CAPITOLO VENTUNESIMO: SCOMODE VERITA’.

Yulij fissava il mare. Ammirata, osservava le onde nascere e poi disfarsi, a volte nel breve arco di un istante, schiantandosi sugli scogli e sollevando spruzzi d’acqua che disturbavano i soldati di guardia alla prigione di Capo Sounion. Si chiese come stesse la ragazza incarcerata, come avesse potuto commettere atti così terribili da meritare una sorte simile. A vederla adesso, magra, con il volto pallido e dal colorito terreo, l’avrebbe creduta una viandante, forse figlia di una famiglia povera, una condizione ben diversa dalla sua.

Sospirò, spostandosi i lunghi capelli grigi dietro la schiena, e ricordando quanto avesse dovuto pregare i suoi genitori affinché le permettessero di allenarsi per diventare un Cavaliere, quanto non capissero l’importanza della sua fede in Atena. Del resto come avrebbero potuto? Non erano guerrieri, né mai lo erano stati, bensì ricchi mercanti, che commerciavano da secoli in tutto il Mediterraneo, e avrebbero voluto che la figlia seguisse la strada tracciata dagli avi, divenendo contabile e poi amministratrice dell’azienda di famiglia. C’erano stati litigi, urla furiose, a volte anche uno schiaffo aveva ricevuto da suo padre. E poi c’era stato il terremoto.

E nessuno aveva più urlato.

"Cosa succede qua?" –Una voce maschile distrasse Yulij dai suoi pensieri, facendola voltare in tempo per ammirare il fisico statuario di Ioria del Leone avvicinarsi.

Bello, come gli era sempre apparso, il Custode del Quinto Tempio esprimeva al meglio gli ideali di virilità che avrebbe voluto ritrovare in un uomo, per questo fu contenta di indossare la maschera in quel momento, così Ioria non avrebbe potuto vederla arrossire imbarazzata da frivoli pensieri.

"Cavaliere di Leo!" –Si inchinò prontamente, raccontando quel che era accaduto e la decisione di Libra di tenere la ragazza in prigione. –"Credevo foste in missione! Io… vi avevo visto lasciare le Dodici Case qualche ora addietro!"

"In effetti sarei dovuto partire!" –Ammise Ioria. –"Pur tuttavia ho deciso di trattenermi, per capire cosa fare, e per farlo a volte ricorro all’aiuto di un amico. Con lui che mi ascolta è più facile prendere decisioni!"

"Capisco!" –Commentò la ragazza, di certo desiderosa di sapere altro ma senza voler apparire come una ficcanaso. A guardarlo da vicino, Ioria era ancora più bello, rendendo degnamente onore all’età che aveva. Capiva adesso perché la Sacerdotessa dell’Aquila fosse spesso turbata in sua presenza, per quanto amasse apparire fredda e distante. Non che avesse mai avuto modo di parlarle, al riguardo, erano solo sciocchi pettegolezzi che circolavano nel campo di addestramento femminile.

"Ero da mio fratello!" –Confessò il Cavaliere di Leo, più parlando con se stesso che con la ragazza.

"Da vostro…?! Ma come, io credevo che la tomba…?!"

"Micene non ha mai avuto una vera sepoltura nel Grande Tempio, per vicende complesse che non ho voglia di ripercorrere. Nonostante ciò, anni addietro un amico dispose un’urna in sua memoria su una collina qua vicino, dove lui e Micene, e poi anch’io quando crebbi, erano soliti allenarsi. Un memoriale cui recarsi di tanto in tanto e rendere omaggio ai ricordi, quelli più belli, spaziando con lo sguardo sull’intero Santuario."

Yuliji non disse niente, limitandosi a chinare il capo e a darsi della stupida per essersi fatta travolgere da pensieri infantili. Capiva il Cavaliere di Leo, avendo anch’ella avuto bisogno, nel corso degli anni, e anche in tempi recenti, di confrontarsi con persone del suo passato che ormai non erano più con lei. Ma per farlo lei aveva scelto un altro metodo. Si affidava alle stelle.

"Posso vederla?"

