CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO: FRAMMENTI DI GUERRA.
Le ombre lo stavano circondando.
Ovunque corresse, ovunque volgesse lo sguardo, Iro di Orione vedeva soltanto tenebra. L’unica fonte di luce proveniva dalla grande fornace, in fondo allo stanzone, di fronte alla quale il Gran Maestro del Caos stava in piedi soddisfatto, persino divertito. Non lo degnava neppure di troppa considerazione, voltandosi, di tanto in tanto, verso l’oscuro pentolone dentro cui ribolliva una melma oscura, che scoppiettava in bolle nere facendo ridere l’Angelo Caduto. A tener occupato Iro bastava la Rapsodia di Ombre che aveva evocato e con cui lo aveva circondato.
Le teneva lontane, per quel che poteva, grazie alla protezione offerta dalla Cintura di Orione, che impediva a chiunque di sfiorarlo se lui non l’avesse voluto. Ma non poteva restare sulla difensiva troppo a lungo, mentre le forze dell’Alleanza, fuori da quelle mura immonde, continuavano a faticare e morire. Spalancò le braccia e liberò una vampata di puro cosmo, che annientò le tetre evanescenze che lo circondavano, aprendo un corridoio verso l’Angelo Oscuro, dentro cui subito si fiondò.
"Tut tut!" –Mormorò Anhar, agitando l’indice destro del guanto metallico che gli rivestiva la mano (o quella che Iro avrebbe considerato una mano) e frenando la sua carica, bloccandolo a mezz’aria. –"Vai da qualche parte? Non mi pare di averti permesso di abbracciarmi! Sai, sono molto pudico, in queste cose. Rifuggo le manifestazioni di affetto tipiche degli umani. Ahr ahr!"
"E di questa manifestazione che ne dici?" –Tuonò Iro, bruciando il cosmo. –"Suscita il tuo interesse?" –Con uno schianto, la morsa psichica di Anhar andò in frantumi, permettendo a Iro di balzare avanti, con un braccio teso in alto e un lampo di luce dorata che calava sul Caduto.
"Uhm, non particolarmente." –Ridacchiò quest’ultimo, spostandosi di lato e rimediando solo un graffio alla corazza. Afferrò l’attizzatoio che usava per raspare tra i carboni e ne sollevò una manciata, gettandoli in faccia di Iro, distraendolo e costringendolo a balzare indietro, per non essere ustionato. Ma qualche favilla lo raggiunse comunque, bruciandogli la pelle e qualche capello, senza strappargli però nemmeno un lamento. –"Interessante. Sei più uomo di quanto credessi! Molti altri, al posto tuo, avrebbero iniziato a piagnucolare!"
"Non m’importa degli altri. Io sono il Cacciatore Leggendario, credi che il mio volto non abbia sopportato le intemperie della natura, il vento che mi sbatteva in faccia, la neve che mi incrostava i capelli, durante le mie battute di caccia? Io esistevo prima che le moderne città degli uomini venissero innalzate e cacciavo con Eracle nelle pianure della Scizia e nei boschi del nord. Non saranno due cicatrici in più a impedirmi di adempiere alla mia missione!"
Anhar non ribatté, limitandosi a guardarlo. O, quantomeno, fu quello che Iro credette che l’Angelo stesse facendo. Difficile dirlo con quella maschera integrale sul volto, se mai un volto esisteva là sotto. Ma a giudicare dalla posizione, dall’oscillare della testa e dal respirare misurato, Iro ritenne che lo stesse studiando. Qualcosa di simile a quel che faceva anche lui prima di scendere sul campo. Analizzare, pianificare e poi agire.
"Quella lama…" –Disse infine Anhar, indicando l’oggetto che il fedele di Eracle stringeva in mano, donatogli da Ermes durante la loro riunione.
Iro la sollevò, lasciando che il bagliore della fornace illuminasse la daga dorata. Un’arma regale, ben curata e maneggevole, sebbene Iro la ritenesse superflua; quando andava a caccia con Eracle, usava solo le mani e, nell’eventualità, i piedi.
