CAPITOLO VENTIDUESIMO: ETERNA BEATITUDINE.

Fu con un lampo di luce che Etere apparve sul campo di battaglia.

Nessuno lo percepì finché non spalancò le braccia e liberò un’ondata di pura luce. Quanto fosse intensa nessuno poté stabilirlo, ma per la retina di guerrieri che da ore combattevano immersi nella caligine di un mondo che sprofondava sempre più verso l’abisso fu un violento shock. Quanto quello di ritrovarsi ad affrontare gli amici o gli avversari di un tempo.

In un attimo l’intera spianata di fronte alla Porta della Luce brillò come se fosse mezzogiorno, costringendo i pochi fortunati, da essere sufficientemente distanti o da riuscire ad abbozzare una qualche forma di difesa, a proteggersi gli occhi voltandosi o coprendoli con un braccio. Fu un mezzogiorno rapido, che svanì nello stesso silenzio con cui era sorto.

Quando la luce scemò di intensità e Sirio poté abbassare lo scudo dell’armatura, quasi credette di non essere più lì. Vacillò, per un istante, e sarebbe caduto se Alexer non lo avesse afferrato, stringendogli il polso e intimandogli di resistere. Soprattutto adesso.

Ma come poteva? Là dove prima le già decimate forze dell’Alleanza stavano combattendo contro le ombre dei guerrieri caduti adesso non c’era più niente. Nemmeno un soffio di vento che spazzasse via la polvere del loro ricordo, come se quei valorosi combattenti (e, del pari, i loro nemici) non fossero mai esistiti.

Vi era solo un uomo (sebbene di un uomo non potesse trattarsi, era chiaro a chiunque avesse prestato ascolto alle vibrazioni del suo cosmo, alla profondità del suo bagliore, alla solidità della sua fede), rivestito da eleganti abiti color panna. Privo di armatura o di qualsiasi protezione, si limitò a lisciarsi le vesti, spazzolando via i resti di chissà quale immaginaria sporcizia lo avesse imbrattato. Anche da distanza, Sirio riuscì a leggere le lettere scritte, in oro lucido, che decoravano i suoi abiti.

Αιθήρ

"Etere…" –Mormorò, stringendo i pugni.

"Arguisco che tu sia Sirio il Dragone." –Parlò il Nume, poggiando lo sguardo su di lui, senza che il ragazzo riuscisse a decifrarlo. Vacuo, come il tono delle sue parole.

"Mi conosci?"

"Auspicavo di incontrarti, in verità. Non avrei sopportato di ritrovarmi davanti l’impertinente Cavaliere di Pegasus, capace solo di proferir vuote contumelie. Tu, al contrario, appari giovane di più pacato animo, che ben si addice alla mia persona."

"E quale sarebbe la tua persona? Quella di un assassino di indifesi?"

A quelle parole, Etere non rispose. Ma a Sirio parve di scorgere il tendersi leggero di un sopracciglio, prima che il Nume ricominciasse a parlare.

"Devi capire, Cavaliere del Dragone, che per Divinità par nostro, edificatrici del mondo, concetti come vita e morte sono labili e, a mio parere, ben poco interessanti. Soprattutto se è di esseri inferiori, come i Claudicanti, che stiamo parlando."

"I Claudicanti?!" –Disse Sirio, scuotendo la testa e strappando a Etere un leggero sorriso.

"Originale, non è vero? È un termine che ho appena coniato. Mia sorella mi rimprovera per il mio misoneismo, ma a volte mi diletto nel sorprenderla."

"Di buona favella sei certo maestro." –Ammise Sirio, staccandosi da Alexer e iniziando ad avanzare verso Etere, di fronte allo sguardo attento e preoccupato dell’Angelo d’Aria e di tutti i suoi compagni. –"Ma finora ho udito solo uno stoltiloquio e dubito che tu sia qui per questo."

Quella volta l’inarcarsi del sopracciglio del Dio Ancestrale fu evidente, come pure la smorfia con cui si rivolse al Cavaliere di Atena. –"Stoltiloquio eh? Dovrò dunque insegnarti a portar rispetto, come ho redarguito il Cavaliere di Pegasus, rammentandoti il posto che occupi nel grande schema delle cose, stabilito, per inciso, da Lord Caos!"

"Ti aspetto!" –Esclamò Sirio, sollevando lo scudo e ponendosi in posizione di difesa. Ma Etere nemmeno lo guardò, scivolando nell’aria senza sfiorare il suolo, leggero, quasi impercettibile, fino a portarsi di fronte a Eir e Idunn, che, poco indietro, stavano curando alcuni Blue Warriors feriti. Le guardò dall’alto, facendo oscillare la testa, quasi stesse tentando di decifrare il loro agire, prima di rivolgere loro il palmo della mano destra, su cui risplendeva un’abbacinante luce.