"Uh?! Beh, il Cavaliere di Libra ha dato ordine di non far avvicinare nessuno, ma credo che voi non abbiate modo di essere ferito da quella donna…"

Ioria non aggiunse altro, incamminandosi lungo il sentiero fino alla base della scogliera e congedando i soldati di guardia. Ricordava molto bene Tirtha e Pavit, i discepoli di Virgo, e la loro tragica esperienza sull’Isola delle Ombre. Pur con tutta l’oscurità che li aveva assaliti, pur con tutto il male che aveva maciullato il loro cuore, alla fine erano riusciti a ritrovarsi e a rimanere uniti. Sorrise, paragonando il loro legame a quello che lo univa a Micene. Anche loro non si erano forse persi per poi ritrovarsi?

"Tirtha…" –Avvicinandosi alle sbarre, Ioria scrutò nella cella, non vedendo niente, solo il mare avanzare e ritirarsi di continuo. Si avvicinò ancora, spostando lo sguardo dietro agli scogli, verso il fondo della cavità, dove il sole a fatica arrivava, e allora li notò. Due occhi neri, persino più scuri dell’oscurità stessa.

In un attimo Tirtha balzò avanti, fiondandosi contro le sbarre e allungando lunghi artigli di tenebra. Ioria fece appena in tempo a fare un salto indietro, evitando che l’affondo gli strappasse un occhio oltre ad un ciuffo di capelli.

"Per Atena! Come sei ridotta?" –Mormorò esterrefatto, riconoscendo che le sue condizioni erano addirittura peggiori di quelle in cui l’aveva vista sull’isola, prima che Pavit la salvasse. –"Consunta dall’ombra, della Pellegrina resta mero scheletro ormai!"

Che l’avessero raggiunta o meno, quelle parole la fecero imbestialire ancora di più, mentre muoveva tra le sbarre le braccia artigliate. Se fosse più magra, riuscirebbe persino a sgusciarci attraverso! Notò Ioria, chiedendosi che cosa avesse potuto generare una simile trasformazione. Ricordava l’affetto che legava i discepoli di Virgo, questi due in particolare, gli ultimi superstiti di dieci credenti indiani, e non riteneva possibile che un’oscurità potesse essere così forte da distruggerlo.

Eppure… Si disse, strusciandosi il mento pensieroso. Già un’altra volta, ad un amico accadde di affrontarne un altro. E ricordò quando, anni addietro, Galarian lo attaccò alla Quinta Casa, posseduto da un gelido cosmo di ebano che aveva preso il controllo della sua coscienza.

Arkhein.

Che sia accaduta la stessa cosa a Tirtha? Rifletté il Leone, realizzando che, in tal caso, vi era un solo modo per scoprirlo e per liberarla da quella prigionia. Estirpare l’ombra dal suo cosmo! E poiché l’ombra è materia composta da atomi, sarà il mio pugno, muovendosi a una velocità maggiore a quella della luce, ad annientarla! Come salvai Galan quel giorno, ugualmente salverò te, Tirtha!

"Ardi, cosmo del Leone!!!" –Ruggì Ioria, concentrando la propria energia sul pugno destro. –"Per il Sacro Leo!!!" –La tempesta di fulmini si abbatté su Tirtha, con una precisione estrema, avendo cura di colpire solo dove l’ombra era palesemente allo scoperto: sulle mani, negli occhi, persino la bocca sembrava vomitare oscurità. E da quei varchi, il fulmine lucente si insinuò nel corpo della ragazza, scuotendola, stramazzandola, fino a farla accasciare esausta sugli scogli.

"Cavaliere di Leo!!! Cosa succede?!" –Esclamò Yulij, arrivando di corsa con i soldati, che avevano percepito l’avvampare del cosmo d’oro.

Ioria spiegò in breve quanto accaduto, sperando che il fulmine avesse fatto breccia nel suo animo, costringendo Tirtha a risvegliare la sua volontà. Adesso, che viva o muoia, tutto è in lei.

***

"Mo… Morgana?! Ma com’è possibile?!" –Spalancò gli occhi la Sacerdotessa dell’Ofiuco, alla vista della sorella che credeva scomparsa.

"Non fare quella faccia! Sono una combattente come te! Non una debole! Ho perso una battaglia, ma non la vita! Il bel giovane che venne a recuperare l’elmo del Sagittario di nient’altro si curò, se non di quell’oggetto! Pensò che fossi morta, dopo il suo ultimo attacco, e per un po’ lo credetti anch’io…" –Esclamò la donna dai lunghi capelli blu notte, con un pizzico di tristezza. Quindi si alzò, avvicinando la ciotola fumante al volto di Tisifone e pregandola di nutrirsi, finché la zuppa fosse stata calda. –"Hai rischiato l’ipotermia, sorella! Ho persino pensato che non ce l’avresti fatta, ma poi mi sono detta: no, Tisifone è una guerriera! Saprà lottare fino in fondo! Ero certa che ti saresti ripresa!" –Aggiunse, per poi allontanarsi.

