ANTICO RANCORE

 

Ci siamo lasciati Los Angeles alle spalle.

Phoenix guida senza parlare da quando siamo saliti in macchina. Non che di solito sia molto più loquace, ma questa volta il suo silenzio mi da proprio fastidio. Guardo la campagna che sembra srotolarsi davanti a noi come un tappeto prezioso.

Ho ancora in tasca il telegramma.

"Raggiungimi".

Laconico, tipico di Phoenix. Non lo ho neppure chiamato; ho fatto la valigia e ho preso il primo aereo. Mi aspettava all’uscita dell’aeroporto; ne ero sicuro.

Siamo andati in un caffè, come non facevamo da molto tempo. Non mi ha detto niente; mi ha solo dato la lettera. L’ho letta e riletta, anche se con un po’ di difficoltà. Era in inglese.

 

Al signor Phoenix Jonathan Keil lo studio notarile Wetson, San Francisco.

Il tempo di degenza del testamento di Suo padre, deceduto quindici anni or sono, è scaduto. Secondo le ultime volontà del Signor Keil è ora permessa l’apertura. Si sollecita quindi la Sua presenza alla pubblica lettura che se ne darà, in quanto unico erede citati in vita da Suo padre.

Non è richiesta la presenza di suo fratello; tale infatti è una delle condizioni poste da suo padre affinché lei risulti unico erede dell’eredità lasciatale da Suo padre. Nel caso della presenza di suo fratello, erede sarà designata la sua compagna, così come è indicato nella premessa all’atto testamentario.

 

Seguivano le istruzioni per raggiungere l’abitazione di nostro padre.

"Non m’importa nulla di lui, né tanto meno mi interessa quello che può averci lasciato"mi ha detto, duro.

"Ma Phoenix, è nostro padre."

"Non mi importa! Per quel che mi riguarda l’ho seppellito molto tempo fa! Sai bene che come padre riconosco solo nostro zio"

Sì, lo sapevo bene. La risposta non mi era giunta nuova. Per lui, alla parola "papà" si associava sempre il volto del fratello della mamma. Il perché non me lo ha mai voluto dire. Dopo questa lettera, tutto quello che so è che nostro padre non mi voleva.

"Perché mi hai fatto venire, allora?" gli ha chiesto. "Con me rischi di non avere nulla del lascito"

Phoenix ha alzato le spalle e fatto una smorfia, come se la risposta fosse ovvia. "Ti ho già detto che non mi interessa. Ti ho fatto venire perché mi sembrava giusto che tu sapessi del testamento: Non fare quella faccia! Tanto lo sai che non ti avrebbero mai scritto": ha fatto una pausa; nella sua voce c’era un tono vibrante, carico di rancore. "Se vuoi andare, sei libero di farlo. Io non voglio più avere a che fare con lui o con quello che lo riguardo. Non dopo quello che ci ha fatto."

"Cosa ci ha fatto?". Glielo ho chiesto. Mi sono sempre accorto che Phoenix odia nostro padre, ma non gli ho mai chiesto nulla perché sapevo che tanto non me lo avrebbe detto. Dopo quella lettera però vorrei sapere anch’io il perché; perché secondo me è giusto che io sappia.

"Non voglio parlarne!". Mi ha fatto paura, con quella voce che diventa così profonda quando è carica d’odio. Non so cosa avrei dato per sapere cosa gli passasse per la testa in quel momento. Sapevo che insistere sarebbe stato inutile, e che se volevo sapere qualcosa dovevo andare alla lettura del testamento.

"Io vorrei andare, ma da solo non me la sento…Vieni anche tu…Ti prego…" ho insistito.

"No", ha sentenziato lui.

Dopo un’ora di strazio, ho dovuto ricorrere al ricatto affettivo e alle lacrime. E lui ha ceduto alle mie suppliche, ma ora mi tiene il broncio. Non piace neanche a me persuaderlo piangendo, soprattutto sapendo quanto gli dia fastidio vedermi farlo, ma è l’unico modo che so efficace per convincerlo.

Comunque, per ora, ciò che conta è che siamo in viaggio verso il mare. Verso la casa di nostro padre e quel passato che Phoenix non mi vuole raccontare.

 

L’autostrada è rovente e il caldo insopportabile.

"Dovresti comprare un’auto nuova, con l’aria condizionata", dico, ma lui non risponde. "E magari con il navigatore satellitare. Ti sono sempre piaciute le novità informatiche".

Niente, nemmeno un sospiro.

Gli lancio un’occhiata; non lo vedo da quasi tre anni, solo qualche rara telefonata. Phoenix ha sempre portato i capelli neri tagliati corti; anche il fisico è quello che ricordavo, forse un po’ più muscoloso e abbronzato. Indossa spesso gli occhiali scuri, che gli nascondono gli occhi grigio blu. Come quelli di nostro padre.

