CAPITOLO XVI

Proibito

L

a settimana che seguì fu, per Freija, lenta e snervante. I giorni nascevano pigri, all’ombra di una notte passata tra l’insonnia e gli incubi peggiori, e morivano stancamente.

Freija si trascinava senza meta, girovagando per il palazzo e languendo dentro, come una pianta che lentamente si stava seccando per mancanza di nutrimento. Sedeva davanti al camino e guardava per ore il fuoco scoppiettante, a volte ricamava o prendeva un libro ma non leggeva, si limitava a scorrere le pagine piene di parole senza afferrarne nemmeno una.

Hilda guardava sua sorella che si sciupava ogni giorno ma non poteva intervenire in alcun modo, perché Freija aveva preso una decisione ed era giusto che lei la rispettasse. Con Freija si comportava come niente fosse successo. Le parlava delle questioni importanti e di quelle futili; mentre erano seduti a tavola, la sera, le raccontava storie divertenti che aveva sentito narrare ma si accorgeva dell’assenza spirituale della sorella. Freija sorrideva raramente e toccava appena il cibo, ed era talmente infelice che Hilda avrebbe voluto piangere.

Le giornate s’erano accorciate ancora, le ore di luce erano grigie e spente come il sole che non scaldava. Il tempo si mantenne abbastanza stabile, e una notte, mentre tutti dormivano, Freija guardò dalla finestra grossi fiocchi di neve che fluttuavano nell’aria, spinti da un vento invisibile e silenzioso, che scendevano lenti da un cielo nero da far spavento.

La sua stanza era calda, e lei si raggomitolò sotto le coperte, e continuò a guardare rapita i vortici di neve che ricoprivano il mondo con un puro manto bianco. Le cime degli alberi si piegavano al vento e le ultime foglie secche caddero quella notte stessa per mano di una tempesta di neve. Gli alberi sarebbero stati nudi ad affrontare l’inevitabile gelo dell’inverno, ed era la stessa terribile sensazione che temeva per se stessa.

Quando si alzò la mattina, vestita pesantemente, andò di corsa a vedere il cortile del palazzo e rimase sorpresa per lo spettacolo. Si era addormentata, guardando fuori, e non aveva potuto sapere quanto aveva nevicato in quella lunga notte. Tutto era davvero bianco, e solo le cime degli alberi e qualche alberello erano rimaste scoperte, ostentando orgogliosamente un po’ del loro colore in qual mondo immacolato. Il manto di neve era intatto sulla terra ghiacciata e lei desiderò tuffarsi in quel mare soffice e sprofondare nel suo gelido abbraccio. Sentì grida festose di bambini che giocavano e si mosse sotto il porticato per poterli guardare.

Fu allora che, per la prima volta, capì cosa l’aveva sostenuta nei giorni passati, nei momenti di disperazione totale quando, anche sforzandosi e ripetendosi che sarebbe passato tutto e avrebbe superato il momento difficile, sentiva che avrebbe potuto cedere. C’era ancora un sentimento d’amore forte nel suo cuore, che gioiva di tante piccole cose che nell’insieme le davano la forza per andare avanti nonostante la malinconia, l’infelicità e l’aridità della sua anima. A dispetto di tutte queste catastrofi personali, Freija si guadava attorno e percepiva il cambiamento nell’aria.

Guardò quell’uomo dagli occhi che sorridevano, che saltava e si rotolava sulla neve e giocava tra i bambini come fosse uno di loro. Sembrava un padre con i suoi figli, in un quadretto che donava pace e tranquillità. Adesso stava proponendo di costruire un pupazzo di neve e i suoi compagni di gioco esultarono e si buttarono per terra, cominciando a raccogliere la neve in tante palle che ammucchiarono con cura.

Hyoga era fradicio ma rideva ed era davvero felice. Stava inginocchiato per terra e tentava di costruire il corpo del panciuto pupazzo, mentre lì attorno tanti bambini continuavano a lanciargli palle di neve.

Aveva sperato che lui decidesse di lasciare Ásgarðr, dopotutto sarebbe stata la soluzione più logica, invece era rimasto, sconvolgendo la sua precaria volontà di dimenticare per ricominciare daccapo. Hilda non le era sembrata sorpresa più di tanto, e si comportava anzi come se la presenza di Hyoga nella cittadella fosse qualcosa di naturale e inevitabile. Il modo come parlavano e si comportavano indicava che tra loro s’era instaurato un solido legame, non avrebbe saputo dire di che natura.

A parte questo ambiguo rapporto con sua sorella, Hyoga sembrava essersi perfettamente integrato nella vita della cittadella, tanto più che thraells e soldati s’erano abituati alla sua presenza come uomo, come Landvarnarmaðr, come se avesse da sempre vissuto tra loro.

Poi c’era Leif, che in pratica si era trasferito a palazzo, che vegliava su di lei come un angelo custode, ricoprendola di attenzione e premure, cosa che non aveva mai fatto fino allora, o che l’opprimeva, a seconda dei casi, impedendole di muoversi liberamente.