Eir fu svelta a tirare Idunn a sé, mentre sollevava lo scudo di energia cosmica tutto attorno a loro e ai pochi guerrieri che riuscì a raggiungere, una frazione di secondo prima che il tocco di Etere lo penetrasse. Quasi fosse anch’esso fatto di sola aria.

Ammutolita, la Dea della Medicina vide la mano del Nume entrare all’interno del suo corpo e riempirlo di luce. Attorno a lei, Idunn gridava, i Blue Warriors puntavano le armi e qualcuno (forse il Principe Alexer?) correva a portarle aiuto. Ma Eir non li vide, non sentì più nulla. Solo un’infinita pace. Con una silenziosa esplosione di luce, l’Asinna della Medicina scomparve, lasciando Idunn ad abbrancare il vuoto, e frammenti di polvere di stelle, nel vano tentativo di raggiungerla.

"Co… Cosa hai fatto?! Maledetto!" –Ringhiò, balzando avanti, con la mano chiusa a pugno. Ma Etere nemmeno la considerò, spingendola addosso ai Blue Warriors con un semplice battito di ciglia. Distrusse alcune spade congelanti, ne rimandò indietro altre, conficcandole nei cuori impavidi di chi le aveva impugnate fino a quel momento, finché non fu distratto dallo sfrigolare di un cosmo nel cielo plumbeo.

Sollevò lo sguardo, con la stessa infastidita aria di chi è costretto ad aprire l’ombrello per ripararsi dall’acquazzone, mentre una torma di folgori azzurre piombava su di lui.

"Fulmini siderali!" –Tuonò Alexer, apparendogli di fronte.

Sirio, da lontano, riuscì solo a vedere il Dio Ancestrale spostarsi più velocemente di quella pioggia di dardi. Anzi no, nemmeno vi riuscì. Quello che vide furono solo macchie, le immagini residue che Etere si lasciava dietro, mentre schivava l’assalto di Alexer e, inesorabilmente, si avvicinava al Principe della Valle di Cristallo.

"No!" –Gridò, schizzando avanti e portandosi tra i due combattenti, in tempo per sentire la mano del Nume sfiorare lo scudo del Dragone e irrorarlo di luce. Mai, in tutta la sua vita, Sirio aveva percepito così tanta potenza, nemmeno nei più forti avversari affrontati, nemmeno in Polemos, che l’aveva sconfitto nello Jamir. E temette che il suo corpo non avrebbe retto. –"Aaargh!!!" –Strillò, venendo scaraventato in aria, assieme ad Alexer, con l’armatura divina che si schiantava in più punti e le ossa che rischiavano di incontrare la stessa fine.

"Ora!" –Sentì qualcuno gridare, mentre colorati dragoni di energia sfrecciavano verso Etere. –"Danza dei Draghi!"

Vidharr affiancò Ascanio e ugualmente fecero i druidi e le sacerdotesse dell’Isola Sacra, aiutati dai discendenti di Mu, dirigendo i loro assalti contro il Nume, ma bastò che questi scuotesse il mantello candido per inviare indietro tutti quegli assalti, in un lampo di luce che abbagliò i contendenti.

Crollato a terra, Sirio faticò a rialzarsi. Temette, per un momento, di avere tutte le ossa rotte, ma poi, piano piano, riuscì a muoversi, ritrovandosi a ringraziare, per l’ennesima volta in quella giornata, Efesto per aver realizzato armature così resistenti, e Atena per averle fortificate con il suo ichor. Prima mosse un dito, poi un braccio, infine fu in grado di issarsi sulle ginocchia e osservare lo sfacelo che lo circondava. In pochi minuti Etere era riuscito laddove le Morrigan, Tiamat e l’Armata delle Tenebre avevano fallito. Li aveva sconfitti.

Alexer era ancora privo di sensi alle sue spalle, con l’Ars Magna crepata in più punti. Ascanio, da qualche parte in mezzo a un mucchio di cadaveri, faticava a respirare e neppure il figlio di Odino riusciva a rialzarsi. C’era soltanto lui, con lo scudo e il bracciale destro in frantumi, l’unico a muoversi ancora di fronte alla Porta della Luce. E là, ai piedi del cancello nero, una figura di bianco vestiva lo aspettava, le mani giunte al petto, in composto e solenne silenzio. Sospirando, Sirio si mise in piedi e iniziò ad avanzare, consapevole di essere il solo a poter tentare di fermarlo, o forse di essere proprio colui che Etere aveva desiderato incontrare.