"Occhi indomabili", ha sempre detto nostra madre con orgoglio. Il perché di quella frase io non l’ho ancora saputo, ma Phoenix ne era orgoglioso e rattristato. Quanto odio quegli occhiali! Non mi permettono mai di capire a cosa stia pensando.

"Mamma lo ha sempre amato" dico all’improvviso.

" Mamma era troppo debole".

La sua risposta, la prima che mi dà da oltre due ore, mi fa sobbalzare. Anche perché lui adora nostra madre e non l’ho mai sentito pronunciare una parola contro di lei. Mai.

"E anche io lo sono. Sono uno stupido", riprende, spietato.

 

Poi, di colpo, s’infila in un’area di sosta. La brusca manovra mi fa sbattere violentemente la spalla contro la portiera.

"Phoenix, che cosa fai?"

Frena di botto, e resta immobile, le mani sul volante, lo sguardo puntato davanti a sé. Mi massaggio la spalla.

"Mi sono fatto male", dico in tono lamentoso. Non è vero, ma spero di distrarlo, scattasse pure come fa quando è nervoso e non sopporta proprio sentirmi lamentare.

Lui mi guarda e sussurra: "Mi dispiace".

E scoppia a piangere. Sono sorpreso. Di solito, sono io quello che piange.

Phoenix, invece, è quello che si prende cura di me da quando siamo restati soli, ventitrè anni fa. Phoenix è una roccia.

Ha solo ventotto anni, ma è come se non fosse mai stato giovane. Invece ora piange e io l’abbraccio forte.

"Non posso farlo" dice tirando su col naso. "Non voglio andare a casa sua".

Scende dall’auto.

Io resto seduto.

So quando è il caso di lasciarlo stare. Phoenix si accende una sigaretta e fa un lungo tiro, che quasi la consuma in un colpo solo.

Sorrido. Ricordo una scena simile il giorno della mia laurea.

Mi avevano raggiunto tutti, a Parigi, per solidarietà, per farmi coraggio. Phoenix mancava; non ero riuscito a rintracciarlo.

A metà della discussione sento aprirsi una porta. Non ha neanche bisogno di guardare: so che è lui. Si è fatto dieci ore di volo, e una corsa per tutta Parigi, pur di arrivare. È arrivato trafelato e si è seduto vicino a Crystal, perché gli traducesse quello che dicevo. Dapprima era attento, ma poi ha passato il resto del tempo fumando. Il voto, Crystal non glielo ha dovuto tradurre: lo aveva capito da solo.

A discussione finita, mi ha guardato con orgoglio -non dimenticherò mai quello sguardo- e poi mi ha abbracciato forte, in uno di quei pochi slanci affettivi che riserva solo a me.

"Per fortuna che di lauree ne fai una sola, perché alla prossima non ci vengo. Mi hai fatto morire" ha sentenziato dopo.

Quella sera io, lui, Crystal, Sirio e Pegasus abbiamo festeggiato al ristorante. C’era anche un mio compagno, con la sua famiglia. Pensavo che sarebbe stato bello se mamma e papà fossero stati lì con noi, ma non ho detto niente. Phoenix si sarebbe intristito, e poi sarebbe diventato intrattabile. Ora inizio ha capire verso chi portava rancore.

Mi decido a scendere dalla macchina e mi avvicino a Phoenix, che sta osservando qualcosa. Gli poso una mano sulla spalla e gli faccio una carezza.

"Senti, io credo che dobbiamo farlo" gli dico dolcemente. "Non per lui. Per noi. Voglio sapere perché tu lo odi tanto. Anche a me non interessa per nulla quello che può averci lasciato. Voglio solo sapere. Ma da solo non posso farcela."

Si volta , si toglie gli occhiali da sole e infila i suoi occhi nei miei. Li socchiude, e so che sta per dirmi qualcosa di spiacevole.

"Ti farà del male, sapere", Resto interdetto; non ci avevo mai pensato, ma era ovvio che Phoenix non mi avesse mai raccontato nulla per proteggermi da qualcosa, come ha sempre fatto. Ora però io quel qualcosa lo vorrei sapere, e vorrei che lui mi ritenesse cresciuto abbastanza per saperlo.

Mi sento in colpa, perché è costringerlo ad una prova forse troppo dura anche per lui. Ora c’è solo silenzio.

"Non lo perdonerò mai", dice all’improvviso, poi si avvia alla macchina.

Lo seguo. Mi rendo conto che gli sto chiedendo troppo e che non è giusto. Nostro padre ci ha lascito che io ero appena nato. Le spiegazioni non le ho mai avite.

Saliamo e Phoenix mette in moto. Parte a tutta velocità e faccio appena in tempo ad allacciarmi la cintura di sicurezza. So che alla prima uscita torneremo indietro e mi rassegno.