Freija non aveva potuto dimenticare la notte del giorno del Consiglio, ma cercava di convincersi che, in fondo, tra loro due tutto funzionava e che l’amore sarebbe venuto, col tempo, anche se si sentiva svuotata. Sospirò di sollievo, ringraziando ancora gli dèi, perché Leif, nei giorni passati, non aveva chiesto di passare la notte con lei. E soprattutto li ringraziò perché non gliel’aveva imposto, come quella terribile notte.

Se avesse potuto concentrarsi solo su Leif, in poche parole se non fosse stato per la presenza di Hyoga, sarebbe riuscita ad apprezzare maggiormente il suo promesso, e avrebbe smesso di dubitare dei suoi metodi d’amare, di fare paragoni che avevano sempre un esito totalmente negativo per lo jarl e che lo sminuivano.

Avevano parlato poco, lei e Hyoga, e solo di sera quando si riunivano a tavola per il nàttverðr. Sembrava quasi che Hyoga evitasse di stare con lei per non ingelosire Leif, ma Freija aveva sentito sempre i suoi occhi addosso.

Inizialmente la cosa l’aveva turbata, perché si sentiva osservata da vicino, come se lui volesse leggerle dentro per scoprire i suoi segreti più intimi e nascosti. Quegli occhi però non erano indagatori, erano dolci e cercavano ogni volta di comunicarle qualcosa di nuovo che lei non riusciva a decifrare. Lo sguardo di Hyoga, penetrante e avvolgente, l’aveva tacitamente sostenuta in quei giorni di noia disperata, e guardandolo, aveva sempre ricevuto in cambio di occhiate tristi, un bel sorriso.

Hyoga mosse la testa nella sua direzione e Freija lo salutò con una mano quando lui le sorrise.

‹‹Vieni ad aiutarci›› la invitò lui. ‹‹Costruiremo il pupazzo più grande del mondo!››.

I bambini esultarono quando videro la principessa camminare verso di loro.

Freija decise che non sarebbe stato un problema giocare nella neve, ma si pietrificò quando si sentì chiamare, e anche Hyoga smise di sorridere.

‹‹Freija!››.

Non ebbero nemmeno il tempo di scambiare una parola che Leif apparve, inopportuno come sempre.

‹‹È troppo freddo per stare fuori, Freija›› disse lo jarl. ‹‹Rischi di ammalarti››.

‹‹Sì, rientro subito›› rispose lei un po’ delusa.

Un pomeriggio Hyoga raggiunse Freija nel soggiorno, una stanza piccola piena di mobili antichi, con una grande libreria. Era una sorta di stanza privata, dove entravano solo Hilda e Freija per dedicarsi alla lettura, e Freyr, che non aveva interesse alcuno per i libri e non sapeva leggere, per rilassarsi e dormire senza essere disturbato. Per la principessa rappresentava un nascondiglio, un luogo di tranquillità, come la stanza dove teneva i suoi amati strumenti musicali, un luogo per pensare.

‹‹È molto bello qui›› le sussurrò all’orecchio, dopo essersi avvicinato in silenzio.

Freija gridò per lo spavento e lasciò cadere il lavoro. Stava ricamando un arazzo con filo dorato su un lungo pezzo di velluto blu. Hyoga raccolse la tela e gliela porse ridendo come un bambino.

‹‹Che scherzo stupido, Hyoga, mi hai spaventata!›› lo rimproverò ancora affannata, con una mano sul petto, ma col sorriso sulle labbra.

‹‹By, (1) l’ho fatto apposta!››. Hyoga individuò dei cuscini, abbandonati sopra un divano, ne prese uno e tornò davanti al camino, sedendosi per terra vicino a Freija. ‹‹Però stai sorridendo…›› disse armeggiando il cuscino, indeciso su come utilizzarlo.

‹‹Avresti potuto raccontarmi una storia, se volevi solo farmi ridere!››.

‹‹Non ne conosco di divertenti›› si scusò lui, impegnatissimo nello scegliere una posizione comoda.

‹‹Che stai facendo?›› chiese lei alla fine.

Hyoga si sdraiò su un fianco, si mise il cuscino sotto al braccio e puntellò la testa alla mano.

‹‹Ah, ecco!›› sospirò Hyoga soddisfatto.

‹‹Stai per terra?››.

‹‹C’è un tappeto, non sono steso sulla pietra›› precisò Hyoga, sottintendendo che per lui non c’era niente di male nello stare stesi su un tappeto davanti al camino. ‹‹Lo faccio sempre a Villa Kido. Ti dà fastidio?››.

Freija scosse la testa, ma osservando quello strano comportamento che sembrava naturale per lui, si sentì a disagio e riprese il suo ricamo, cercando di concentrare la sua attenzione sul disegno. Eppure la sua presenza la distraeva, la disturbava il suo silenzio. Prese ad osservare le mani di lui, che s’intrecciavano tra i ricami sul velluto blu ai suoi piedi, sfiorandoli appena, come se non volesse sciuparli. Finse di ricamare ancora, ma pensava e si chiese perché Hyoga fosse ancora lì, nonostante tutto quello che era successo.

