CAPITOLO VENTICINQUESIMO: UN’ALTRA VITA.

La moto scivolava tra le auto in corso, incurante dei clacson e degli sguardi degli altri guidatori. Il pacchetto, fissato alla bell’e meglio con una corda rimediata in negozio, traballava sul sedile alle sue spalle, ma l’imbracatura sembrava reggere. Phoenix non voleva nemmeno immaginarsi cosa sarebbe successo se l’avesse perduto.

Aveva affrontato guerrieri di ogni tipo, mostri, Divinità, persino gli Dei Ancestrali, ed era sempre sopravvissuto. Ma non avrebbe sopportato di rovinare quel momento. Diede gas e imboccò l’uscita della tangenziale, ritrovandosi nel dedalo di stradine della vecchia Darsena, più confuse, forse, ma di certo più pittoresche. Un ultimo chilometro e raggiunse la meta.

Anche dall’esterno, la villetta in cui viveva da anni era inconfondibile, con quella facciata giallo limone che risaltava tra le altre dai colori più freddi, il giardino sempre curato e l’odore di primavera che stuzzicava l’olfatto di chiunque si trovasse a passarci davanti. Sorridendo, il giovane parcheggiò la moto, sfilò il pacchetto e si avviò lungo il viale di casa ma, prima ancora di infilare la chiavi, la porta si spalancò e una chioma bionda gli fece cenno di entrare. Phoenix annuì, senza dire niente, temendo di essere in ritardo e preparandosi a una ramanzina.

"Tesoro, sei in anticipo!" –Commentò la donna dai capelli biondi. –"Non avrai fatto di nuovo le corse con la moto? Lo sai che non mi piace che tu sia spericolato!"

"Ho affrontato di peggio che un po’ di traffico, se ben ricordi." –Rispose Phoenix, mentre lei lo baciava sulle labbra per poi avviarsi verso la cucina. Indossava quel grembiule che avevano comprato assieme a un mercatino, anni fa, consumato dal tempo e dai mille pasti cucinati, ma Esmeralda continuava a sfoggiarlo, quasi potesse, quel solo atto, farli sentire sempre assieme. –"Inoltre non volevo che la torta si squagliasse." –Disse, poggiando il pacchetto sul tavolo di cucina.

Non appena riconobbe il logo della pasticceria, Esmeralda sussultò, lanciandosi su Phoenix per abbracciarlo. –"Oddio, ma sei davvero andato fin laggiù per prenderla?"

"Sapevo quanto ti piacesse. E, in effetti, a ben guardarlo, deve essere un dolce davvero squisito."

"Non l’avrai assaggiato, voglio sperare!" –Esclamò lei, agitando minacciosa un mestolo intinto nel sugo e strappando una risata al compagno, che la tirò a sé, baciandola e scombinandole i capelli. Un attimo dopo erano distesi sul divano, a festeggiare, a modo loro, i dieci anni di fidanzamento, incuranti del suonare del timer del forno.

***

Il campanello suonò una seconda volta e Phoenix era ancora lì, in piedi davanti allo specchio, a imprecare contro quella cravatta che non voleva saperne di trovare il proprio posto nel mondo. Di sicuro era suo fratello; solo lui tendeva a presentarsi con mezz’ora d’anticipo, ogni volta, sbucando sempre nei momenti meno opportuni. Con un ultimo sbuffo, Phoenix si tolse la cravatta e la lanciò sul letto, scendendo al piano terra per aprire la porta, proprio mentre Andromeda suonava per la terza volta.

"Oh, era l’ora! Stavi dormendo?"

"Ciao fratellino. Sono felice anch’io di rivederti." –Ironizzò Phoenix, facendosi di lato per lasciarlo passare. Nemes, al suo fianco, sorrideva smagliante come sempre, in un completo che di certo aveva acquistato in un negozio per motociclisti.

"Bel giubbotto!" –Le disse, notando la qualità della pelle.

"Grazie. Lieto che qualcuno apprezzi. Non come certi maschi che non hanno l’occhio per le cose belle." –Sorrise la ragazza, entrando in casa dietro ad Andromeda.