"Morgana, aspetta! Non andartene! Dobbiamo parlare! Io… devo sapere!" –La richiamò la sorella, facendola voltare prima che uscisse dalla stanza.

"Parleremo! Non avere timore! Non appena ti sarai ristabilita! Mangia qualcosa, poi indossa questi abiti che ti ho messo da parte, sono della mia taglia, dovrebbero calzarti! Ti aspetto nel salone, quando sarai in grado di camminare da sola!" –E se andò, lasciando la Sacerdotessa insoddisfatta.

Mille pensieri ronzavano nella sua mente, relativi alla sorte di sua sorella e anche alla propria. Se ben ricordava, il castello di Morgana si trovava nei Caraibi… come aveva fatto a giungere fin là, dal Mar Celtico? Scosse la testa, ancora intontita, prima di assaporare lentamente la zuppa di verdure, un boccone per volta, facendo fatica persino a ingoiare. Ripensò a quel che la sorella le aveva appena detto e annuì, dandole ragione. Era una combattente, proprio così, e Morgana lo sapeva, perché era come lei. Per questo l’aveva lasciata sola, anziché scortarla come un’invalida fino al salone, perché doveva essere in grado di camminare sulle proprie gambe. Solo così avrebbe potuto essere pronta.

Per la vita e per la guerra.

***

Il salone del castello di Morgana era molto spoglio, con un minimo arredamento finalizzato alla praticità: una lunga tavola per desinare e un caminetto nell’angolo interno, la cui canna fumaria, passando al centro della costruzione, permetteva di scaldare anche le stanze adiacenti e superiori. Proprio vicino al focolare acceso sedeva la donna in attesa, su una poltrona di pelle che aveva conosciuto tempi migliori, fissando i legni ardere e schioccare.

"Sei diventata come lei!" –Commentò una voce femminile, attirando l’attenzione di Morgana, che si voltò verso l’ingresso, dove Tisifone era appena comparsa, rivestita degli abiti che le aveva prestato.

Camminava a passo deciso, ma c’era qualcosa nel suo incedere che rivelava la degenza non ancora terminata. Morgana le fece cenno di sedersi sul canapè di fronte a lei, dove una coperta la aspettava. Nonostante fossero vicini all’Equatore, l’inverno del mondo aveva raggiunto anche loro e il castello non era mai stato un luogo simbolo di tepore.

"Come nostra madre, intendo." –Aggiunse, mettendosi a sedere e studiando la reazione della sorella. –"Ben pochi ricordi ho di lei, morta quando ero bambina, ma in quei pochi la rammento vicina al fuoco, intenta a cucinare o a rattoppare i nostri abiti e quelli di nostro padre, che consumava lavorando nelle cave di rena rossa."

Morgana assentì, senza dire altro. Non c’era bisogno, in fondo, di aggiungere alcunché. Sapevano entrambe cos’era accaduto in seguito, dopo che l’uomo che le aveva generate era rimasto invalido in un incidente in miniera. Era ricaduto su di lei, la figlia maggiore, l’onere di sfamare la famiglia e aveva scelto la sua strada. Accattona, ladra, un giorno corsara, era divenuta quello che era senza rimpianti.

"Non avrei mai creduto di rivederti! Non in questa vita, almeno!"

"Neanch’io lo avrei creduto! Ed in effetti è stata una casualità, un gioco del destino, a farci incontrare di nuovo!" –Commentò la donna dai capelli blu, raccontando come l’aveva trovata. –"Mi trovavo in Nord Europa, sulla via del ritorno dopo aver concluso certi affari che non mi perito di raccontarti, quando percepii un debole cosmo conosciuto. Fu una sensazione strana, all’inizio, perché non riuscivo a capire cosa fosse questo fuoco che un tempo mi aveva scaldato il cuore. Poi compresi, eri tu che stavi morendo! Giungemmo in tempo per recuperarti dal mare. Come una naufraga moribonda, ti eri afferrata a un pezzo di legno e non volevi mollarlo più, il tuo scoglio salvatore. Quando ti issammo a bordo eri fredda come la morte, vicina all’ipotermia, di sicuro. Non fu facile scaldarti, ma il cosmo serve anche a questo, no? A irrobustire una persona!" –Sospirò infine, alzandosi e poggiando una mano sulla spalla della sorella. –"Sono lieta che tu ti sia salvata! Sentiti libera di rimanere finché non avrai recuperato le forze, fin quando non sarai in grado di andartene da sola. Ho una barca soltanto, e mi serve, per cui dovrai trovare un modo, ma sono certa che l’inventiva non ti manca, sorella!"