"La riconosco…"
"Vuoi vederla da vicino?" –Esclamò il Primo Comandante, scattando avanti, già avvolto nel suo cosmo violetto. Piombò su Anhar, aspettandosi che lo spingesse indietro, invece questi si limitò a spostarsi di lato, afferrandogli il polso a mezz’aria e torcendolo fino ad osservare l’arma.
"Incredibile. Credevo fosse andata perduta." –Mormorò, esercitando una pressione maggiore, tale da spezzargli le ossa del polso se Iro non fosse stato protetto dalle tre stelle di Orione. Con un colpo di reni, si lanciò in alto, roteando su se stesso e atterrando proprio sulle spalle del Gran Maestro del Caos; si aggrappò al grosso elmo nero e fece per calare la lama quando un’onda di cosmo oscuro lo scaraventò indietro, contro il muro della fornace, abbattendolo e facendolo cadere sulle braci.
"La temi davvero." –Rifletté Iro, rialzandosi, in mezzo ai carboni ardenti e ai detriti.
"Sarei un folle a non temerla. Tu non conosci la storia di quella lama. Io sì, e molto bene, avendola creata." –Disse Anhar, con voce greve. –"Non è necessario che tu sappia altro, solo che la voglio. E tu me la darai. Adesso!"
"Umpf! Te la darò, certo. Ma nel cuore!" –Tuonò Iro, prima di scagliare un calcio al calderone e ribaltarlo, lasciando che la melma nera si rovesciasse sulla fornace e poi di sotto, sul pavimento di pietra, forzando Anhar a indietreggiare.
"Idiota! Puoi anche interrompere la fabbricazione delle corazze, ma la Maestria di Ombre è già in corso ed è Caos a dirigerla. Continuerà a sfornare legioni di guerrieri caduti finché ne avrà voglia."
"Ma non potrà rivestirli, non è così?" –Disse Iro, in tono beffardo. –"Il mio Signore Eracle mi ha raccontato qualcosa, riguardo a una certa incursione nello Jamir. Ora, io ne so poco di armature e alchimia, era Druso il fabbro di Tirinto, ma immagino che ci fosse qualcosa che neppure Caos conosceva, se avevate bisogno dei muriani."
"Avevamo." –Sibilò Anhar, espandendo il cosmo e sollevando una corrente di aria fetida, dentro cui sfrigolavano vampe scarlatte. –"E sai che fine fanno le cose che non servono più? Ahr ahr! Apocalisse Divina! Esplodi!"
La tempesta energetica sconquassò l’intero salone, disintegrando lo scarno mobilio, la pavimentazione, le mura che avevano resistito al precedente crollo, prima di abbattersi su Iro, che tentò di opporsi espandendo il potere della Cinta di Orione fino a creare una barriera attorno a sé, dandole la forma di un cuneo, con il vertice rivolto avanti, sì da permettere alla bufera di scivolarvi sopra senza smuoverlo troppo. Era stato uno dei primi insegnamenti di Eracle, nel Mondo Antico, durante le loro caccie.
"Quando il vento soffia forte, cerca di offrirgli la superficie più ridotta possibile."
Lezioni che, dopo tre millenni, ricordava ancora, a conferma che le parole di Sarpedonte, suo vecchio compagno della Primissima Legione, erano vere: il Cacciatore Leggendario aveva anche una memoria di ferro.
"E due braccia forti come querce!" –Disse, caricandole di energia cosmica e portandole avanti, liberando il proprio colpo segreto. –"Tuono del Cacciatore!"
La detonazione di energia scosse la tempesta di Anhar, spazzando via le vampe demoniache. Fu solo un istante di calma, prima che il vento dell’apocalisse tornasse a spirare e ad abbattersi su Iro. Che però non era più dove si trovava in precedenza.
Se Anhar avesse avuto una bocca, avrebbe storto le labbra, seccato, prima di muovere gli occhi attorno a sé per ritrovare la sua preda. La percepì, sotto di lui, nel momento stesso in cui Iro levava la daga dorata, piantandogliela nel piede dell’armatura.