Guardandolo, Phoenix si chiese, in effetti, come potessero stare insieme quelle due anime così diverse. Lui, timido, introverso, a volte goffo, sempre vestito con abiti che, se avevano poco, erano del decennio passato, ritrovati forse in qualche baule dei loro genitori. Lei, invece, attiva, solerte, amante dei jeans e dello stile leather, che smaniava di provare la sua moto ogni volta in cui gli facevano visita.

Ma l’amore funziona così! Si disse Phoenix, mentre anche Esmeralda li raggiungeva, sistemandosi l’orecchino di madreperla donatole da una sirena. La guardò, mentre scendeva le scale, con grazia ed eleganza, e capì di essere l’uomo più fortunato del mondo ad averla. A stare con lei. A condividere assieme ogni momento della vita.

Eppure, c’era mancato poco che quella vita non la vivessero insieme. Se quel giorno Esmeralda non fosse venuta a cercarlo, al campo di addestramento, e non avesse convinto il padre a cambiare i suoi metodi, forse Phoenix sarebbe morto. Se l’era chiesto spesso, negli anni dopo l’investitura, se la violenza di Guilty non avesse potuto ucciderlo, e le probabilità, in effetti, erano alte. Ma era sopravvissuto, come a tutte le battaglie che erano seguite, persino all’ultima, contro gli Dei Ancestrali. Che spettacolo, quel giorno nel Gobi, quando Pegasus si è levato alto in cielo, sostenuto dai cosmi di tutti gli amici, e ha affondato la spada di Balmung nel cuore di Caos, eliminando per sempre quella minaccia!

Da allora i vari regni divini vivevano in pace e, ad eccezione di piccole schermaglie che i singoli eserciti erano riusciti a risolvere in poco tempo, Phoenix e i suoi amici non avevano più combattuto. All’inizio era stato strano, soprattutto per lui e Pegasus, quelli sempre in prima fila negli scontri, ma poi, col tempo, si erano abituati alla vita di ogni giorno, in quelle città di uomini che continuavano le loro esistenze, ignari del pericolo scampato. Esistenze che, adesso, erano diventate anche le loro.

Esmeralda lo chiamò in quel momento, porgendogli la giacca. Lui le sorrise, la indossò e le offrì il braccio, prima di avviarsi in giardino. A teatro quella sera davano l’Oreste di Euripide e suo fratello, da mesi, aveva acquistato i biglietti, per avere un posto in prima fila. Lui, e di certo anche Nemes, avrebbe preferito una partita a bowling o una corsa in moto fuori città, ma ogni tanto doveva pur accontentarlo, quel fastidioso fratello minore. Gli scombinò i capelli, ridacchiando, e richiuse la portiera, pronto per mettersi al volante.

***

Emera osservava Phoenix.

Disteso sull’Altare del Giorno Dopo, con le braccia giunte sul petto, quasi stesse pregando, il Cavaliere aveva un’espressione serena sul volto. Una leggera brezza, proveniente dalle ampie aperture nel muro, gli solleticava i capelli blu, un colore insolito per un ragazzo, che la Dea Ancestrale non aveva mai visto. Ma forse era uno dei cambiamenti a cui gli esseri umani erano andati incontro, nel corso di così tanti secoli in cui lei era stata fuori dal mondo. Letteralmente.

Ripensando al tempo trascorso nell’intermundi, tempo che nessuno avrebbe saputo quantificare poiché, come Etere le ripeteva spesso, semplicemente era un eterno presente, la Signora del Giorno sospirò, avvicinandosi al giovane e sfiorandogli una mano. La pelle era dura, inselvatichita, segnata dagli scontri che lo avevano portato fin lì. Lei lo aveva lavato, dopo averlo estratto dal campo di battaglia, gli aveva messo degli abiti puliti (di Etere, sperando che il fratello non se ne avesse a male, ma del resto erano gli unici di cui disponeva) e poi lo aveva steso lì, lasciando che riposasse. Così, uno dopo l’altro, avrebbe chiamato a sé tutti i Cavalieri dello Zodiaco, quelli che Erebo aveva definito come "mortali nemici del Caos". Forse, in questo modo, offrendo loro un’altra vita, quella guerra sarebbe giunta presto a una conclusione e lei avrebbe potuto occuparsi di ciò che davvero le stava a cuore.

Donare la luce.