Invece, mio fratello tira diritto.

La pianura si trasforma in dolci colline e, qua e là, vedo case colorate.

Poi, d’improvviso, il mare: è una lunga striscia blu scuro che delinea l’orizzonte. Mi emoziono a guardarlo, ma non apro bocca. Mi limito a riempirmi gli occhi del suo colore intenso.

Oltrepassiamo un paese dopo l’altro, poi finalmente arriviamo in quello dove si era ritirato nostro padre. Giriamo per un po’, ci perdiamo più volte, sino a quando imbocchiamo la via giusta. Vediamo tante case basse che danno sul mare.

"Fermati, siamo arrivati" dico a Phoenix, controllando il numero civico. Mio fratello parcheggia davanti al cancello di una villetta. Scendo e mi sgranchisco le gambe. Guardo di qua e di là, osservo ogni cosa.

Solo dopo alcuni istanti mi accorgo che Phoenix è rimasto in machina. Mi avvicino al finestrino aperto e mi ci appoggio.

"Non scendi ?", gli chiedo, anche se conosco già la risposta.

"Volevi che ti accompagnassi qui e l’ho fatto", dice in fretta. "Non chiedermi altro. Ti aspetto"

Annuisco in silenzio. Mio fratello ha ragione. Non posso chiedergli di più. Mi avvicino al cancello, ma prima ancora di suonare sento lo scatto della serratura.

La porta si apre e mi trovo di fronte a una donna bellissima. È di una bellezza intensa, quasi abbagliante. Donne così ne ho viste poche. È alta, magra con gli occhi grandi e allungati.

"You must be Andromeda" dice.

" Yes, I…I am. Who…who are you?" balbetto un poco impacciato.

"I am Pàmela". Ride, nel sentire il mio inglese. Ha ragione; io l’inglese lo so poco o niente. Phoenix invece lo parla benissimo, sin da quando eravamo piccoli, ma con me non ha mai voluto parlarlo.

"Somigli moltissimo a tua madre." Sospiro, perché parla anche la mia lingua. Ma come fa ha conoscere mia madre?

"Sei solo?", mi chiede.

Non rispondo, ma mi volto verso la strada. Lei segue il mio sguardo e accenna un piccolo sorriso triste.

"Capisco" dice. "Mi detesta, come detesta suo padre. In fondo, lo capisco…"

"Bisogna dargli tempo…"

"A Phoenix credo non basterebbe tutto il tempo del mondo" dice sottovoce, accompagnandomi in casa. La sua voce ha in tono triste, che mi sorprende.

La casa è fresca, arredata con tanti quadri. Il soggetto è sempre lo stesso: il mare.

"Jonathan amava il mare: non gli bastava quello vero. Doveva averlo dappertutto"

Mi fa uno strano effetto sentire il nome di mio padre; Phoenix non lo pronuncia mai. Lo omette anche nelle sue generalità.

Seguo Pàmela in salotto e il mio cuore si ferma. C’è un pianoforte a coda, nero e bellissimo, e ci sono tanti libri, cuscini e reperti archeologici. Ma la cosa che mi lascia senza fiato è la gigantografia alla parete.

È una foto di Phoenix, da solo, che guarda fuori dalla finestra,a casa, anche se non saprei dire quale, lo sguardo lontano e un po’ triste.

"Jonathan adorava tuo fratello" mi spiega Pàmela, che sembra intuire la mia sorpresa. "Non è bello da dire di un padre, ma gli voleva bene solo perché era uguale a lui, di aspetto e di carattere. Erano uguali soprattutto gli occhi." Fa una pausa e mi porge gli incartamenti del lascito. Solo allora mi rendo conto che abbiamo mancato all’appuntamento col notaio.

" Vuoi bere qualcosa?" mi chiede prima che mi sieda sul divano. Annuisco in silenzio.

"É per questo che lo ha chiamato così", mi dice prima di sparire nel corridoio.

Apro la busta, anche se non mi interessa; fra tutte quelle scartoffie mi cade l’occhio su un foglio ripiegato: una lettera. La prendo con mani tremanti e comincio a leggerla: è per Phoenix.

 

Phoenix,

non ti ho ancora perdonato per quella tua scelta insensata e sciocca. Ma non capisci che così rovini il tuo futuro? Devi venire via con me,Pàmela sarà per te un’ottima madre e forse avrai anche un nuovo fratellino, uno degno di essere tuo fratello e mio figlio. Non puoi ostinarti ha restare con tua madre e con quel bambino piagnucolone che chiami fratello.

Il tuo posto è al mio fianco, perché sei mio figlio.