"Aaargh!" –Gridò l’Angelo Oscuro, scaraventando via il guerriero con un calcio, fino a schiantarlo nella melma nera che aveva sommerso il sotterraneo. Disgustato, Iro tentò di rialzarsi, incespicando e borbottando, mentre Anhar si toglieva la lama dal piede, guaendo. –"Tu! Maledetto umano! Non sai con cosa stai giocando! Questo non è strumento che può essere usato con leggerezza! Sai cos’è? Una lama deicida! La forgiai io stesso, anni addietro, affinché il mio allievo la usasse. È una lama che può uccidere un Dio, perché è maledetta. Mi ci sono voluti vent’anni di studi e sperimentazioni, assistito dagli alchimisti oscuri della Regina Nera, per giungere a un perfetto risultato. Un Dio ferito da questa daga… muore!"
"Un vero peccato che con te non abbia funzionato. Si è esaurita, forse?"
"Zitto!!!" –Ringhiò Anhar, avvampando nel proprio cosmo scarlatto, che riempì l’aria, incendiando la melma oscura e aggredendo il Primo Comandante, costretto a dimenarsi per non prendere fuoco. –"La sua energia è legata a Caos, che la esercita tramite una delle sette pietre nere. Questa gemma incastonata nell’elsa."
"A me sembra verde." –Tentò di ironizzare Iro, per quanto l’oceano di vampe lo stesse facendo soffocare.
"Spesso le cose non sono come sembrano." –Mormorò Anhar, sfiorando la pietra, che subito mutò colore, rivelando la sua natura oscura. –"Mi hai portato un interessante dono e te ne ringrazio. Adesso che è tornata in mio possesso, la userò per uccidere tutti gli Dei. Caos sarà fiero di me, Caos capirà che non può fare a meno del suo araldo, che a ben più concreti risultati è arrivato dei suoi quattro Primogeniti. Per questo regalo, ti onorerò di una morte rapida, Cacciatore. La meriti, in fondo! Ahr ahr!" –Ridacchiò, mentre le vampe scarlatte si sollevavano, unendosi in una spirale che Iro paragonò alle fauci di una fiera pronte a chiudersi da un momento all’altro su di lui. –"Addio!"
Quando il momento arrivò, il Primo Comandante non si fece trovare impreparato, aprendo le braccia di lato e canalizzando tutto il potere della Cintura di Orione, per resistere all’ondata di fuoco infernale. Poi, quando capì di non poterla arginare per sempre, mutò la difesa in offesa.
"Alnitak! Alnilam! Mintaka! Mi avete sempre protetto! Devo chiedervi un ultimo favore, prima della fine!" –Disse, prima di liberare tre onde di energia che sommersero, inglobandole, le vampe di fuoco nero, prima di dirigersi verso Anhar. –"Ora che mi hai confermato il valore di quell’arma, non te la lascerò usare. Tutt’altro. Te la pianterò nel cuore, così vediamo se funziona anche sugli Angeli!"
"Non basterà! Io non sono un Dio!" –Esclamò Anhar, sollevando un muro di fiamme e ombra su cui l’assalto avverso impattò. –"Alle Divinità moderne sono ben superiore! Ce ne vorrebbero almeno un paio, forse, per uccidere un Arconte! Non dimenticare chi hai di fronte? Un Angelo Caduto. Quanto di più superiore a un Dio possa esistere!"
"Tranne i Progenitori…" –Lo punzecchiò Iro, ottenendo un ringhio rabbioso in risposta. –"Loro ti sono superiori, per quanto non ti piaccia ammetterlo. E scommetto che anche Caos li reputa migliori e più utili di te, o non ti avrebbe confinato in questo scantinato a far la guardia a una pentola piena di bava infernale!"
"Questo compito è un onore! Io l’ho proposto all’Unico! Io gli ho consigliato di creare corazze per rivestire le ombre, in modo da poterle ingabbiare, da sottometterle, annullando così la loro volontà! Non sono certo stati Erebo o Nyx, o quegli stupidi damerini luminosi! Il Creatore di Mondi si renderà conto, quando gli porterò la testa di Zeus e di Amon Ra, che non potrà fare a meno di me!"
"Né delle tue chiacchiere." –Commentò Iro, lanciandosi avanti. Anhar tentò di spingerlo via ma il Cacciatore era già su di lui e lo colpiva al petto con una vigorosa spallata che lo fece barcollare, e mollare per un istante la presa sulla daga. Iro la recuperò e gliela conficcò nell’attaccatura tra elmo e pettorale, affondando finché ebbe forza, fino a quando l’Angelo non lo spinse via in un grido di rabbia e dolore.