Stiamo facendo il suo gioco. Si disse, trascinandosi verso il portone, avvicinandosi molto più di quanto fossero riusciti a fare in precedenza. Nemmeno durante l’assalto congiunto alle quattro porte erano arrivati così vicini. Ma anche questo è lui a volerlo. Ammise, giungendo infine a pochi passi dal Nume Ancestrale.

"Credo che adesso possiamo parlare." –Commentò questi.

"Perché lo fai?" –Quindi, vedendo che Etere non aveva capito, o forse non aveva voglia di rispondergli, iterò la domanda. –"Perché ti comporti così, servendo Caos?"

"E in quale altro modo dovrei orientare la mia esistenza? Tu, mio giovane e combattente amico, ritieni che gli individui possano decidere da soli il proprio destino, ma è proprio questa fallacia che ti perderà, che perderà tutti voi, deboli e insignificanti esseri umani, poiché retta sull’erronea convinzione che il futuro sia un libro dalle pagine bianche. E in quest’errore è caduta anche Atena, la fallace Dea che avrebbe trovato ben più delicata fine nella beatitudine che volevo offrirle, che non nella violenza di cui Erebo o Nyx la faranno oggetto. Poiché vedi, Sirio Dragone, Sirio il saggio, come ti considerano i tuoi compagni, il futuro non esiste, allo stesso modo del passato. Sono convinzioni di cui vi siete riempiti la testa per fingere che la vostra esistenza abbia uno scopo." –Gli disse Etere, avvicinandosi e battendogli sulla fronte a pugno chiuso. Sirio avrebbe voluto ritrarsi ma il cosmo del Dio lo stava inchiodando sul posto. –"Quello che esiste è solo un eterno presente, un qui e ora in cui gli uomini sono confinati a vivere e in cui nient’altro fanno se non ripetere all’infinito un unico schema: odiarsi e uccidersi l’un l’altro, sprecando le loro già di per sé vacue esistenze in conflitti, acredine e atti di bestialità. L’uomo altro non è se non l’ombra di se stesso."

"O l’ombra degli Dei che l’hanno creato?"

"Tu credi? Sei nel torto a pensarlo, poiché Lord Caos, dall’alto della sua generosità, partorì gli uomini per affidare loro la bella Terra che aveva generato. Ma loro come l’hanno trattata? Conosci meglio di me l’abuso che ne hanno fatto! Per cui no, non parliamone. Non voglio rovinare gli ultimi istanti della tua vita disquisendo su verità accertate che solo l’ottuso idealismo di un sognatore non riesce a vedere. Voglio farti un dono, piuttosto. Sì, lo stesso che avevo offerto alla Dea che tanto veneri."

"Un dono?!" –Balbettò Sirio, mentre Etere frusciava attorno a lui, candido nelle sue vesti bianche e odorose di lavanda.

"Proprio così. Gli Dei sono generosi, con chi merita la loro generosità, soprattutto noi Progenitori che contribuimmo a edificare il mondo. Io donai la luce del cielo, quella più alta, a ricordare agli abitanti della Terra che esiste sempre un altrove a cui aspirare, un mondo oltre l’orizzonte che avrebbe dovuto stimolare la loro ambizione e la loro sete di conoscenza. Invece, ahimè, ho osservato il disinteresse che hanno mostrato per il mio dono. Ben più attraenti, forse, sono stati l’oscurità di Erebo e di Nyx, forse più facili da raggiungere. Com’è semplice, in fondo, chiudere gli occhi e perdersi nella notte, mentre immaginare la luce del creato… oh, è qualcosa che nessuno è mai riuscito a concepire." –Sospirò il Nume, fermandosi di fronte a Sirio e osservandolo, con sguardo fermo, senza sbattere neppure una ciglia. E, continuando a fissarlo negli occhi, Etere gli posò la mano sulla fronte, irrorandola di luce. –"Sorridi, Cavaliere del Dragone, come la costellazione che rappresenti, io ti permetterò di ascendere al più alto dei cieli. Ti permetterò di abbandonare questo lurido mondo e trovare la sempiterna pace a cui il tuo cuore tanto anela. Pace per te e per coloro che ami. Poiché nient’altro aspetta i pochi eletti a cui faccio dono dell’eterna beatitudine. Pranava Sabda!"

Sirio rammentò insegnamenti del suo maestro, che ampio spazio aveva dedicato alla storia delle culture del mondo, soprattutto quelle antiche, per cui quelle parole stimolarono vecchi ricordi. Era sanscrito. Che fosse vedico o classico non seppe dirselo, né riuscì a pensare ad altro, faticando persino a tenere gli occhi aperti. Cercò di ribellarsi, di liberarsi dalla morsa psichica di Etere, ma si accorse di non riuscirci. Anzi, inorridendo, si accorse che il Nume si era staccato da lui, arretrando di qualche passo e continuando a fissarlo con quello sguardo granitico, forte di convinzioni a cui mai avrebbe potuto opporsi favellando. E mentre lo fissava, a Sirio sembrò di vederlo cadere, o forse era lui che stava crollando a terra? Non lo capì, non capiva più niente ormai. Tutto ciò che sentiva, dentro, era un’infinita calma, come mai l’aveva provata prima.

