla…. Ci somiglia.

Corriamo indietro, appena giunti lì - era ancora il tempo di ridere - e lui ci inseguiva, perfido.

Lo sfidavamo. Cedeva il passo.

"Il mare"

"Lo avevi mai visto, Ermete?"

Lo avevo sognato, volte e volte infinite, rinchiuso fra le onde di un lago.

- No.

Corsi da te, incubo, come tu ora ti sei recato al mio cospetto. Forse ero morto anch'io, ma venni e ti ringraziai.

Firmamenti e stelle congiunti in supremo consiglio, può un uomo fare tanto per un altro?

Un uomo così meraviglioso e imperfetto, tanto tormentato da ogni estremo, destinato a morire, può porgere ad un bimbo una sorsata di vita sì inebriante?

Può un uomo espiare la sua condanna ad essere sé, solo per venir superato?

"Che ti prende?"

Che mi prende?

"Grazie del mare"