Il Primo Comandante ruzzolò sul pavimento distrutto, con la corazza rotta in più punti, ma quando lesto si rialzò vide che Anhar si stava tenendo la gola, annaspando, cercando di estrarre la lama, senza riuscirvi, mentre dalla ferita usciva una leggera evanescenza, quasi come lo spirito dell’Angelo stesse evaporando. Iro lo osservò attento e capì che aveva problemi nel controllare lo scafandro che lo rivestiva, conscio che era l’unico momento in cui poteva colpirlo. Così radunò tutto il suo cosmo, tutto quello che riuscì a risvegliare, memore delle caccie con Eracle, degli allenamenti con i compagni, delle battaglie, della fuga e del tradimento, infine della redenzione. Aveva sperimentato davvero tutto nella sua lunga vita, e adesso l’avrebbe usata per ricordare a quel viscido bastardo come morivano gli Heroes di Tirinto.
A testa alta, avanzò verso Anhar, che quasi sembrava essersi scordato di lui, mentre tutto attorno a sé il cosmo esplodeva, disegnando nell’aria la costellazione di Orione, con la clava in mano e lo sguardo vittorioso. Il Cacciatore lo aveva guidato a lungo, le sue stelle lo avevano protetto, il suo mantello l’aveva nascosto durante le battute di caccia. Ma era stato il suo grido a terrorizzare i nemici, quel canto di guerra che adesso Iro avrebbe liberato.
"Devastazione di Orione!" –Urlò, sbattendo il pugno al suolo e scatenando il potere ultimo che covava dentro.
Tutto esplose. La fornace, il pavimento, le mura. Una parte del Primo Santuario collassò su se stessa, rovinando al suo interno e mitragliando Anhar e Iro. Prima che un masso più grosso degli altri si abbattesse su di lui, il Comandante riuscì a vedere la daga dorata andare in frantumi, e anche la corazza del Caduto. Poi vi fu solo tenebra.
***
A Nesso non piacevano le donne.
Se poi tendevano a trasformarsi in serpenti (in grossi e squamosi serpenti verdastri) quando si arrabbiavano, gli piacevano ancora meno.
Ne aveva sentito parlare, da Eracle e anche dai suoi compagni, di guerrieri mutaforma ma non ne aveva mai incontrato uno. Certo, aveva combattuto contro sicari inviati da Era, figli di Eos, Heroes rinnegati e, di recente, contro ragazzetti che plasmavano le correnti d’acqua in cavalli neri e ogni genere di mostro, ma non si era mai trovato di fronte una donna serpente. Una combinazione, per i suoi canoni, letale e disgustosa.
Hiss.
Se poi sibilavano…
L’assalto di Vritra ricominciò, costringendo il ragazzo a balzare indietro, evitando che gli piantasse in un braccio i denti velenosi. Si diede la spinta su una grossa roccia che sporgeva dal suolo e le saltò sopra, atterrando dietro la nuca, e poi precipitando giù lungo la sua schiena. Ovvero lungo il suo flaccido corpo serpentiforme.
Estrasse i rampini seghettati dal bracciale destro e glieli piantò nella pelle, tentando di frenare la sua scivolata e, al tempo stesso, strappandole grida di dolore furioso. Non doveva essere piacevole, neppure per un grosso serpente, farsi squarciare la pelle.
Con un colpo di coda, la creatura lo sbalzò via, facendolo ruzzolare sul terreno arido fino a schiantarsi contro un muro del Primo Santuario, intontito, ma lucido a sufficienza da evitare il nuovo assalto dell’avversaria, che si allungò furiosa verso di lui, ritrovandosi a sbattere la testa contro la parete di roccia, mentre il giovane era già sgusciato via dalla sua presa.
"Ora basta! Frecce del Mare!" –Gridò, liberando un migliaio di dardi di energia azzurra, che riempirono l’aria, abbattendosi sul corpo del serpente, che si dimenava per evitarli. Quelli che raggiunsero le ferite aperte lo imbestialirono e gli fecero schizzar fuori litri di veleno.