Tisifone scosse la testa, sentendola parlare in quel modo. Così lontano e diverso dal tono affettuoso con cui le si rivolgeva quando era bambina. Fece per replicare, ma si trattenne, vedendo un riflesso di luce scintillare sul volto della donna, prima che questa lo spazzasse via, pulendosi la guancia e cancellando quell’unica lacrima.

"Avete bisogno di me, mia signora?" –Esclamò allora una ruvida voce maschile, anticipando l’entrata nel salone di un giovane dai capelli neri. Alto e ben piazzato, indossava un’aderente armatura bianca e nera, con guizzanti pinne posizionate ai lati delle braccia e delle gambe. Non portava elmo, permettendo a Tisifone di riconoscerlo.

Lo aveva visto una volta sola, anche se all’epoca era solo un adolescente, quando il precedente Gran Sacerdote lo aveva bandito, assieme ai suoi compagni, condannando i loro gesti di pirateria.

"Non al momento, Delfino, ma apprezzo la tua premura! Rimani a disposizione, comunque, qualora mia sorella richieda assistenza!" –Non disse altro e se andò, lasciando Tisifone nel salone assieme al nuovo arrivato.

"Anche tu ti sei salvato, dunque?"

"Dalla carica di Pegasus e dei suoi compari?! Più per indolenza che per merito!" –Rise Delfino. –"Caddi da una rupe e mi troncai un braccio e una gamba. Un vero Cavaliere non si sarebbe comunque arreso, si sarebbe arrampicato lo stesso, a mani nude, incurante del dolore e della fatica. Ma probabilmente quel titolo non mi è mai appartenuto. Strisciai fino ad una caletta, aspettando che la notte passasse, che qualcuno dei miei compagni, forse la mia regina, venisse a salvarmi. Tentai persino di usare il cosmo per curare la ferita, ma non avendolo mai destinato ad un simile uso fallii. L’alba mi sorprese a invocare la morte, tremante di freddo e paura per il destino di solitudine che mi attendeva. E fu allora che lo sentii… un cosmo caldo come mai l’avevo percepito prima. Mi invase, fuoriuscendo dal mio cuore e donando affanno al mio corpo spezzato, permettendomi di tornare a camminare. Uscii allora dal mio rifugio, inerpicandomi fino al castello, dove trovai Morgana ferita, ma ancora viva. Anch’ella, mi confidò, era stata lambita da quell’improvvisa energia. Chiunque fosse stato a salvarci la vita, ci aveva scaldato il cuore, così ci sforzammo nel migliorare la nostra esistenza, abbandonando la pirateria e dedicandoci ad una vita semplice, come pescatori, su quest’isola. Fummo raggiunti in seguito da altri Cavalieri disonorati, reietti come noi che non avevano mai avuto la determinazione di lottare per Atena fino in fondo. E li accettammo, permettendo alla nostra colonia di prosperare."

"Per quale motivo non siete tornati ad Atene? Saprete di certo che Arles è caduto e da un anno e mezzo la vera Atena impera sul Grande Tempio!"

"Per fare cosa? Implorare il perdono divino? Ah ah ah! Sarebbe troppo umiliante, oltre che inutile! Atena non potrebbe mai graziarci! Faremo privata ammenda per le nostre colpe. Un po’ lo stiamo già facendo, nel nostro piccolo. Non so cosa vi abbia raccontato, ma la verità è che eravamo andati in Scandinavia per portare aiuto alle popolazioni in difficoltà, alle navi che non riuscivano a rientrare in porto. A vostra sorella non piace parlare di sé, di questa nuova versione nata dopo la sconfitta per mano di Pegasus. Non so perché, probabilmente teme di non sentirsi degna della vostra fiducia. Timore che non ha motivo di esistere, dato che Morgana vi ha salvato, donandovi tutto il suo cosmo! Non siete stata l’unica, Tisifone, a giacere incosciente per un paio di giorni, al confine tra vita e morte." –Chiarì Delfino, mentre gli occhi del Cavaliere d’Argento si riempivano di commozione, confermando un sospetto preesistente.