Etere l’aveva chiamato "il saggio", contrapponendolo al più irrequieto compagno, eppure, in vita sua, Sirio non aveva mai provato un tale senso di pace, una beatitudine universale che pareva abbracciarlo nel corpo e nell’anima, estendendosi al deserto del Gobi, all’Asia, al pianeta tutto. E se ancora dei mondi esistevano, laddove la loro coscienza non era ancora giunta, allora anche quei mondi adesso sarebbero stati in pace. Nessuna guerra, nessun’odio, lamento o dolore, persino i rumori si sarebbero attutiti. E i colori? Oh quelli ormai avevano perso ogni importanza, attenuandosi, sfumando e tendendo tutti verso il bianco, simbolo di purezza in alcune culture, di lutto in altre, o molto più semplicemente il colore del niente, del vago, dell’informe, di ciò che ancora non si è formato. Di ciò che è solo pensiero.

Questo Sirio credette di essere diventato. Puro pensiero. Ma il solo pensarlo durò un attimo, perché poi anche la sua coscienza scomparve, fluttuò via, vaporosa rimanenza di un tempo che aveva smesso di trascorrere. Quel che Etere poc’anzi gli aveva detto si era infine realizzato: passato, presente e futuro avevano smesso di esistere, lasciando il posto a un’infinita pace.

***

"Da questa parte!" –Esclamò Nesso, correndo lungo i corridoi lugubri del Primo Santuario. Nikolaos lo seguiva senza esitazione, sorreggendo Demetra, ancora svenuta, tra le braccia, ben sapendo quanto Eracle lo tenesse in alta considerazione per le sue doti di incursore. Eppure, per quanto affinati fossero i suoi sensi, neppure il Pesce Soldato riusciva a trovare la via per uscire da quel maledetto tempio. Pareva che a ogni svolta l’edificio mutasse la sua composizione, senza logica alcuna, sollevando muri dove avrebbero dovuto trovarsi finestre e aprendo stretti corridoi che si tuffavano nell’oscurità laddove avevano sperato di incontrare l’uscita.

"È inutile. Stiamo girando in tondo." –Borbottò il Luogotenente dell’Olimpo, chiedendosi da quanto. Quanto tempo era trascorso dal loro ingresso nel Santuario delle Origini e cosa stava succedendo fuori dalle mura? I Cavalieri Celesti suoi compagni erano ancora vivi? Zeus li stava aspettando o era caduto sotto la folgore d’ebano di Erebo?

No, non doveva pensarlo. Come poteva pensarlo, lui che più volte aveva ammirato lo splendore del Signore dell’Olimpo? Eppure, forse per la stanchezza della giornata, per gli scontri continui (anche quelli con i suoi vecchi amici, Giasone, Castore e Polluce, che non avrebbe mai pensato di ritrovarsi davanti, di certo non in forma di ombre affamate di sangue!) o per quella cappa caliginosa che rendeva difficile persino respirare, Nikolaos dovette chiedersi per la prima volta se ce l’avrebbero fatta, se qualcuno di loro sarebbe riuscito a vedere l’alba. Se mai un’alba ci sarà…

Perso nei suoi pensieri, per poco non andò addosso a Nesso, che si era fermato sul limitare di un cortile interno. Guardando oltre la sua spalla, il Luogotenente intravide una corazza verdognola e lunghi capelli neri che uscivano dall’elmo a casco che la figura indossava. Una donna, a giudicare dalle forme dell’armatura e dalle labbra tinte di rossetto.

"Me ne occupo io!" –Disse il fedele di Eracle, prima di aggiungere, a bassa voce. –"Al mio segnale, passa oltre e procedi dritto. Vedi quell’angolo là in fondo, dove le mura si incrociano? È il nord, o almeno lo è al momento, prima che le forme di questo santuario cambino di nuovo."

"Posso aiutarti."

"Ne sono certo, ma chi porterebbe Demetra da suo fratello?" –Ribatté Nesso, prima di uscire nella piccola corte, avviandosi verso la guerriera che intanto aveva sollevato le braccia, rivelando lunghi artigli retrattili. –"Addio Luogotenente dell’Olimpo, è stato un onore combattere al tuo fianco, anche se per il breve soffio di un istante. Ora va’ e porta i miei omaggi a Eracle. Digli… digli che l’Incursore e il Cacciatore hanno tenuto alto il suo nome!"