Nesso cercò di evitarlo, ma qualche goccia lo bagnò sull’armatura, corrodendola, e sulle braccia, ustionandole. Se fossero stati a Tirinto, Penelope lo avrebbe curato, con uno dei suoi intrugli d’erbe e la sua voce melodiosa, che pareva far dimenticare ogni dolore, al punto che tutti gli Heroes la consideravano alla stregua di una madre. Ma Tirinto e Penelope erano un ricordo e adesso doveva cercare di uscire di lì, o quantomeno resistere finché Nikolaos non avesse riportato Demetra da Zeus. Nikolaos che, lo sentiva, era ancora all’interno del Santuario delle Origini e sembrava vagare in tondo, incapace di trovare la via per l’esterno.
Eppure il nord è in quella direzione! Si disse, proprio mentre Vritra, in forma di serpente, sollevava di nuovo la rozza testa, mostrando i denti da cui colava un liquido verdognolo. Sempre che Caos non stia mutando la conformazione del Santuario…
Nel qual caso nessuno di loro avrebbe ritrovato la via d’uscita.
Consolante. Ironizzò, scattando di lato mentre la grossa serpe piombava su di lui. Liberò un arpione e lo conficcò in un muro dell’edificio, lasciandosi tirare su. Tutti vogliono entrare, mentre noi vorremmo uscire. A questo punto mi converrebbe aspettare gli altri qua dentro!
Proprio in quel momento, con un rapido colpo di coda, Vritra lo afferrò per le gambe, stringendole con forza e strattonandolo via, schiantando l’arpione e portandosi con sé anche un pezzo di muro. Nesso tentò di liberarsi ma la forza della stretta era tale da sentire persino le ossa scricchiolare sotto l’armatura.
"Capisci adesso perché mi chiamano l’Avviluppante?" –Mormorò una voce di donna, strappando un gemito di sorpresa all’incursore di Eracle.
"Tu puoi parlare?" –Chiese, fissando la bestia negli occhi gialli.
"Non proprio. Emetto vibrazioni, che il tuo cervello traduce in parole. È uno dei miei talenti. Sono una degli Asura, in fondo."
"Asura… Divinità vediche. Credevo che Caos vi avesse sterminato." –Disse Nesso.
"Solo quelli che non hanno voluto piegarsi. Io, come vedi, ho compiuto una scelta ben più intelligente."
"Furba, più che altro. E questo bel corpo? Te lo ha regalato Lord Caos?"
A quelle parole, Vritra strinse più forte, aprendo crepe sulla corazza del Pesce Soldato, mentre la sua testa si chinava fino a portarsi all’altezza degli occhi di Nesso. Sarebbe bastato un solo gesto e il Nefario se lo sarebbe ingoiato.
"Questo corpo è un regalo di un Cavaliere di Atena, in verità. Un uomo che mi ha maledetto, rifiutandomi tra i suoi discepoli, non ritenendomi abbastanza eletta. È stata colpa sua se gli altri Asura mi hanno trasformato, ascoltando lui che vedeva in me una serpe maligna!" –Nel dirlo, la rabbia la invase, stringendo il corpo di Nesso e avviluppandosi sempre più attorno a lui, bloccandogli anche le braccia al petto e lasciando scoperta soltanto la testa. –"Ho saputo, in seguito, che uno dei suoi protetti gli si è rivoltato contro. Arne si chiamava e fu proprio lui a ricercarmi, lo scorso anno. Mi disse che il suo nuovo mentore stava mettendo su una squadra di soggetti particolarmente dotati e che, avendo saputo del mio dono, desiderava incontrarmi. Un dono, capisci? Era la prima volta che qualcuno lo considerava così. Per tutti ero un mostro, l’Asura maledetta che dimorava nella giungla indiana e uccideva chiunque la cercasse. Per Anhar, invece, fui una risorsa, da includere nello Zodiaco Oscuro!"
"Zodiaco che mai vedrà la luce, dato che i suoi membri sono stati quasi tutti sconfitti. Ti sarebbe convenuto rimanere nella giungla!"
"E tenermi questo corpo per l’eternità? Giammai! Anhar è stato misericordioso. Ha interceduto per me presso Lord Caos, che mi ha promesso di farmi tornare donna in forma definitiva."