Le dita di Phoenix si mossero a malapena e Emera sorrise, certo che il ragazzo la stesse percependo, sebbene in una forma diversa.

***

Esmeralda non amava guidare.

Aveva a stento preso la patente, dopo numerose insistenze da parte del compagno, che le aveva spiegato quanto fosse utile, per il lavoro o per esigenze personali, disporre di un mezzo proprio, ma lei era stata intransigente. Del resto non amava uscire, non da sola almeno, e quando lo faceva, utilizzava i mezzi pubblici o, molto più frequentemente, passeggiava. A volte anche per ore, senza sentire la fatica; le piaceva camminare lungo la costa, guardare i ragazzi che correvano in spiaggia, i surfisti alle prese con le prime onde della stagione, i venditori di fiori che non mancavano mai di offrirle un bel mazzo fresco. E Phoenix non riusciva a darle torto; per una ragazza cresciuta su un’isola dimenticata dagli Dei, dove il massimo del progresso era un pozzo da cui attingere acqua fangosa, trasferirsi in una grande città come Nuoxa Luxor era stato un cambiamento abissale, a cui aveva acconsentito solo per amore suo. Solo perché lui non voleva vivere troppo lontano da suo fratello, temendo che avrebbe potuto aver bisogno di lui. Era un cuore d’oro, anche se esternava di rado i suoi sentimenti, e anche per quello Esmeralda lo amava.

Sorridendo, la giovane donna sfiorò poggiò la mano sopra la sua, intenta a cambiare la marcia della Toyota, che sfrecciava lungo la litoranea in un tramonto di primavera. Serata ideale per quel ristorantino sul molo che avevano sempre ammirato dall’esterno e di cui alcuni amici avevano parlato bene.

Voltandosi, Phoenix la osservò e ricambiò il sorriso, spostando poi lo sguardo in basso, lungo la pancia leggermente ricurva di Esmeralda. Era ancora presto; ci sarebbero voluti altri cinque o sei mesi ma poi sarebbero davvero stati una famiglia completa.

Un colpo di clacson lo distrasse in quel momento, riportando la sua attenzione sulla strada. Un camion, sbandando, aveva invaso la loro corsia, mandando fuori strada un paio di macchine. Fu svelto, Phoenix, a scalare la marcia e a sterzare, riuscendo a non far capovolgere l’auto.

"Stai bene?" –Chiese subito alla compagna, che aveva strillato impaurita.

Tutta trafelata, Esmeralda annuì.

"Maledizione!" –Esclamò Phoenix, tirando un pugno contro il volante. Era la terza volta, nell’ultima settimana, che rischiavano la vita.

Prima c’era stato l’incidente al pontile, quando la cassa di una nave si era schiantata dall’argano, distruggendo il molo su cui Esmeralda stava passeggiando. Poi, la sera prima, un bus non aveva rispettato il semaforo rosso, rischiando di falciarla mentre attraversava sulle strisce pedonali. Cosa stava accadendo? Pareva che il destino stesse complottando per impedire la nascita di suo figlio.

"Mi dispiace." –Si limitò a dirle. –"Dovevo fare più attenzione."

"Non è colpa tua. Sono cose che capitano. Sei stato bravo a mantenere il sangue freddo" –Lo confortò lei, come sempre. Ma Phoenix non si sentì affatto meglio, avvolto in una nebbia di pensieri e domande che non sapeva disperdere.

"Meglio tornare a casa. Mi è passato l’appetito." –Fece inversione e si avviarono verso casa. Il ristorante sul molo poteva aspettare. Con la loro sfortuna, un maremoto avrebbe travolto il pontile quella sera, risucchiando ogni cosa negli abissi.

Ma era solo sfortuna? Non poté evitare di chiederselo una seconda volta negli ultimi minuti. E, in caso contrario, cosa mai poteva essere? Che fossero attentati organizzati da qualcuno (un suo vecchio nemico?) gli pareva impensabile, anche solo per l’impossibilità di programmarli. Sembravano piuttosto fatalità. Ma lui, che aveva conosciuto gli orrori del mondo in profondità, affrontando coloro che lo avevano edificato, poteva davvero credere nel caso? Avalon, anni addietro, gli aveva detto che niente avviene per caso, ma tutto è dominato dalla volontà dei Tessitori del Mondo. Lui, nel suo piccolo, si reputava uno di questi, per quanto si limitasse a osservare e a mantenere l’equilibrio, ma altri, come il suo perfido fratello, spesso intervenivano, per volgere le situazioni a loro vantaggio.