Un guizzo veloce attirò la sua attenzione, permettendole di vedere Morgana scagliarsi con forza contro l’uomo, fino a sbatterlo al muro, per poi schiaffeggiarlo furiosa.

"Devo tagliarti la lingua, Delfino? Non credo che ti serva, in fondo, per nuotare!"

"Per… donatemi, mia regina! Stavo soltanto ragguagliando vostra sorella sul nostro nuovo stile di vita!" –Si limitò a scusarsi il Cavaliere, mentre Tisifone si alzava, ordinando loro di smetterla.

"Siete Cavalieri di Atena anche voi! Che lo vogliate o meno! Non potete averlo dimenticato! Anzi, in fondo al cuore sono certo che lo sappiate! E il fatto che le armature non vi abbiano ancora abbandonato lo testimonia!"

"Sciocchezze! Mica sono esseri senzienti, le corazze!" –Bofonchiò Morgana, lasciando comunque Delfino libero dalla sua stretta.

"Ti sbagli! Un’armatura sente colui che la indossa, aiutandolo e donandogli energia quando la sua causa è nobile e valida, oppure abbandonandolo quando questi sceglie la via dell’ombra, come accadde al bieco Cancer! Inoltre… non sono soltanto le armature a riporre fiducia in voi… anche la Dea!"

"Che… stai dicendo?!"

"Quello che sai, da mesi ormai! È stata Atena a salvarvi la vita, perdonando i vostri peccati e accettandovi tra le fila dei suoi combattenti! Come fece con Gemini e con Kanon lo scorso anno! E, nel piccolo anche con me, rea di non averla riconosciuta a suo tempo, e di aver persino levato la mano su di lei!"

"È assurdo! Non ci credo! Non ha senso!!! Per quale motivo Atena dovrebbe averci perdonato? Noi che abbiamo infangato il suo buon nome con turpi azioni?!"

"Per darvi una seconda possibilità! Questo è quello che fa la Dea, con tutti noi! Ci permette di ricominciare! Atena crede nella grandezza del genere umano, malgrado tutto!"

Per qualche minuto nessuno parlò, riflettendo tutti sulle parole di Tisifone. Difficili da accettare, ma forse in linea con il pensiero della Dea. Se così fosse… Se Atena ci avesse davvero perdonato… Mormorò Morgana, chiudendo il pugno, inebriandosi di quell’illusione. Ma poi scosse la testa, considerandola per ciò che era, e nulla più.

Rumore di passi improvvisi risuonò nel castello, anticipando l’entrata nel salone di un ragazzo dai folti capelli rosa. Indossava un’armatura rossa, con delle catene attorcigliate attorno ai bracciali, ed aveva il volto trafelato e lo sguardo scioccato.

"Morgana! Perdonate l’intrusione! Ma un branco di cormorani è appena arrivato dalle Canarie, portando notizie incredibili!!!"

"Sta’ calmo, Reda! Cos’è accaduto? Quali notizie portano i nostri amici uccelli?"

"Qualcosa è comparso al largo delle coste africane… qualcosa che non dovrebbe esistere… Un’isola… enorme!"

***

Quando Tirtha aprì gli occhi, notò le onde ritirarsi dal pavimento di scogli. Aveva le vesti bagnate e sentiva freddo, eppure qualcuno le aveva messo una coperta addosso, sistemandogliela alla meno peggio per ripararla dalla brezza della sera. Si voltò a fatica, lamentando dolore alla schiena e soprattutto alla testa, e vide le sbarre di fronte a lei. Stordita, non capendo dove si trovasse, le afferrò e fece leva per tirarsi su, ma, ancora troppo debole, fallì e cadde avanti, sbattendo la testa contro una sbarra.

"Stai attenta! Ti sei appena ripresa!" –Commentò una voce maschile, attirando la sua attenzione.

Tirtha si voltò e notò un trentenne dai capelli castani e dagli occhi verdi fissarlo con sguardo apprensivo, affiancato da una figura con una maschera eburnea sul volto.

"Sta bene? È in sé?" –Domandò quest’ultima, permettendo a Tirtha di capire che si trattava di una donna.