"Cotanta generosità abbaglia i mondi!" –Ironizzò Nesso, prima di aggiungere. –"E dimmi, Caos ricucirà anche il tuo corpo distrutto?"
Vritra parve non comprendere la battuta del ragazzo, che intanto aveva espanso il proprio cosmo. Con un poderoso colpo di braccia, Nesso le sollevò, dilaniando con i rampini la coda che lo avvolgeva e sgusciando fuori, tra i lamenti atroci del Nefario.
"Maledetto! Perché mi fai soffrire tanto?" –Sibilò, chinandosi e sputando veleno.
"È la guerra, Vritra. Vale per tutti noi." –Commentò Nesso, concentrando nel pugno tutta la sua energia cosmica. –"Frecce del Mare, non abbandonatemi!" –E ne diresse a migliaia contro la testa di serpente, mirando agli occhi. Li ferì, facendo inarcare la bestia e costringendola a spalancare la bocca, dove Nesso vi scagliò un arpione, trapassando la gola e conficcandolo nel muro alle sue spalle. Quindi lo afferrò e vi lasciò fluire il suo cosmo, sconquassando il corpo del Nefario con violente scariche di energia. L’ultima, la più violenta, lo folgorò del tutto, facendolo esplodere.
Nell’esplosione, Nesso venne raggiunto da schizzi di materia organica del serpente, che gli incendiarono le guance, la fronte e altre parti scoperte dell’armatura. Persino un occhio gli parve si squagliasse. Strillò, agitò le braccia, barcollò per qualche istante prima di crollare sulle ginocchia, pensando che, mai come in quel momento, avrebbe davvero voluto che ci fosse Penelope a curare tutti loro.
***
La bocca di Demetra era spalancata dall’orrore.
Una ragazza dal viso scarno e dai piccoli occhi grigi era corsa incontro a Nikolaos, piangendo, e quando lui l’aveva abbracciata lei gli aveva piantato un braccio nel ventre. Ma solo quando lo estrasse, e gettò a terra il corpo ferito del Luogotenente, la Dea delle Coltivazioni si accorse che quello non era un braccio umano. Così scheletrico, e con dita lunghe e nodose, sembrava l’artiglio di una creatura infernale, che di certo era il suo possessore, sebbene lei non riuscisse a vederlo. Notò solo la nebbia che lo rivestiva, dentro cui l’immagine di Teria sfumò, cambiando di nuovo, ma rimanendo troppo vaga per poterla identificare. Demetra poté solo strabuzzare gli occhi quando il carnefice di Nikolaos la afferrò per il collo, sollevandola di peso e sbattendola contro il grosso masso alle sue spalle.
Troppo debole persino per tremare, pensò che l’avrebbe uccisa ma il nemico si limitò ad annusarla, annuendo compiaciuto, prima di azzannarla a un braccio e strappar via quel misero pezzo di pelle che rivestiva l’osso, masticandolo con gusto. Avesse avuto le forze, la Dea avrebbe gridato.
Invece stava per perdere i sensi quando venne risvegliata da un calore improvviso. Spalancando gli occhi, vide il nemico prendere fuoco, lasciarla andare e correre via, per spegnere le fiamme che lo stavano divorando, fiamme che, Demetra lo percepì, erano di chiara origine divina.
"Immagino che voi siate la sorella del Sommo Zeus!" –Esclamò una voce giovanile, costringendo Demetra a voltarsi, e a levare lo sguardo verso la cima della roccia, su cui si stagliava quello che, all’apparenza, sembrava un adolescente ribelle, con folti capelli blu e sguardo furbetto. –"Mi ricordo di voi. Vi recaste in visita dai miei fedeli, a Nuova Babilonia, insegnando le tecniche di coltivazione adatte ai territori desertici. Un bel gesto, lo apprezzai. Mi sarebbe piaciuto osservare la città dall’alto di Anduruna, vedere i suoi tetti pieni di giardini, le sue strade gremite di gente e intrise dall’odore di primavera. Lo avrei fatto, un giorno, se Selene mi avesse permesso di lasciare la Luna e se Anhar non l’avesse rasa al suolo."
"Dunque tu sei…?"