Phoenix scosse la testa. Anhar era morto, sconfitto nel deserto del Gobi assieme agli Dei Primordiali. Ma era davvero così? Potevano i Progenitori essere sconfitti? Potevano l’essenza stessa della creazione, la luce e l’ombra, scomparire così dal creato che loro stessi avevano concepito? A ripensarci adesso, dodici anni dopo, gli sembrava impossibile, ma quel giorno, quando il Primo Santuario era crollato, aveva esultato assieme ai compagni per aver portato a termine un’impresa epocale. Era tornato in Grecia e aveva riabbracciato Esmeralda, nascosta con Patricia e Fiore di Luna sull’Isola del Riposo, appendendo l’armatura al chiodo. Aveva forse errato in qualcosa? Il destino gli stava ricordando che quella vita non faceva per lui e che avrebbe dovuto tornare a calcare i campi di battaglia, sollevandosi in volo, tra le fiamme, e battendosi a fianco degli eserciti dei regni divini?

Non poteva essere così. Se Avalon o Asgard avessero avuto bisogno del suo aiuto, o dell’aiuto dei Cavalieri dello Zodiaco, lo avrebbero mandato a chiamare ed egli sarebbe accorso. I pericoli erano finiti, quelli divini quantomeno. Rimanevano quelli che la vita di ogni giorno sapeva offrire, ma a quelli poteva opporsi. Doveva opporsi.

Non ho attraversato gli inferni del mondo, per veder morire mia moglie in un banale incidente d’auto. Si disse, chiedendosi come avrebbe potuto proteggerla al meglio.

***

L’Incanto dell’Irrisorio stava vacillando e Emera indietreggiò, allibita da una prospettiva che non aveva contemplato.

"Non è possibile!" –Esclamò, osservando gli spasimi del corpo di Phoenix, fino a quel momento calmo e sereno. Che cosa poteva averlo turbato tanto? Cosa poteva esserci di così terribile in quella nuova vita che gli aveva concesso? Chiunque, persino il guerriero più dedito alla battaglia, avrebbe versato sangue per la certezza di vivere quell’esistenza che lei gli aveva concesso gratuitamente, distendendolo sull’Altare del Giorno Dopo e mostrandogli il futuro. E non uno dei tanti possibili, no. Il suo futuro possibile, quello che, scavando nel cuore, avrebbe davvero voluto.

Così funzionava l’Incanto dell’Irrisorio, semplicemente ti mostrava quello che sopra ogni altra cosa desideravi, offrendotelo come pura realtà. E non vi era niente che potesse far sospettare a chi viveva quell’esistenza che fosse un’illusione, poiché era lui stesso a generarla. E non era affatto un’illusione.

Quello era il potere di Emera, che Caos le aveva concesso, unica tra i Progenitori. Signora del Giorno, avrebbe potuto creare il giorno perfetto per ogni mortale, smuovendo i flussi del tempo, azzerandoli e ricominciandoli ogni volta. Quello che Phoenix stava vivendo non era un’illusione, bensì la vita che lui aveva sognato e che si stava infine concretizzando. In un’altra epoca, in un altro universo forse, che lei non poteva raggiungere. Poteva soltanto cullarlo con la sua malia di luce.

E allora che cosa stava spezzando l’Incanto dell’Irrisorio? Nessuno, nemmeno Etere, Erebo e Nyx, conoscevano il modo in cui la sua tecnica segreta operava, né avrebbero potuto infilarsi nella nuova vita di Phoenix senza che lei se ne accorgesse. Per cui la colpa non poteva essere che sua se l’alternativa esistenza del Cavaliere si stava sgretolando, sua e della debolezza che le attanagliava il cuore da quando si era recata al Santuario di Atene e aveva udito quella voce che le rimbalzava nell’animo. Quella voce che ripeteva una sola parola: "Madre!".

Ma chi era suo figlio che così insistentemente la chiamava?