"Io… lo farò!" –Esclamò Nikolaos, stringendo i pugni. Si sistemò Demetra su una spalla e si lanciò avanti, proprio mentre Nesso schizzava verso l’avversaria, liberando il suo colpo segreto. Vi fu una violenta collisione di colpi, che incendiò l’aria bruna del cortile, scompigliando persino i capelli del Cavaliere Celeste mentre passava oltre, augurandosi la vittoria del giovane Pesce Soldato.

***

Vuoto. C’era solo vuoto attorno a lui, un enorme spazio bianco che lo circondava. E forse non era neppure bianco, ma era l’unico termine con cui riuscì a definirlo, poiché le parole, come i sensi e i ricordi, ormai andavano sfumando, perdendosi nella vacuità in cui era immerso. Un bambino in un oceano di placenta, avrebbe potuto definirsi così, se avesse saputo cos’erano un bambino e la placenta.

E lui? Cos’era? O chi era? Aveva un nome o era solo un frammento di mondo che tendeva a scomparire? E poi, in verità, era così importante dare un nome alle cose, dare un nome a se stesso, distinguersi e essere unico, essere qualcuno? Perché sforzarsi, perché soffrire nel mettere a fuoco immagini sfumate, quando era molto più semplice lasciarsi andare, lasciare che quel fiume latteo lo trascinasse, levigando ogni dubbio? Eccola dunque, la luce più pura, quella che risiede al di là del cielo più alto. La prima luce che inondò il mondo e che adesso lo stava bagnando, donandogli calore, affetto e sicurezza, quasi fosse l’abbraccio di una madre. Si sentì cullare, sotto le note di una nenia che non riusciva a decifrare, quasi racchiudesse in sé tutti i suoni del creato. Tanto valeva accoglierli, sentirli dentro, lasciarli fluire, senza opporsi, finalmente in pace.

Pace. Che parola strana. Così breve e semplice e al tempo stesso così intensa. Cosa significava in verità? Non lo sapeva, forse non l’aveva mai nemmeno saputo. Forse non aveva senso tentare di definirla, in fondo pace era vita, la sua vita. Cos’altro?

Un fremito lo scosse. Un brivido? Irrorato dalla luce più pura, come poteva non avere caldo? Ma, se non era il freddo che l’aveva invaso, cos’era quella smania, quel tremolio, all’inizio impercettibile, che si stava diffondendo lungo tutto il suo corpo, insistente, persistente e sfuggente alla sua volontà? Un sentimento ignoto con cui stava ponendo in discussione la sua stessa esistenza.

Pace. Ripeté, e per la prima volta mosse le labbra, impastate dall’inattività. Da quanto non proferiva parola? E poi, in quel luogo, in quel non-luogo, aveva senso parlare, quando tutto ciò di cui abbisognava era già dentro di sé?

Un altro quesito, un altro dubbio. E la luce tremolò.

In quel momento non gli sembrò più calda come in passato (quando? Iniziò anche a interrogarsi sul tempo. Il tempo che, quindi, aveva un valore?), né così bianca, o forse adesso il bianco cominciava a stargli stretto, il bianco non bastava per definire le linee di un mondo che, sia pur sfumato, iniziava a palesarsi. Poche immagini, in verità. Un viso di donna e il suono di acqua che scorre. E un secondo rumore, ben più lieve, ovattato quasi, il tamburellare leggero di un cuore che batte. E quello bastò a ricordargli chi fosse, perché ora, sì, ricordava. Ora sapeva. Ora recuperava la cognizione d’essere.

Era Sirio, Cavaliere del Dragone, Cavaliere di Atena. E presto anche padre di Ryuho.

Spalancò gli occhi nell’istante in cui il suo cosmo esplose, dilaniando il cielo bianco con artigli color verde smeraldo, contorcendosi smanioso attorno a sé, allungandosi, stirandosi e spalancando le fauci con cui avrebbe assaporato tutto ciò che il mondo aveva da offrire e che la vacuità del bianco aveva solo coperto. Ma non estirpato.

"Com’è possibile?" –Sentì qualcuno parlare. Una voce che non conosceva, una voce che per lui non aveva importanza. Non come quella di Fiore di Luna, che aveva pregato per lui per tutti quegli anni, non come quella del maestro, che lo aveva allevato, addestrato e trasformato in un uomo, non come quella degli amici, al cui fianco aveva superato limiti che agli uomini erano stati imposti (da chi? Dagli Dei antichi forse? Da quegli stessi Dei contro cui adesso stavano lottando? E, se così era stato, perché?). La risposta gli arrivò nel momento stesso in cui il suo cosmo raggiunse il parossismo e continuò a crescere, saturando il cielo più alto, quasi volesse, con i suoi riflessi smeraldini, fagocitarne il candore.