"Sin degli Accadi, Selenite del Cerchio di Marte e Signore della Guerra e del Fuoco. Elemento che, il nostro poco loquace amico, non deve avere in simpatia."
"Dovresti ben saperlo, mio Signore, poiché il fuoco ha segnato la fine della nostra Babilonia!" –Disse allora il loro avversario, nascosto dietro una cortina di nebbia, che andò scemando, rivelando infine le forme di chi aveva parlato. Un giovane uomo, di trent’anni, non di più, con mossi capelli ricci e una corona sulla testa; vestiva abiti di foggia mediorientale, di un acceso color verde, finemente decorati con polvere d’oro.
"Marduk?" –Esclamò Sin, riconoscendo l’ultimo sovrano di Nuova Babilonia.
"A quanto pare il nostro popolo è destinato a ritrovarsi e, chissà, magari a ricominciare una nuova vita."
"Che ci fai qua? Non sei morto durante il complotto di Anhar e la grande guerra che ha distrutto Anduruna?"
"Lo credevo, finché Caos non mi ha salvato, offrendomi un posto nel suo esercito di Nefari. Non mal giudicatemi, non avevo scelta se volevo ricostituire le legioni perdute degli Annunaki. Ho avuto molti dubbi, al riguardo, ma se mi ha permesso di trovare te, nostro Signore, allora so di aver fatto la scelta giusta." –Mormorò il giovane, inginocchiandosi.
Sin lo osservò in silenzio per qualche istante, con Demetra che affannava alle sue spalle e il corpo di un Cavaliere Celeste, ferito all’addome, poco distante. Da qualche parte doveva esserci anche il corpo di Mani; pur senza vederlo, Sin riusciva a percepirne la presenza, grazie al sangue che doveva aver bagnato il suolo.
"Che ne è dell’altro? Il Selenite di Saturno? Lo hai ucciso?"
"È stato uno spiacevole incidente, mio Signore. Stavo solo eseguendo gli ordini di Caos. Ma venite, vi prego, vi porterò da lui, magari potete ancora salvarlo!" –E si avviò lesto attraverso l’ampio cortile, zigzagando a passo deciso tra le rozze rocce nere, fino a condurre Sin al cadavere dell’Ase. –"Eccolo. Mi ha sorpreso e ho dovuto difendermi. Sono desolato, possente Sin!"
"Difenderti, dici, eh?" –Mormorò il Selenite di Marte, avvicinandosi e chinandosi su Mani. Gli tastò il collo, confermando la sua morte, prima di vedere il foro nel collo, come se qualcosa lo avesse trapassato. Troppo stretto per essere un braccio, troppo largo e rotondo per essere una lama. Capì, nel momento stesso in cui si voltò, con il palmo colmo di energia rovente, con cui parò l’affondo di Marduk, che stava mirando alla sua schiena. –"Subdolo fino in fondo, vero, demone?" –Gli disse, notando le gocce di sudore bagnare il volto del Re di Babilonia, costretto a uno sforzo superiore alle sue possibilità. –"Cosa sei? Un mutaforma, scommetto." –Aggiunse, spingendolo indietro e facendolo ruzzolare al suolo per parecchi metri.
"Come l’hai capito?" –Ringhiò l’essere dall’aspetto di Marduk, rialzandosi, le dita che si allungavano e divenivano artigli affilati, il corpo che mutava aspetto, rinsecchendosi e divenendo una sagoma scheletrica avvolta da uno strato di nebbia.
"Il foro nel collo di Mani." –Spiegò Sin. –"È stato provocato da un bastone. Quello del figlio che avevi impersonificato, immagino. In quanto al Luogotenente Olimpico ti sarai mutato in una donna per lui importante. Sei astuto, quasi mi complimenterei con te, ma hai commesso un errore. O forse sei stato sfortunato a incontrarmi!"
"Quale?"
"Impersonare Marduk! Era impossibile che fosse ancora vivo e ancor più impossibile che avesse accettato l’offerta di Caos. Io credo, in verità, che l’Unico non sia riuscito nemmeno a risvegliare il suo spirito, troppo dedito alla causa, troppo fedele ai suoi ideali. Lo vidi, quel giorno, lottare come un disperato fino alla fine, mentre le fiamme nere cingevano d’assedio Anduruna, lui si erse, con gli Annunaki suoi amici, sulla cima della piramide, e là morì, ustionato dall’ombra che aveva invaso la città. Morì e mi chiamò, e nessuno sa quanto avrei voluto salvarlo." –Sospirò Sin, prima di riportare lo sguardo sul nemico. –"Bene, dopo questa bella chiacchierata, è ora di ucciderti! Pronto a morire, Gallu?"