***

Per il funerale di Esmeralda, Phoenix indossò un abito nero, lo stesso che aveva messo quando l’aveva sposata. Era un cerchio, in fondo, che si chiudeva.

Sfilò accanto alla bara aperta, dove il volto cereo di lei non splendeva più, e se ne andò, pregando Andromeda di lasciarlo stare. Non voleva sentire i suoi sermoni, né le battute con cui Pegasus avrebbe cercato di tirarlo su, voleva soltanto stare da solo, come mai era stato prima d’allora. Cresciuto con lei sull’Isola della Regina Nera, aveva faticato a guadagnarsi la fiducia di suo padre, che infine aveva lo aveva accettato nella famiglia, orgoglioso dei suoi risultati e dell’investitura ottenuta. Poi, finite le guerre, erano andati a vivere insieme e si erano sposati, forse anche troppo presto rispetto ai loro coetanei, ma dopo tutte le guerre e le morti che Phoenix aveva visto non aveva voluto sprecare il momento, timoroso che avrebbe potuto sfuggirgli via, come sabbia tra le dita.

E ora eccolo lì, a camminare mani in tasca tra le tombe tristi di un cimitero che avrebbe voluto bruciare. Magari un giorno l’avrebbe fatto. Esmeralda non meritava di stare in una buca sottoterra, con il bambino che attendeva ancora in grembo. Esmeralda era come lui, una fenice luminosa, e un giorno sarebbe risorta, lui l’avrebbe rivista e sarebbero stati insieme, per l’eternità.

"Aaah! Sono solo idiozie!" –Esclamò, rabbioso, tirando un pugno a un albero. Poi un altro e un altro ancora, fino ad abbatterlo, mentre il suo cosmo divampava, incendiando tutto ciò che lo circondava. Bruciare, sì, era quello che voleva fare, consumarsi in un’unica devastante fiammata che avrebbe posto fine alla sua esistenza, adesso che ormai non c’erano più ragioni per vivere. Aveva deposto l’armatura per stare con Esmeralda, e adesso che lei era morta, che cosa lo attendeva? Come poteva immaginare un futuro senza di lei al suo fianco? Che cosa rimaneva a un uomo che aveva rinunciato alla guerra, alla morte, alle fiamme dell’inferno e infine all’amore?

Non seppe rispondersi e continuò a bruciare, lasciando il cosmo libero di espandersi e divorare il camposanto, le sue tombe, i visitatori che vi passeggiavano, gli amici che correvano da lui, urlando. E crescendo ancora, annientando Nuova Luxor e l’intero arcipelago giapponese in una sola fiammata. Ecco, adesso era felice, adesso poteva dirsi realizzato. Era la fenice, in fondo, l’uccello di fuoco, e quello che sapeva fare, meglio di ogni altra cosa (meglio di fingersi un buon marito, un compagno fedele e un padre attento), era bruciare.

***

"Aaargh!" –Emera strillò, balzando indietro, mentre lunghe vampe di fuoco sorgevano dal corpo di Phoenix, inglobando l’Altare del Giorno Dopo e rischiarando la sua dimora quasi fosse giorno. E là, in mezzo a quelle fiamme, il paladino di Atena si mise in piedi, guardandosi attorno stordito.

"Sono morto? È questo il Paradiso dei Cavalieri?" –Mormorò, tenendosi la testa. Spense le fiamme e fece per scendere dall’altare, quando udì le grida e i rumori provenienti dall’esterno. Si avvicinò a un finestrone, di fronte allo sguardo attento di Emera, e guardò fuori, solo per sgranare gli occhi e voltarsi verso di lei, smarrito.

"Non può essere… il giorno dell’ira?" –Balbettò. –"È un incubo! Perché lo sto rivivendo? Perché lo sto ricordando?" –Quindi, come se la conoscesse, il Cavaliere le si rivolse. –"Emera! Anche tu qui? Che strano paradiso è mai questo?"

"Non è un paradiso, Phoenix, né un sogno. È reale. Noi siamo qui, ora, a combattere. Voi per la vostra vecchia Terra, noi per il nuovo mondo che vogliamo edificare."

"Ancora?!" –Disse, ma Emera scosse la testa.