‹‹Vuoi sapere perché sono ancora qui?›› chiese Hyoga a sorpresa, con una tonalità ambigua, come se volesse sapere se le interessava davvero avere la risposta, o se era meglio evitare di parlarne. Come risposta lei, accennò un sorriso. ‹‹Sono qui perché non mi sono ancora rassegnato››.

Era così dolce il modo in cui nascondeva l’imbarazzo, sussurrando quelle parole a occhi bassi, mentre le sue mani adesso stuzzicavano insolenti quei ricami dorati. Se gli avesse chiesto di andarsene, proprio in quel momento, forse lui sarebbe uscito dalla sua vita per sempre. Ma non disse niente, complici il bisogno di dolcezza che sentiva aumentare ogni minuto, e quello sguardo avvolgente e protettivo che l’aveva sostenuta nei giorni addietro, che in quel momento lasciava intravedere un po’ della malinconia che non era possibile nascondere interamente con i sorrisi.

‹‹Ti piace?›› chiese cambiando discorso.

‹‹Molto››.

‹‹D’inverno non c’è molto da fare, se non ricamare e leggere. Mi sembra d’impazzire dalla noia in certi giorni››.

‹‹Posso capirti›› convenne lui. ‹‹È difficile trovare qualcosa da fare quando per la maggior parte dell’anno devi convivere con freddo e neve››. Lei annuì.

‹‹Tu cosa facevi, in Siberia?›› domandò continuando a lavorare.

‹‹Niente›› rispose lui semplicemente. ‹‹Sopravvivevo, e pensavo››.

‹‹Tutto il giorno?›› esclamò Freija sconcertata. ‹‹Non avevi nessuno con cui parlare?››.

‹‹Qualche volta andavo al villaggio, a Kohotec, per comprare delle provviste, qualche altra mi veniva a trovare un amico››.

‹‹Io sarei impazzita›› disse lei guardando il camino. ‹‹Nella solitudine più totale, ti vengono da pensare le cose più angoscianti. Ti senti quasi costretta ad analizzarti, e scopri di essere un critico crudele. E poi, non sempre ti piace quello che la tua mente ti vuole imporre››.

Lui alzò le spalle. ‹‹Basta farci l’abitudine››.

‹‹Sarà come dici, ma ultimamente fatico a convivere con la mia coscienza››.

‹‹Qualcosa ti turba?››.

‹‹Sì e no›› tergiversò lei e si rimise a ricamare. ‹‹È colpa della noia…››.

Hyoga passò più volte la mano sul tappeto, poi tornò alla carica.

‹‹Leif non sta mai con te?›› chiese innocentemente.

Lei aggrottò la fronte, sempre con gli occhi sull’arazzo. Poi tese il velluto blu davanti a se, e inclinò leggermente la testa.

‹‹Gli uomini di giorno preferiscono stare all’aperto, anche se fa freddo. Si tengono occupati››.

‹‹Già››.

‹‹Non ti trovi bene con Helgi e i capitani? Da quando Freyr è partito passi poco tempo con loro››.

‹‹Senza Freyr, faccio fatica ad integrarmi››.

‹‹Helgi parla bene di te. L’ho sentito mentre parlava con Hilda e si complimentava con lei per l’ottima scelta che aveva fatto. Helgi è una bravissima persona, molto fedele. Quando ero più piccola passavo molto tempo con lui, mi raccontava delle storie bellissime››. Si risistemò il velluto sulle gambe e riprese a lavorare. ‹‹Mi dispiace che non ti trovi bene con lui››.

‹‹Non è che non mi trovo bene!›› ribatté seccato facendola voltare. Hyoga si alzò in piedi e rimise il cuscino al suo posto. ‹‹Con Helgi vado molto d’accordo, e anche con Hermóðr›› spiegò riassumendo il suo tono pacato. ‹‹Stanno cercando d’insegnarmi ad usare la spada, ma non mi piacciono molto le armi. Gli altri invece…››. Tirò un sospiro, poi riprese col sorriso. ‹‹Heimdallr mi ispira grande fiducia, avrei piacere di parlare con lui ma sta sempre alle porte. Hadingus è strano, un po’ burbero. Magni invece mi odia, ne sono sicuro››.

La principessa pensò per un lungo momento, come se quelle parole fossero troppo vere per ammetterlo. Fece qualche smorfia, poi alzò le spalle.

‹‹Non ci badare, è tutta immaginazione››.

Si concentrò ancora sul ricamo, ignorando di nuovo Hyoga, in piedi davanti al camino.

Lui restò un po’ ad aspettare, giocherellando con l’anello d’oro. Attizzò il fuoco, aggiunse un pezzo di legna, andò a leggere i titoli dei libri sistemati con cura nella libreria.

‹‹Tu leggi?›› chiese. Prima di rispondere Freija aspettò un po’.

‹‹Sì, abbastanza››.