"Sono un windigo, non un demone babilonese! Uno sciamano del deserto del Mojave mi ha mutato in…" –Ma non riuscì a terminare la frase che un’ondata di fuoco celeste lo travolse, circondandolo.
"Cosa vuoi che mi importi la tua biografia? Sei solo un nemico, ai miei occhi. E pagherai per aver osato impersonare il Sovrano di Smeraldo!" –Esclamò Sin, sollevando il braccio destro al cielo e generando un enorme cubo di energia rossastra attorno al windigo, che cercò di fuggire, di allontanarsi da quel fuoco sempre più intenso, ma ogni lato era sbarrato, ogni via gli era preclusa. Poté solo strillare disperato mentre le sei facce del cubo si illuminavano di un rosso bagliore. –"È-kish-nu-gal!" –Tuonò il Selenite di Marte. E l’incendio divampò.
***
Di fronte alla Porta del Giorno, la battaglia continuava.
Febo e Horus avevano sconfitto Keres e adesso si proteggevano l’un l’altro, schiena contro schiena, aiutati da Marins e dalle Amazzoni, per tenere a distanza un gruppo di akhekh e di altre creature abominevoli. Amon Ra stava sterminando le ultime Locuste dell’Abisso e Phoenix e Andrei, a qualche passo di distanza, dovevano contenere l’avanzata dell’Armata delle Tenebre.
Ma il Cavaliere era stanco. Più di quanto volesse ammetterlo. E non era solo la stanchezza fisica a prostrarlo, rendendo lenti i suoi colpi e appannati i suoi riflessi, era una fiacchezza che stava logorando la fiamma della fenice, portandolo a chiedersi se quel mondo di guerra fosse destinato a finire. O a replicarsi all’infinito. Pareva che, anche dopo la morte di Polemos, che ne era l’incarnazione, la guerra continuasse a esistere, quasi avesse assunto una propria consistenza. Non era per quel motivo che quel demone era vissuto così a lungo, acquistando una forza devastante?
Quel pensiero lo fece vacillare, mentre una fitta di dolore lo costringeva a portarsi le mani alla testa. Gli sembrò di sentire mille voci chiamarlo (o forse era solo Andrei, preoccupato per le sue condizioni?), mille mani sfiorargli il corpo, tirandolo in ogni direzione. Pugni, calci, carezze, graffi sul collo, sembrava che tutti fossero su di lui, costringendolo a un gesto definitivo. Così radunò il cosmo e poi lo liberò, in un’unica devastante fiammata che incenerì chiunque gli fosse attorno.
Distrutto, Phoenix crollò sulle ginocchia, notando, con la coda dell’occhio, di essere rimasto solo. Pareva che, per decine e decine di metri, non vi fosse più nessuno, soltanto la polvere a spazzare il suolo. Chiuse gli occhi, inspirando più volte, cercando di chetare le voci che gli parlavano e di rallentare il battito cardiaco. Quando ci riuscì, e riaprì gli occhi, fu distratto da un odore particolare, che conosceva bene, sebbene lo trovasse inusuale per il deserto del Gobi.
Si rimise in piedi e avanzò, seguendo l’aromatica scia, fino a portarsi di fronte alla Porta del Giorno. Allungò una mano a sfiorarla ed essa si aprì, in un’onda di luce, permettendogli di varcare la soglia. Entrò e si trovò in una stanza chiusa, piccola e piena di colore. L’aria di mare, che gli era così familiare, entrava dalle finestre aperte sulla darsena e una voce di donna (bionda, a giudicare dalla capigliatura che spuntava da sotto la buffa cuffietta che portava in testa) lo chiamò, pregandolo di preparare la tavola. Il pollo sarebbe stato pronto entro pochi minuti.
Guardandola, Phoenix sorrise, comprendendo infine dove si trovasse.
Era a casa.