"Non c’è un ancora. C’è solo un adesso. Ciò che hai visto e vissuto, da quando ti ho portato via dalla Porta della Luce, è scomparso. Qualcosa ha spezzato l’Incanto dell’Irrisorio e ti ha riportato qui, in questo mondo, in questo universo. Che cosa, Cavaliere, ti ha turbato tanto? Dimmelo, ti prego, sono curiosa di sapere!"

"Io… non capisco… Noi vi abbiamo sconfitto. Abbiamo vinto. E… Esmeralda?!" –Mormorò Phoenix, portandosi le mani alla testa, sempre più confuso. D’improvviso, un marasma di ricordi lo invase, trafiggendogli il cervello come grosse spine, e quei ricordi erano così diversi da quelli che lui aveva di sé e della sua vita. Gli stenti sulla Regina Nera, la morte di Esmeralda e di suo padre, i Cavalieri Neri, lui che attaccava Luxor e lottava contro… suo fratello? E Pegasus? Com’era possibile? –"Era dunque un’illusione?"

"No, Cavaliere. Tu hai davvero vissuto ciò che hai visto. Non in questo tempo e neppure in questo mondo, ma nel tuo, in quello che tu stesso hai creato. E i ricordi di quella vita non ti abbandoneranno, rimarranno con te!"

"Allora… ero davvero con Esmeralda? Abbiamo vissuto davvero una vita insieme? Ma perché lei è morta?"


"Dunque è stato questo a spezzare l’Incanto dell’Irrisorio!" –Rifletté Emera. –"Il tuo amore per quella fanciulla è così potente che l’hai inserita nella vita che avresti voluto, ma poiché lei era già morta qualcosa è intervenuto a correggere gli eventi, riportandoti qui. O qualcuno?"

"Emera! Ho capito ben poco di ciò che mi hai fatto! Ma sei questo è di nuovo il giorno dell’ira, e se Caos non è ancora stato sconfitto, io combatterò. Per cui lasciami passare!" –Disse Phoenix, espandendo il proprio cosmo. Subito l’armatura divina apparve a ricoprirlo, in un tripudio di fiamme che il giovane diresse contro la sorella di Etere. Ma bastò che questa gli volgesse contro il palmo della mano per fermare il suo attacco, respingendolo e scaraventando Phoenix contro l’altare, distruggendolo.

"Ne capisco poco anch’io, Cavaliere." –Rispose Emera. –"Pur tuttavia farò quello che devo, e me ne dispiaccio. Avrei preferito che tu continuassi a vivere in eterno, nella sicurezza del tuo mondo privato. Non sarebbe stato bello, anche per te?"

Phoenix strinse i pugni, esitando per un momento e chiedendosi se fosse davvero possibile tornare indietro. Ma tornare dove? Si chiese. Se quello era davvero il Giorno dell’Ira, suo fratello e i suoi amici erano da qualche parte a combattere e lui non poteva perdersi in rimpianti. No, doveva agire.

Concentrò il cosmo sul pugno destro e poi scattò avanti, portandolo avanti e dirigendo un sottile raggio di energia al volto di Emera, che lei fu svelta a spazzar via con un aggraziato movimento della mano. O, quantomeno, credette di averlo fatto, finché non sentì una puntura sulla fronte e una goccia di sangue scivolarle in bocca.

"Che gusto strano…" –Mormorò, prima che una potente emicrania la investisse e la spingesse indietro, naufraga in un mare di immagini, suoni e odori. Possibile? Poteva davvero quel Cavaliere innamorato avere così tanto potere su di lei? O forse qualche altra, e ben più arcana forza, era in movimento?

Doveva capirlo, e doveva farlo in fretta, prima che la sua coscienza venisse allagata dal dubbio. Espanse il suo cosmo luminoso, avvolgendo Phoenix e inglobandolo nella corolla di un fiore bianco, chiudendogli ogni via di fuga. Quando i petali si riaprirono, e il ragazzo sbatté gli occhi per abituarli al nuovo ambiente circostante, vide che non si trovava più nella fortezza di Emera, bensì al centro di una spianata costellata di cadaveri, dove macchie nere, simili a ombre fluttuanti, affrontavano un guerriero rivestito da una corazza rossa e un Dio che risplendeva di luce propria, quasi fosse il figlio del sole, o il sole stesso, fronteggiava un demone maori.