L’argomento libri finì prima che Hyoga potesse provare a svilupparlo. Si rimise davanti al camino, e la fissò. Sembrava che per lei, in quel momento esistesse solo il velluto blu e il complicato ricamo dorato. La difficoltà d’intavolare una discussione non era più sufficiente a spiegare la freddezza con cui lo trattava. In realtà, gli sembrava, in certi momenti, che lei non vedesse l’ora di potersi sfogare ma subito dopo, riassumeva quella facciata d’indifferenza che lo irritava terribilmente. Ad un certo punto, Hyoga non riuscì più a sopportare il silenzio forzato.

‹‹Mi dispiace che fatichiamo tanto a comunicare, anche perché resterò ad Ásgarðr fino al giorno del Þing e sarà dura, per me, ignorarti del tutto. Quindi, se finalmente deciderai di parlarmi, vienimi a cercare››.

Quando sentì chiudere la porta, Freija scaraventò per terra il velluto, con rabbia. Ignorare Hyoga, la sua gentilezza e le sue premure era una delle azioni più meschine cui si era mai abbassata, ma Leif era stato chiaro con lei.

‹‹Il fatto che l’utlänning sia il nuovo Landvarnarmaðr, e che sia rimasto ad Ásgarðr, non ti autorizza a civettare con lui. Non mi piace il modo in cui ti guarda, e lo fa continuamente. Non vorrei che gli venissero in mente strane idee sul tuo conto. Quello che devi fare è non alimentare le sue fantasie. È un uomo, basta una piccola confidenza perché creda di poter fare quello che vuole!››.

‹‹Non credo che sia il tipo di persona che si comporta in questo modo›› aveva detto lei.

‹‹Non essere ingenua, Freija! Piuttosto stagli alla larga, ed evita il più possibile di parlargli!››.

Ma è assurdo! Che male può farmi se gli parlo? Tutta questa gelosia mi sta facendo impazzire!

Lo jarl Leif inaspettatamente, con tutto il lavoro che voleva far credere che gravasse sulle sue spalle, non si allontanò molto spesso dalla cittadella. Mangiava e dormiva a palazzo, comandando ed esigendo obbedienza come fosse tutto di sua proprietà.

Hilda scambiava con lui pochissime parole, e le volte che si trovavano assieme nello stesso luogo, cercando di intavolare una qualunque discussione, finivano per litigare. Così, per il quieto vivere, più che altro per non turbare Freija, si evitavano abilmente. La sacerdotessa lavorava soprattutto, naturalmente con la guaritrice Eir, e non trascorse molto tempo nemmeno con Hyoga.

Freija, rintanata nel palazzo, o nel soggiorno a ricamare, li vide passeggiare nel cortile qualche volta, a braccetto. Ridevano e parlavano allegramente, quello che avrebbe voluto fare lei.

Il Landvarnarmaðr, seguendo il consiglio della principessa più per disperazione che per sua scelta, passava la maggior parte del tempo con Helgi e soldati della guardia. L’assenza di Freyr si faceva sentire, ma Hyoga si abituò ai ritmi dei soldati e finì per gradire quel modo di vivere.

Vedeva Freija durante i pasti, la incrociava per i corridoi, la intravedeva mentre guardava attraverso le finestre del palazzo. Crebbe in lui una grande compassione, ma soprattutto aumentò l’odio per lo jarl. Si sfogava stancandosi. Si alzava presto e aiutava gli uomini nei lavori che li impegnavano durante il giorno, e di sera, alla Casa della Guardia, assisteva agli incontri di lotta, e una volta partecipò. Vinse l’incontro, ma prese un cazzotto che gli procurò un livido sotto un occhio e un piccolo taglio dal quale uscì tanto sangue che credette di morire dissanguato, e dovette subire anche i rimproveri della sacerdotessa quando andò a farsi medicare.

Passava il tempo, e si avvicinava il giorno in cui sarebbe tornato Freyr. Tra poco ci sarebbe stato il Þing, poi l’avventura di Hyoga sarebbe finita e sarebbe tornato a Tokyo, nel suo mondo. Per quello era rimasto, per partecipare al Þing.

Freija, intanto, viveva la sua misera vita dentro la gabbia dorata che era il suo palazzo. Quando era presente Leif, si comportava con lui con naturalezza, rideva e scherzava. Lui la teneva sott’occhio continuamente, e quando non c’era, Freija sapeva che, comunque, soldati di Magni, o thraells che avevano per lo jarl una particolare simpatia, la controllavano per conto suo.

Si sentiva costretta, sacrificata e quando era da sola, nel soggiorno, o nella sua camera, piangeva e si abbandonava alla disperazione. Sarebbe impazzita, prima o poi, se non avesse deciso di alzare la testa, e di trasgredire alle frustranti limitazioni imposte da Leif.

Tutte le sere, finito il nàttverðr, Hilda e Hyoga la salutavano, lasciandola con Leif. Lo jarl e la principessa parlavano per un po’ di argomenti di nessun interesse, poi lui le augurava la buonanotte e se ne andava. Ogni volta che lo vedeva allontanarsi sospirava di sollievo, perché temeva ancora che lui, una volta o l’altra, le chiedesse di dormire con lei, cosa che la faceva rabbrividire.

Dovrà accadere, prima o poi, si ripeteva spesso per tentare di abituarsi all’idea.