"In realtà, voglio solo rimarcare le differenze!" –Esclamò Sirio, senza guardare in alcun punto preciso, non essendovi niente attorno a lui da osservare. Solo un vuoto che, da bianco, andava riempiendosi di nuovi colori, forme e suoni. Un mondo che da ideale stava divenendo reale. –"Noi ci siamo!" –Aggiunse, mentre il cosmo turbinava attorno a sé, raccogliendosi attorno alle braccia, che lesto portò avanti, scatenando la furia di centinaia di dragoni luminosi. Cosa sperasse di colpire, non vedendo niente, neppure percependo l’altrui presenza attorno a sé, non seppe dirselo; sapeva solo che doveva tentare, doveva agire, fare, muoversi, non rimanere bloccato nell’inazione. –"Era questo che volevi, Etere? Togliermi tutto, levarmi dal mondo, farmi dimenticare chi ero e per cosa combattevo, solo per il timore di doverti confrontare con me?"

"Incredibile…" –Mormorò la voce, mentre il paesaggio mutava e l’oceano di bianco si prosciugava, esplodendo e catapultando Sirio indietro. Per un tempo interminabile, Dragone credette di cadere, quasi stesse davvero precipitando dal cielo più alto sulla Terra, fino a schiantarsi al suolo. Fu un bel volo, comunque, sufficiente per aprire un cratere di fronte alla Porta della Luce e danneggiare le ali della corazza divina.

Quando il Cavaliere rinvenne, avanzando stanco lungo il pendio del piccolo avvallamento, trovò Etere dove ricordava di averlo visto l’ultima volta, poco prima che gli sfiorasse la fronte. La posa e gli abiti erano gli stessi ma il volto del Dio era mutato: della maschera di imperturbabilità che aveva sfoggiato poc’anzi non era rimasto niente. Adesso Etere era un crogiuolo di sorpresa, dubbio e rabbia e la sua mano, che visibilmente tremava, sfrigolando una biancastra energia cosmica, non riusciva a decidersi se cancellare o meno quel fastidioso insetto dal pianeta o se ricadere lungo il fianco di un padrone non più così imperturbabile.

"Perché?" –Chiese soltanto. –"Perché sei tornato? È davvero questo che vuoi, Sirio? Sangue, dolore e guerra? E morte! Perché è questo che avrai! Tu, i tuoi compagni, la donna che ami e che porta in grembo tuo figlio. Sei così accecato dalla tua brama di possesso da preferire trascorrere una misera e insignificante vita, lunga come il respiro di un Dio, con loro, piuttosto che un’eternità di purezza e beatitudine, non toccato dai mali del mondo?"

"Ti sei risposto da solo." –Disse Sirio, sollevando le braccia in posizione d’attacco, il cosmo che cresceva attorno a sé, assumendo la forma di un drago di luce verde. –"Quella che tu chiami beatitudine per me non è vita. Forse non è neppure morte, ne ho viste di peggiori, di morti, nell’Ade in cui sono sceso. Ti ringrazio per aver voluto farmene dono, ma preferisco la mia vita. Tu, invece, riuscirai ad accettare la tua?"

"Di cosa vai cianciando, Cavaliere?"

"La percepisco, adesso, la dicotomia del tuo animo. È una vibrazione sottile, che all’inizio avevo scambiato per l’impronta del tuo cosmo. In realtà uno scontro violento si consuma dentro te, tra la tua fedeltà a Caos, che ti spinge a lottare contro di noi, e la tua vera natura, di Signore della Luce. Chi è capace di produrre una luce così bella e intensa non potrà mai accettare che la Terra sprofondi nelle tenebre!"

"Taci, millantatore! Il destino della Terra è stato deciso dagli uomini stessi! Loro hanno corrotto la bellezza del creato, costringendo Caos a decretare la fine di questo tempo cosmico. Loro sono colpevoli della loro stessa fine."

"E chi li ha creati, se non Caos?" –Disse Sirio, mentre Etere lo travolgeva con un’onda di energia, spingendolo indietro, schiantando ulteriormente la sua corazza. –"Lui voleva questo. L’ha sempre voluto, fin dall’inizio. Ci ha creati così, con un po’ di luce e un po’ di ombra, per permetterci di assaporarle entrambe e di scegliere, consapevole che saremmo caduti in tentazione. Se ci avesse dato fiducia, se avesse voluto preservare la beatitudine della Terra l’avrebbe tenuta al riparo dall’ombra."