"Credo di sì!" –Annuì Ioria, che aveva percepito la scomparsa del cosmo d’ombra dal corpo del discepolo di Virgo. –"Tirtha, ti ricordi di me? Sono Ioria del Leone, Cavaliere d’Oro di Atena! Sei nella prigione di Capo Sounion, per la tua sicurezza! Ma, se mi aiuti a capire, potrai uscire molto presto!" –Aggiunse, ricapitolando alla ragazza tutto quello che era accaduto, focalizzandosi soprattutto sulla sua possessione da parte dell’ombra. –"Ricordi cosa è accaduto?"

"Io… non ricordo… mi duole la testa…" –Mormorò, tenendosi il cranio con entrambe le mani.

Ioria annuì, prima che Yulij gli passasse una ciotola con alcune fette di pane con olio spalmato sopra e una fiaschetta con dell’acqua. –"Tieni. Mangia qualcosa, non so da quanto tempo non ti nutri… di vero cibo, quanto meno!"

La Pellegrina accettò con timore quel gesto, divorando in fretta il pane e prosciugando la borraccia, cercando al tempo stesso di riordinare i caotici pensieri che le riempivano la testa, portandola ad un passo dall’esplosione.

"Ricordo… l’ombra… L’ho sentita in me, una strana inquietudine, qualche giorno fa, mentre osservavo le stelle da una torre di Angkor. Era come… un seme, che velenoso cresceva dentro me. Straziata, ho valutato anche di gettarmi di sotto e affogare nei fossati del tempio, per non fare del male a nessuno!"

"Lieto che tu non l’abbia fatto!" –Le sorrise Ioria.

"Avrei dovuto! Avrei dovuto, invece!!!" –Singhiozzò lei, coprendosi il volto con le mani. Quelle stesse mani con cui riteneva di aver ucciso Pavit.

"Cos’altro ricordi? Dopo aver lasciato Angkor immagino tu sia venuta ad Atene."

"Sì! Atene! Io… sono andata dal mio maestro, perché sapevo che mi avrebbe aiutato, che mi avrebbe donato la pace… però… Aaargh!!!" –Gridò, strappandosi i capelli, in preda a un’isteria improvvisa che spaventò anche Yulij, per quanto Ioria le dicesse di rimanere calma e concentrata. –"Il sangue, le grida, gli artigli di tenebra, il cuore di Pavit… io… l’ho stretto in mano… io sono un mostro!!! Devi uccidermi!!! Voi dovete uccidermi!!!" –Strillò disperata, afferrando le sbarre e incastrandovi la testa in mezzo, con le lacrime che le rigavano il volto.

"La luce del mio fulmine ha incenerito l’ombra annidata nel tuo cuore. Ma tu e tu soltanto puoi fronteggiare i ricordi!" –Le parlò Ioria, espandendo il proprio cosmo e avvolgendola, per donarle momentaneo tepore. –"So bene quanto possano fare male, quanto il passato a volte possa uccidere più del presente! Ma solo tu puoi donare pace a te stessa, accettando quanto è accaduto!"

Tirtha non disse niente, limitandosi a scivolare lungo le sbarre, rannicchiandosi sotto la coperta, tremando di freddo e paura, non desiderando ricordare più. –"Non voglio più vedere!!!" –Commentò, agitando la mano davanti al viso. –"Non voglio più vederlo… morire!!!" –Aggiunse, esausta. E a Ioria e a Yulij sembrò che avesse perso i sensi.

Si guardarono sospirando, prima di voltarsi e incamminarsi verso il Grande Tempio, convinti che non vi fosse altro da fare per il momento, quando uno strillo improvviso li richiamò.

"L’ho visto!!! Io l’ho visto morire!!! Pavit!!! Lui è caduto… davanti a me!!!"

"Co… come?!" –Rifletté Ioria, spingendo la ragazza a un ultimo sforzo, a ricordare ora. E intuendo al tempo stesso quello che stava cercando di dire.

"Lui mi ha detto di ucciderlo!!! Lui mi ha ordinato di farlo!!! Ma io non l’ho fatto!!! Non potevo! Io… lo amavo…" –Singhiozzò Tirtha, mentre Ioria si chinava su di lei, di modo che soltanto lui potesse udire le sue parole. Le afferrò la fronte con la mano, donandole ancora un po’ di calore e aiutandola a vincere quell’ulteriore resistenza con cui qualcuno aveva manovrato la sua mente.

"Cos’è accaduto alla Sesta Casa, Tirtha? Chi ha ucciso Pavit?"

"Lui! è stato lui!" –Sibilò la ragazza, gli occhi iniettati di sangue. –"Il Cavaliere di Virgo!!!"