In realtà, Leif non aveva alcuna intenzione di ripetere due volte lo stesso errore, perché Bylistr lo aveva messo in guardia sui rischi che avrebbe comportato un atto del genere. Quindi, di sera, approfittando della fortuita assenza del principe, lo jarl lasciava libera la principessa, preferendo di gran lunga cercare la compagnia delle thírs, o di altre donne.

Quella sera, quand’ebbero finito di cenare, Hyoga li salutò, lasciando che Hilda affrontasse da sola Leif, fino a che lo jarl e la sacerdotessa non decisero che era meglio troncare la discussione prima di cominciare ad insultarsi.

Con sua grande soddisfazione, Freija salutò Hilda, inferocita e diretta verso le sue stanze, e Leif, offeso e ansioso di raggiungere Magni, e quando rimase finalmente sola, corse a cercare Hyoga.

S’affrettò per i corridoi. Cercò nel soggiorno, vuoto, poi corse a bussare alla sua camera, silenziosa. Cercò un po’ in giro, e mentre si dirigeva alla Pozza, l’unico posto dove non aveva cercato, assieme alla Casa della Guardia dove non aveva mai messo piede, passò davanti al salone al primo piano. S’affacciò un momento e intravide qualcuno che si sporgeva sul parapetto della grande terrazza. Attraversò la sala e spalancò una delle porte a finestra.

‹‹Hyoga!›› chiamò allarmata.

‹‹Bóže moj!››.

‹‹Cosa stai facendo lì?›› gridò Freija correndo verso di lui. ‹‹Potresti scivolare e cadere di sotto!››.

‹‹Se mi spaventi in questo modo, finirò davvero per cadere giù!›› scherzò Hyoga, sedendosi a cavalcioni sul parapetto. ‹‹Così va meglio?›› disse alzando le braccia.

‹‹Niente affatto! Anche se preferisco vederti così piuttosto che con le gambe penzoloni, vorrei che tu scendessi!›› lo rimproverò.

Il pavimento ghiacciato della grande terrazza, illuminato dalla luna che bucava con prepotenza le nuvole, risplendeva di una luce accecante. La temperatura continuava a scendere, giorno dopo giorno.

‹‹Adoro guardare le cose dall’alto›› si giustificò Hyoga, sporgendo la testa verso il cortile. Poi si voltò allegro. ‹‹Non a caso, alla Villa, occupo una delle poche stanze col balcone!››.

‹‹Che passatempo assurdo!›› si lamentò lei, appoggiandosi al parapetto con entrambe le mani. ‹‹Odio le grandi altezze e soffro terribilmente di vertigini!››. Si sporse un po’, per guardare anche lei di sotto ma si ritirò, arricciando il naso insoddisfatta. ‹‹Quando ero piccola mi arrampicavo dovunque, sui mobili, sulle piante. Anche a me piaceva guardare le cose dall’alto. Era divertente. Poi, un giorno, disobbedendo a mia madre sono salita di nuovo su un albero, uno dei pini che crescono nel cortile qui sotto. Volevo assolutamente raccogliere i rametti che crescevano in alto, perché ero convinta che fossero più belli e profumati. Ho cominciato ad arrampicarmi, su e su, e quando sono stata soddisfatta ho cominciato a raccogliere i rametti. Ricordo che li annusavo uno per uno e pregustavo già il momento in cui avrei detto: "Lo vedi mamma, avevo ragione! Sono più belli e profumati!"››.

‹‹Penso di immaginare come andò a finire›› scherzò Hyoga.

‹‹Sì, non è difficile. Mi sono distratta e sono caduta di sotto. Tre metri di volo e nemmeno una frattura, praticamente un miracolo. Me la sono cavata con tanta paura e una brutta ferita alla gamba, perché cadendo avevo strisciato contro un ramo spezzato››.

‹‹Sei stata fortunata››.

‹‹Grazie alla piccola cicatrice sul polpaccio che mi ricorda quella disavventura, evito le grandi altezze, un po’ per le vertigini che devono essere una conseguenza dello spavento, un po’ per non sfidare due volte la sorte!››.

‹‹Molto saggio, però mi fai pensare che se mi comportassi allo stesso modo, con tutte le cicatrici che ho sul corpo, non dovrei più fare niente››.

‹‹Questo è un caso ben diverso. La mia è una paura acquisita dopo quella terribile caduta. Avrei anche potuto morire…›› disse Freija imbronciandosi.

‹‹Grazie a Dio non è successo!›› esclamò Hyoga appoggiandosi una mano sul petto, come se si fosse tranquillizzato solo in quel momento. ‹‹Sono convinto che con un po’ d’aiuto riusciresti a vincere la paura delle grandi altezze, e anche le vertigini›› propose gentilmente.

‹‹Puoi pensare quello che vuoi, ma io non collaborerò!›› rispose lei incrociando le braccia sul petto.

Hyoga annuì. ‹‹Non ne sono convinto››.

Si scambiarono uno sguardo intenso e si regalarono un sorriso, come se si fossero resi conto d’aver condiviso lo stesso pensiero.

‹‹Hai cambiato idea?››.