"Andrei…" –Mormorò, riconoscendoli. –"Potente Amon Ra…"

"Cavaliere di Phoenix! Lieto di riaverti tra noi! Ma dove sei stato? Cominciavo a temere il peggio!" –Esclamò il Nume d’Egitto.

"Io… Non sono sicuro di saperlo." –Disse il giovane, prima che Andrei lo afferrasse per un braccio, proprio mentre stava crollando a terra.

"Stai bene? Che ti è successo? Da tanto che bruci, sembri avere la febbre!"

"Brucio sì. Nient’altro posso fare. Sono la fenice." –Mormorò, precipitando indietro e perdendo i sensi, mentre cumuli di ricordi, veri o presunti, si affastellavano nella sua mente, sgomitando per attirare la sua attenzione. Esmeralda, Andromeda, i suoi amici, le corse in moto lungo la costa, il figlio che avrebbero avuto.

Emera aveva detto che era nel suo mondo privato che aveva vissuto, e lui sapeva che aveva ragione perché sentiva su di sé il peso di quell’esistenza, di quei dodici anni trascorsi con Esmeralda. Forse, a ripensarci ora, circondato dall’Armata delle Tenebre, dal sangue e dalla morte, quella vita non gli sembrava poi così male, pur nella sua tranquilla quotidianità. E allora perché era tornato? Cosa l’aveva spinto a farlo? E soprattutto perché Emera glielo aveva concesso?

***

La ricomparsa di Phoenix permise ad Amon Ra di tirare un sospiro di sollievo.

Quando aveva sentito scomparire il suo cosmo, aveva temuto che avessero fallito. Al riguardo anche Zeus e Avalon erano (stati) concordi: la vittoria o la sconfitta delle forze della luce dipendevano dai Cavalieri della Speranza. Il Nume egizio li aveva osservati, in quegli ultimi anni in cui si era preparato alla guerra, lodandone le qualità e lo spirito generoso che li aveva portati a rischiare la vita, più volte, per salvare la Terra. Di certo più di quanto lui e altri Dei avessero fatto. Ma in fondo, fino ad allora, nessuno nell’Enneade, o in altri pantheon, era mai stato invaso dal dubbio della fine di tutto. Nessuna guerra, fino a quel momento, li aveva posti di fronte al più semplice quesito dell’esistenza.

Continuare a vivere o scomparire? Una prospettiva che un Dio non aveva mai preso in considerazione. E invece, oggi come quindici anni addietro, aveva dovuto imparare qualcosa.

Le grida dei Soldati del Sole lo fecero voltare. Erano rimasti in pochi, una decina scarsa, radunati tra loro, con le lame che sfolgoravano energia luminosa, dirigendola verso un mostro dalla testa di coccodrillo appena giunto sul campo di battaglia. Sospirando, Amon Ra concentrò una sfera di cosmo ardente sul palmo della mano prima di scagliargliela contro e dilaniarlo.

Niente di nuovo, in fondo.

Erano ore che lo schema si ripeteva. Da quante? Nessuno lo sapeva più. Nemmeno lui che poteva regolarsi soltanto guardando il sole. Ma il sole era sparito dietro uno strato di nuvole sempre più nere e molti (li aveva sentiti pronunciare scongiuri) temevano che non sarebbero tornati a vederlo, che sarebbero morti lì, in quella piana lontana da casa e dalle famiglie che avevano lasciato per lottare per il loro futuro.

E ogni volta in cui Amon o Andrei spazzavano via l’Armata delle Tenebre, o una parte di quella nera fiumana, ecco che, poco dopo, quella ricompariva, accompagnata da qualche demone, proveniente da chissà quale culto (alcuni talmente antichi che persino lui non li aveva mai sentiti nominare!), a sbarrargli il passo.

Osservando la spianata di fronte alla Porta del Giorno (che neppure Phoenix era riuscito ad aprire, a quanto pareva), il Sole d’Egitto vide l’Arconte Rosso fronteggiare Supay, il Dio della Morte dei popoli inca e sovrano dell’Uku Pacha, il Mondo di Sotto, circondato da una folta schiera di demoni locali. Brutti, con le facce pitturate di rosso, e lunghe corna sporgenti che offrivano all’avversario quando lo caricavano. Andrei non sembrava essere sorpreso, avendo forse già avuto occasione, in passato, di scontrarsi con quella strana schiera.