Sono stufo di aspettare che tu ti decida a raggiungermi, lasciando quella famiglia dove adesso ti trovi e che ti impedisce di venire da me. Sai cosa mi ha scritto tua madre? Che devo smetterla di inviarti lettere e di telefonarti, riempiendoti la testa dei miei progetti per te. Che la scelta che hai fatto di restare acconto a lei e a tuo fratello è maturata da sola dentro di te e che quindi io devo rispettarla. Rispettarla, capisci? Come se un bambino di tre anni sapesse cosa è giusto per lui. A lei non interessa il futuro che posso offrirti, che avrest9i come mio figlio. Di tuo fratello non m’interessa nulla. Lui è diverso da noi, è un debole, una femminuccia capace solo di frignare; non è degno neanche del mio cognome. Ci rinuncio volentieri, senza rimpianti.

A te però non rinuncio: tu sei mio figlio, l’unico che riconosca come tale; l’unico degno di prendere un giorno il mio posto. E sai il perché di questa mi sicurezza? Perché è scritto nel tuo nome, Phoenix. Il tuo futuro è nel nome che io ho scelto per te. Tu sei l’araba fenice, che risorge dalle ceneri, sei il mezzo per cui io non scomparirò mai da questo mondo. Riesci a comprendere? Anche quando sarò morto, io vivrò in te e continuerò sempre a farlo perché noi due siamo uguali. Abbiamo lo stesso aspetto, la stessa determinazione, la stessa grinta e la stessa indifferenza verso tutto e tutti. Solo di noi stessi ci interessa. Basta che ti guardi allo specchio e troverai tutto quello che ti ho detto nelle sfumature dei tuoi occhi. Occhi indomabili, uguali ai miei.

Mi sono stancato però di ripeterlo, non è mia abitudine ripetere le cose due volte. Adesso sei troppo piccolo per capire l’importanza che rivesti per me, ma capirai in seguito, stando con me.

So io cosa è giusto per te, e anche per me. Presto sarò lì, e questa volta tu verrai via con me. Essere risoluto a restare con tuo fratello questa volta non ti basterà; anzi ti sarebbe dannoso: a forza di restargli accanto perderesti tutte le tue doti, riducendoti a diventare come lui, un bambino timido e incapace di tutto fuorché di piangere. Rassegnati quindi, e prepara i bagagli. Questa volta verrai con me, il tribunale è dalla mia parte. Perché sei ancora troppo piccolo per mostrare gli artigli contro di me; ma prometti bene e sotto la mia guida sarai degno di me e del mio cognome.

Jonathan Keil.

 

Leggo e rileggo la lettere finchè non la so a memoria. Resto immobile per un tempo che mi sembra infinito.

Non so cosa pensare nostro padre non ci voleva bene. Voleva Phoenix con sé solo per renderlo il suo continuatore, perché era come lui. Mio fratello però ha preferito restare con la mamma e con me…con me…Sono io dunque la pietra dello scandalo. Papà se ne è andato perché io ero come la mamma; non assomigliavo in niente a lui. Forse sarebbe stato meglio se Phoenix lo avesse seguito, forse non avrebbe sofferto tanto ne si sarebbe sempre dovuto preoccupare per me.

Vado alla finestra e guardo verso la strada. Phoenix è fermo accanto alla strada; mi da le spalle. Lui non è come nostro padre; lui mi vuole bene e non mi considera debole. E non è neanche egoista come dice la lettera. Lui come tutti noi, un ragazzo cresciuto troppo in fretta e forse, essendo il più grande fra noi, è anche quello che ha più tristezza nel cuore.

Phoenix si gira e alza lo sguardo verso di me: è teso e preoccupato per me, come sempre. Non può proprio farne a meno e credo che non accetterebbe mai l’idea che io possa non aver bisogno di lui. E poi non sarebbe vero: io ho sempre bisogno di lui, perché è mio fratello e solo lui sa parlarmi e capirmi anche solo con uno sguardo.

Lo saluto con la mano, e gli sorrido, come facevo da piccolo. Phoenix mi ha sempre detto che è il mio sorriso e la mia presenza ad avergli sempre dato la forza di andare avanti. Ora so che quello che mi diceva sull’importanza che io rivesto per lui non è solo un modo come un altro per esprimere tutto il suo affetto nei miei confronti, ma è la verità schietta, perché è stato lui ha scegliere di restarmi accanto, anche se avrebbe potuto avere una vita migliore.

 

Venticinque anni fa ho fatto una scelta…Non me ne sono ancora pentito e credo che non lo farò mai…Ti sbagliavi, Jonathan…Quella che tu chiamavi debolezza era la forza più grande, quella dell’affetto reciproco che lega per sempre e sorregge nelle avversità, senza mai chiedere nulla in cambio. Qualcosa di piccole e semplice, che costa poco o niente e rende tanto…Perché io e lui siamo una cosa sola e la somma di noi due insieme è qualcosa che neanche tu potresti battere, perché non è due , ma l’infinito.

Andromeda…Grazie di esistere, fratellino.