"Fa’ silenzio, uomo!" –Avvampò il Nume Ancestrale, scaraventando Sirio giù nel cratere, con l’elmo in frantumi e nuove ferite aperte sul suo corpo. –"L’impertinenza non è dunque singolarità del Cavaliere di Pegasus ma un vizio che accomuna i Claudicanti, dunque. Vizio che comunque non ti salverà. Luce del…" –Ma prima che potesse liberare il proprio colpo segreto, Etere venne afferrato da due robuste braccia che, da dietro, si chiusero sul suo petto, sorprendendolo.

"Ora!" –Gridò Vidharr, mentre già i dragoni di Albion, uno bianco e uno rosso, sfrecciavano verso di loro. –"Perdonami, figlio di Odino! Fulmini siderali!" –Esclamò Alexer, scatenando una selva di folgori azzurre, cui si sommarono i cosmi di Idunn, degli officianti dell’Isola Sacra e dei discendenti di Mu.

Preso alla sprovvista, Etere barcollò, venendo raggiunto da una scarica di energia che gli bruciò un ciuffo di capelli, la guancia destra e le candide vesti. Una sola, prima che liberasse il cosmo con una violenta esplosione, che scaraventò Vidharr contro la Porta della Luce, che collassò su se stessa, schiacciandolo, e tutti gli altri combattenti a gambe all’aria. I più deboli, quelli che neppure indossavano un’armatura, vennero polverizzati dal tocco del Nume.

Quando Etere tornò a guardarsi intorno, si accorse che, per la prima volta, ansimava. Se fosse dovuto all’ira per essere stato ferito, all’ingenuità con cui si era fatto sorprendere o a verità sommerse che le parole di Sirio avevano risvegliato, non seppe, e non volle, dirselo. Poté solo…

Sirio?! Si disse, cercandolo. Ma in fondo al cratere non c’era più.

Ne ritrovò traccia nel momento in cui il Cavaliere piombava su di lui, dall’alto, dove si era issato approfittando dell’assalto congiunto dei suoi amici, simile a un gigantesco drago dalle scaglie verde smeraldo che risplendeva di un bagliore così intenso e nobile da far invidia alla Luce del Cielo.

"Un potere simile va ben oltre il Nono Senso…" –Rifletté Etere, chiedendosi cosa mai potesse esserci oltre essere una Divinità. –"Ma forse… l’Omega?" –Capì un attimo prima che Sirio lo investisse in pieno, scaraventandolo all’interno della Corte della Luce, in un boato che fece tremare le mura del Primo Santuario.

"Ce l’ho… fatta?!" –Mormorò il Cavaliere, accasciandosi per l’enorme sforzo. Al suo fianco si trascinarono Ascanio e Alexer, annuendo con un sorriso stanco.

Proprio in quel momento Etere si rimise in piedi, le belle vesti color panna strappate e macchiate di polvere, il viso solcato da rughe di rabbia e da un vistoso taglio sulla gota destra, il cosmo che riluceva e disintegrava tutto ciò con cui veniva a contatto. Lo radunò sulle braccia e poi le spalancò, pronto per liberare la Luce del Cielo, quando l’urlo di Emera lo raggiunse. Di scatto, il Nume volse lo sguardo verso oriente dove il cosmo della Dea del Giorno sembrava avvolto dalle fiamme. Non capiva come fosse possibile, ma sua sorella stava bruciando.

***

Con un gorgo di energia acquatica, Nikolaos sbaragliò un gruppo di Guerrieri del Caos che si era trovato davanti uscendo dal Primo Santuario. O, quantomeno, questo era quello che credeva, sebbene, a ogni passo, le sue certezze venissero meno.

Da qualche parte, alle sue spalle, Nesso stava combattendo ma il suo cosmo era labile, una nube di fumo che il vento del Caos avrebbe presto spazzato via. Quello di Iro aveva smesso di sentirlo da tempo, ma forse dipendeva soltanto dall’aura dei Progenitori che impregnava l’intero tempio? Volle credere che fosse così e continuò ad avanzare, ritrovandosi in un edificio diverso, staccato dal resto del complesso. Un edificio in cui aleggiava ancora un leggero odore di donna.

Corse tra i corridoi fino a uscire in quello che, in un tempio greco, avrebbe potuto essere il pronao. Ma queste non erano proprio colonne, bensì rozzi denti di pietra che sembravano nascere dal terreno e inarcarsi verso l’alto, conficcandosi nella struttura in roccia nera che si era lasciato alle spalle. E oltre quella dentatura si estendeva un’ampia corte, disseminata di sporgenze e di fosse, e ancora più oltre sentì dei cosmi accendersi ed esplodere. Uno lo riconobbe subito: era quello di Pegasus.