‹‹Su cosa?›› chiese lei curiosa.

‹‹Riguardo alla solitudine. Mi sei venuta a cercare, immagino che ci sarà un motivo››.

‹‹Direi di sì››. Hyoga alzò le sopracciglia, invitandola a continuare.

‹‹Dimmi pure›› la esortò, vedendola muta.

‹‹Non so bene come cominciare…››.

‹‹È stato terribile rendersi conto che forse ti stavo importunando, una tortura›› disse lui con un chiaro riferimento ai giorni passati. ‹‹Hai preferito un ricamo!›› esclamò premendosi una mano sul petto e fingendosi disperato. ‹‹Sono rimasto scioccato!››.

Freija rise, appoggiandosi al parapetto.

‹‹Adesso so perché ti ho cercato: avevo voglia di ridere!››.

‹‹Vot kak , (2) sono un buffone!››.

‹‹No, è che per colpa tua ho pensato alla solitudine e ho sentito la mancanza di qualcuno con cui parlare››.

‹‹Hai scelto me, che onore!›› scherzò lui, dondolando avanti e indietro. ‹‹Adesso però, ero impegnato!››.

‹‹Stavi guardando le stelle?›› indovinò lei.

‹‹E la luna. È molto bella, vero?›› sussurrò Hyoga.

‹‹Sì››.

‹‹Una volta qualcuno mi ha detto che la luna influenza il comportamento umano, proprio come fa con le maree. Mi è sembrata una cosa strana››.

‹‹No, non è strano. In fondo il nostro corpo è composto per due terzi d’acqua…›› disse Freija alzando le spalle. Hyoga si grattò il mento, pensieroso.

‹‹In effetti, non ci avevo mai pensato››.

Indugiò con lo sguardo sulla sfera gialla, ma sentì Freija che rabbrividiva. Le loro parole si trasformavano in dense nuvolette, congelate dall’aria. Il freddo non era un problema per lui, ma Freija con solo il vestito e uno scialle, non avrebbe resistito a lungo lì fuori. Tornarono dentro, e andarono a chiudersi nel soggiorno, dove trascorsero una lunga serata di chiacchiere davanti al fuoco.

‹‹Sta facendosi troppo freddo per i miei gusti›› si lamentò lei, sporgendo le mani rosse verso il camino. Tirò su col naso, e un brivido la fece tremare. ‹‹Brr, si congela fuori. Ma come fai a non sentire freddo?››.

‹‹Lo sento eccome, ma lo soffro di meno››.

‹‹È perché sei abituato al clima della Siberia, o per via del tuo…potere?››.

‹‹Direi, entrambe le cose›› mormorò lui, distrattamente.

Si appoggiò sulle braccia, tese dietro la schiena, e allungò le gambe, muovendo i piedi, mugolando un allegro motivetto. Non potevano essere considerati tic nervosi, ma quando si trovava in difficoltà, quando non sapeva cosa dire o fare, Freija aveva notato in Hyoga una serie di atteggiamenti buffi che le ispiravano una gran tenerezza.

‹‹Tu hai viaggiato molto, vero?››.

‹‹Per lavoro o per piacere?›› chiese lui strizzando un occhio.

‹‹Non scherzare!››.

‹‹Lady Saori ha visitato molti paesi, la Fondazione Grado ha sedi sparse in tutto il mondo, e qualche volta l’ho accompagnata. Ho vissuto a Mosca per un po’, ma non ho viaggiato molto…direi di no››.

‹‹La Grecia ti piace? Ci andrete spesso, al Santuario intendo››.

‹‹Sì, ci sono andato qualche volta, ma ad essere sincero, non mi piace. Fa troppo caldo, per i miei gusti. Seiya invece l’adora. Lui è come una lucertola, vivrebbe sdraiato al sole››.

‹‹Io non ho mai lasciato la Svezia, invece, e muoio dalla voglia di vedere il mondo. Purtroppo mia sorella è sempre molto impegnata e lascia Ásgarðr molto raramente›› disse Freija sconsolata.

‹‹Hilda è venuta a Tokyo diverse volte, avresti potuto venire con lei. Ci saremmo potuti vedere›› disse Hyoga con slancio. Freija si voltò di scatto e gli lanciò un’occhiata sorpresa. ‹‹Magari… potresti venire la prossima volta…›› balbettò Hyoga.

‹‹Avresti potuto venire tu qui…›› ribatté lei seria.

La legna nel camino scoppiettò e le fiamme si animarono improvvisamente, riflettendo il loro colore rosso sui loro volti.

‹‹Io… non ho abbastanza coraggio, per certe cose. Poi, abbiamo avuto molti…problemi››.

‹‹Quando sarò pronta per ascoltare la cronologia delle tue battaglie, magari ti chiederò ti parlarmene››. La voce di lei era stizzita e Hyoga si fece piccolo sotto il peso di quelle parole severe.

‹‹Allora parliamo d’altro›› disse Hyoga. Freija pensò, stringendosi le ginocchia al petto.

‹‹Per quel che ho capito, sei stato via da Tokyo per un po’ di tempo›› suggerì.

‹‹Sono stato a Mosca››.

‹‹E com’era dove vivevi?›› s’informò lei.

Hyoga sorrise. ‹‹La mia stanza era piccolissima, con una crepa che attraversava il soffitto per tutta la sua lunghezza. Mi ricordo, i primi tempi, che prima d’addormentarmi temevo che potesse crollarmi il soffitto addosso durante la notte, e la mattina quando mi svegliavo, per prima cosa controllavo che la crepa non si fosse ingrandita››.

‹‹Chissà le notti insonni… sarà stato terribile!››.

‹‹Net, non direi. Alla crepa mi sono abituato abbastanza in fretta, almeno ho imparato ad ignorarla. Piuttosto, i miei compagni d’appartamento erano molto rumorosi. Erano tre ragazze e due ragazzi, restavano sempre svegli fino a tardi a chiacchierare in cucina, e in particolare ce n’era uno, Alexeij, che invitava spesso certi suoi d’amici il cui unico scopo era divertirsi e fare festa. Quello è stato terribile!››.

Freija lo fissò con gli occhi socchiusi, poi afferrò un gomitolo da una cesta dalla quale spuntavano minacciosi alcuni ferri da calza. Lanciò il gomitolo in aria due o tre volte.

‹‹Dove hai messo il velluto blu che ricamavi l’altro giorno?››.

Freija sorrise vittoriosa. ‹‹È laggiù››. Indicò una cesta, dimenticandosi del gomitolo che cadde a terra e rotolò scompostamente fino al velluto, srotolandosi per strada.

‹‹Stasera non ricami?›› la provocò lui.

‹‹No›› rispose lei con un mezzo sorriso. ‹‹Mi assento, quando ricamo››.

Mi piace stare con te, troppo. Ma forse sono così felice perché sto facendo qualcosa di proibito, e per nessun altro motivo.

‹‹Vero››.

‹‹Vivevi con delle donne!›› esclamò Freija di colpo. Si era ricordata solo allora quel "erano tre ragazze e due ragazzi".

‹‹Proprio così›› precisò lui come se fosse naturale.

‹‹Te ne piaceva una, o magari tutte?›› s’informò lei.

‹‹Net, la nostra era come una grande famiglia fuori del comune››. Hyoga pensò un attimo e riprese a parlare subito dopo, trasportato dai ricordi. ‹‹La ricerca di un posto dove stare è stata l’operazione di più rapida esecuzione. Appena arrivato, mi sono fermato a bere un caffè in un bar frequentato soprattutto da giovani e ho preso il numero di telefono da un biglietto appeso nel bagno. Diceva: "Abbiamo una stanza da affittare. Se cerchi casa, telefona". Essenziale e diretto, proprio quello che mi serviva››.

‹‹Hai telefonato e hai trovato casa›› concluse Freija, ansiosa di riprendere a parlare di quelle donne.

‹‹Esatto. Chiusa la telefonata, anche quella molto veloce, sono andato subito all’indirizzo che mi avevano dato. Essenziale è quello che pensai anche dell’appartamento. Era grande, con l’ingresso che si apriva direttamente sulla cucina, molto spaziosa, un corridoio di accesso al bagno comune, che terminava nel soggiorno e poi un altro corridoio più piccolo su cui si affacciavano le camere, due matrimoniali e due singole. Visto l’appartamento, prima ancora di conoscere i miei futuri coinquilini, capii subito che il centro focale di quell’incredibile ambiente, terribilmente diverso da quello di Villa Kido, era la cucina. L’arredamento era ridotto al minimo indispensabile nel salotto, un televisore su un tavolino, un lungo divano e due poltrone, una libreria grande quanto la parete su cui poggiava, di quelle zincate, verniciata di blu, con libri e qualche rivista. Anche le altre stanza erano spartane. Niente tende alle finestre, niente tappeti né pedane, nessuna porta a separare gli ambienti, fatta eccezione per quella del bagno e delle camere da letto.

‹‹La cucina però era diversa, con una finestra molto grande, il piano di lavoro con i fornelli e il lavello ad incasso, e sotto delle tendine blu che coprivano gli spazi della dispensa. Mi colpì subito il frigorifero, alto e largo, anche lui blu, come la maggior parte degli arredi. In mezzo alla cucina c’era un tavolo di legno, con sei sedie, cinque sistemate con cura, la sesta messa in disparte, sicuramente per caso, appoggiata al muro. Ti sembrerà strano, ma vedere quella sedia, destinata al nuovo inquilino, separata dalle altre, mi aiutò a vedere con chiarezza la mia situazione. Occupai da subito la stanza e la sera quando finalmente feci la conoscenza dei ragazzi che vivevano lì, mi sentii sollevato perché li scoprii simpatici e cordiali. In nessun modo mi fecero sentire escluso e tentarono con ogni mezzo di farmi sentire a mio agio, ma quella sedia rimase al suo posto per molto tempo. Rappresentava il mio stato d’animo, il mio desiderio di mantenere comunque un certo distacco da coloro che mi circondavano››.

‹‹Hai detto che erano simpatici e cordiali. Di cosa avevi paura?››.