Gli altri, dovette concentrarsi per individuarli, ma gli parvero quello di Atena e di… non li conosceva, potevano essere i Cavalieri di Avalon come pure gli Areoi dell’Avaiki. Eppure, se Pegasus era vicino, questo indicava che, girovagando, si era ritrovato alla Porta della Notte, anziché a quella delle Tenebre. Non che fosse importante, in quel momento, solo un’ulteriore conferma di quanto le normali capacità di orientamento fossero inutili all’interno del Santuario delle Origini. Era Caos, e soltanto Caos, a decidere la direzione in cui orientare l’ago della bussola.

Fece per attraversare la corte quando un gemito lo distrasse. Demetra, accasciata sulla sua spalla, si stava riprendendo.

Con grazia, Nikolaos la depositò a terra, spostandole i capelli dal volto, molto più scarno e cereo di quanto ricordasse. Erano bastati pochi giorni, una manciata rispetto alla lunga vita immortale che aveva vissuto, per mutare per sempre l’immagine della Dea delle Coltivazioni. Mosse la bocca, e il Luogotenente temette che non fosse neppure in grado di parlare, così avvicinò l’orecchio, per capire cosa stesse dicendo.

Una sola parola, in verità.

"Grazie!"

Nikolaos sorrise, prima di spiegarle che erano quasi fuori dal Primo Santuario. Doveva soltanto resistere un altro minuto, poi Zeus l’avrebbe curata. Così la sollevò di nuovo, reggendola con entrambe le braccia, e iniziò a scivolare tra i denti di roccia nera, che confluivano in una direzione; di certo la Porta della Notte. Proprio là, in quella corte devastata, lo raggiunse l’odore acre del sangue, che pareva provenire da dietro un enorme zanna di pietra. Con cautela, il Luogotenente si affacciò e notò il corpo riverso a terra, la gola traforata da un unico affondo, da cui il sangue continuava a zampillare.

"Per l’Olimpo!" –Borbottò, guardandosi attorno con circospezione e avanzando fino a portarsi a pochi passi dal cadavere. Lo osservò, pur senza riconoscerlo, ma dalla fattura dell’armatura celestina che indossava intuì che si trattava di un combattente di Asgard. Forse del Dio della Luna che aveva aderito ai Seleniti? Sì, sembra proprio lui. Ma perché si è spinto così lontano, da solo?

In quel momento vide i suoi occhi. Sbarrati in un grido di puro terrore.

Indietreggiò, facendo oscillare persino il fragile corpo di Demetra, prima di ritrovare compostezza, chinarsi e poggiargli le mani sugli occhi, per chiuderli. Quando la guerra finirà, torneremo a prenderti e avrai il rito che meriti. Si disse, rialzandosi per andarsene. Salvo udire, di colpo, l’acuto strillo di una donna che conosceva bene.

Subito roteò lo sguardo, passandolo tra i denti di pietra che lo attorniavano, cercando di comprenderne la provenienza, mentre le grida si facevano più insistenti, e più impaurite, insinuandosi, precise, nell’animo preoccupato del Cavaliere Celeste.

"Nikolaos! Cosa c’è?" –Gli chiese Demetra, senza capire. Ma lui si limitò a pregarla di rimanere in silenzio, tendendo l’orecchio. –"Chi c’è? Io non sento niente."

"È mia sorella!" –Confessò infine Nikolaos. –"Teria!" –Aggiunse, incamminandosi nella direzione da cui gli sembrava che provenissero gli strilli. Sapeva che non poteva essere vero, che sua sorella era morta sull’Olimpo, uccisa da Ascanio al termine di un duro scontro, eppure, dopo tutti i macabri ritorni cui aveva assistito quel giorno, il pensiero che Caos potesse averla resuscitata per usarla contro di lui lo invase. E lo fece imbestialire. Teria ha già sofferto troppo da non meritare un secondo inganno!

Stava ancora pensando a lei quando la vide, tremante di paura, scalza e sporca, con una leggera veste bianca, logora e strappata, che a fatica riusciva a coprirle le cosce. La vide nel momento stesso in cui anche lei si voltò, scappando nella sua direzione, affondando i piedi sanguinanti sul pietrisco.

"Teria…" –Mormorò Nikolaos, lasciando scivolare Demetra a terra.

La ragazza lo abbracciò, tirandolo a sé, solleticandogli i capelli e carezzandogli il volto stanco, senza dire altro, piangendo una cascata di lacrime. Fu dopo qualche istante che Nikolaos si accorse che sua sorella puzzava di sangue e morte, lo stesso odore di cui era intriso il corpo del Selenite. E in quel momento lei lo colpì allo stomaco, sfondando l’armatura dell’Eridano Celeste e affondando nelle sue viscere.

Di fronte a quell’orrore, Demetra urlò.