‹‹Di tutto e di niente. Restavo nella mia stanza a studiare e a leggere, e sentivo le loro voci e le loro risa che provenivano proprio dalla cucina. Il primo pensiero che mi venne in mente, vedendo quelle quattro sedie sistemate con cura sotto il tavolo, fu l’immagine di una famiglia felice seduta a quel tavolo e temevo di turbare il loro equilibrio, interferendo nella loro vita felice. È triste parlare così, ma alle volte ho avuto la stessa sensazione a Villa Kido, la spiacevole sensazione di essere un elemento di disturbo. Mi piaceva sapere che la loro vita non era cambiata nonostante la mia presenza, e passavo le serate nella mia stanza, anche se desideravo con tutto il cuore entrare a fare parte di quella famiglia felice. Volevo vivere come quei ragazzi, provare la realtà di tutti i giorni come una persona normale, come loro insomma, ma subito mi veniva in mente il mio passato e mi scoraggiavo, perché a conti fatti mi sentivo diverso››. Freija lo ascoltava con lo sguardo turbato e pieno di comprensione. ‹‹Alla fine, dopo aver tanto pensato, sono giunto alla conclusione che il mio comportamento non era diverso da quello che mi aveva costretto a fuggire da Villa Kido, che mi stavo di nuovo isolando per mia volontà perché non avevo il coraggio di affrontare i cambiamenti››.

‹‹Così hai fatto il tuo ingresso in cucina›› rise lei.

‹‹Precisamente. Quando mi hanno visto entrare sono ammutoliti, come se avessero visto un fantasma, e alla fine li capisco. Inutile dire che in loro compagnia mi sono divertito moltissimo e da quella sera ho passato la maggior parte del mio tempo libero assieme a loro, in quella cucina dove cominciavamo la giornata con la colazione e dove ci ritrovavamo la sera, per cenare e per chiacchierare. Sono cambiato da allora, ed è anche merito delle persone che ho conosciuto in quel periodo››.

Freija annuì. ‹‹È stata una bell’avventura, allora››. Andò a recuperare il gomitolo, tornò davanti al camino e riprese a giocare. ‹‹Non mi hai detto com’erano queste ragazze…›› disse dopo un po’, suscitando una risata in Hyoga.

‹‹Ti ho detto che eravamo una famiglia fuori del comune e questo è già un indizio. Dunque, io e Alexeij occupavamo le singole. Lui piaceva molto alle ragazze e riceveva molte telefonate e altrettante visite. Poi c’erano Timur e Marina, coppia felice e affiatata, che erano stati i primi inquilini dell’appartamento. Era un anno che abitavo lì quando si sposarono. Ovviamente non lasciarono la loro stanza, perché dissero che non avevano soldi per permettersi di pagare l’affitto di un appartamento tutto per loro, e anche perché lì stavano troppo bene››.

‹‹E le altre due ragazze?›› insisté Freija.

‹‹Avdotja e Galja occupavano l’altra stanza matrimoniale, anche loro una coppia felice›› concluse Hyoga alzando le spalle.

Freija si trattenne dal ridere, coprendosi la bocca con una mano.

‹‹Davvero una famiglia fuori del comune…››.

‹‹Ah, te l’avevo detto. A parte tutto, con loro sono stato bene›› disse Hyoga con un sospiro. ‹‹Mi è dispiaciuto lasciarli, mi ero affezionato all’armonia che si era creata tra noi. L’appartamento era grande ma poteva sembrare impossibile abitarci in sei, eppure riuscivamo a non invadere i nostri spazi. È stato bello››.

‹‹Sei stato via molto?››.

‹‹Da Tokyo, dici? Sì. Un anno…quasi due anni, a dire il vero. Ripensando a quel periodo, certe volte penso che sia passato in un lampo, mentre altre volte mi chiedo come ho fatto a restare tutto quel tempo lontano da Villa Kido. Alla fine, dopo un esame di coscienza lungo quasi due anni, quando mi sono sentito guarito, ho capito che la soluzione migliore era ritornare. Sentivo la mancanza dei ragazzi, e anche di Saori››.

La voce di Hyoga vibrò, commossa, e restarono per qualche minuto in silenzio, con Freija che guardava Hyoga stuzzicare il fuoco con l’attizzatoio. Infine, lei mosse le labbra ma non parlò.

‹‹…››.

‹‹Sì››.

‹‹Sì cosa?›› esclamò lei sorpresa.

‹‹Sì, sono andato via perché c’erano stati problemi a Villa Kido. Tensioni, diciamo…››.

‹‹Ma di questo non vuoi parlare…›› balbettò Freija incerta.

‹‹Magari in un’altra occasione››. Hyoga si stirò, alzando le braccia alte e sbadigliò. ‹‹Abbiamo fatto tardi, principessa››.

Lei era un po’ delusa, perché si era divertita e non era stanca, ma Hyoga aveva fatto gli occhi piccoli per il sonno.

‹‹Sì›› disse alzandosi. ‹‹Buonanotte››.

Note

  1. Certo, ( by ).
  2. Ah, è così, ( vot cac ).