Le Amazzoni, al qual tempo, stavano arretrando sotto i colpi di un uomo alto e barbuto (siriano, a giudicare da come portava la barba), intabarrato di tutto punto, con un’armatura grigia, una spada, una lancia e uno scudo. Sulla testa una corona con una testa di gazzella, che permise ad Amon Ra di riconoscerlo.

Era Reshef, Signore della Morte siriano. Secoli addietro (molti secoli, ammise) aveva guidato una campagna militare in Egitto, per piegarlo al suo volere, scatenando pestilenze e carestie. Tuttora la sua abilità guerriera non era venuta meno, a giudicare dai cadaveri di Amazzoni che si stava lasciando alle spalle.

Amon Ra avrebbe voluto intervenire, quando la voce stentorea di Pentesilea risuonò sopra tutti gli altri rumori. –"Ti taglierò quella maledetta barba e la userò come miccia per bruciare il tuo cadavere!" –Ringhiò la Regina delle Amazzoni, incrociando l’ascia con l’arma nemica e strappando un sorriso al Nume d’Egitto.

Uomini, donne, persino ragazzi, nessuno in questa guerra si tira indietro! Tutti fanno la loro parte! Dobbiamo farlo anche noi! Si disse, prima che il sollevarsi di un vento freddo lo distrasse, anticipando la comparsa del suo nuovo nemico.

Alto e magro, di carnato scuro, con lineamenti che ad Amon ricordarono quelli del Comandante degli Areoi, il demone avanzò verso di lui, in un’armatura dal colore blu notte, circondato da tanti spiriti fluttuanti, che parevano urlare a ogni movimento.


"Il mio nome è Whiro, Dio della Morte, del Male e dell’Oscurità! E tu…" –Si presentò, espandendo il proprio cosmo glaciale. Ma il Sole d’Egitto nemmeno l’ascoltava più, preparandosi a combattere. Solo questo, del resto, poteva fare.

***

Nesso era debole e si trascinava a fatica, senza avere la benché minima idea di dove si stesse dirigendo. All’inizio, sforzandosi, aveva cercato di seguire la direzione presa da Nikolaos ore prima, ma dopo pochi passi aveva dovuto ammettere di essersi perso, stordito dal veleno di Vritra e dal continuo cambiare della struttura del tempio. Pareva proprio che Caos, anziché ucciderli subito, come avrebbe potuto fare con un semplice fulmine nero, traesse divertimento nel vederli smarriti e sofferenti.

Un colpo di tosse lo prostrò a terra, facendogli sputare sangue scuro e convincendolo di non stare affatto bene. Il cosmo di Iro era scomparso, trascinando con sé un bel pezzo del Santuario, e Nesso si augurò che quel bastardo del Maestro del Caos vi fosse crepato sotto. Dell’Eridano invece nessuna traccia, solo un barlume lontano di cosmo di cui non seppe individuare la provenienza. Che poteva fare?

Un rumore di passi alle sue spalle gli diede la risposta, costringendolo a sollevarsi e ad appoggiarsi con la schiena a un grosso masso sporgente, mentre di fronte a lui una mandria di nemici si radunava. Stanco e intontito, non riuscì neppure a metterli a fuoco, gli sembrarono sette leoni. O forse sette grifoni, perché avevano le ali?

Qualunque cosa fossero, erano nemici, come dimostrato dall’attacco in cui si lanciarono e che costrinse Nesso a liberare le Frecce del Mare, colpendo qualcuno di loro. Ma la maggioranza lo raggiunse, tempestandolo di calci e graffi, fino a schiantarlo contro la roccia retrostante, distruggendola. Afferrando un grumo di polvere, il Pesce Soldato capì come sarebbe finita. Così. Si disse, gettandola via.

Proprio in quel momento udì dei cani abbaiare.

Si risollevò, pesto e logoro, mentre centinaia di scattanti figure (che a lui sembrarono levrieri di pura ombra) si abbatterono sugli avversari, agguantando le loro braccia o le loro gambe, mordendo, strappando e godendo delle grida nemiche, con una violenza che fece indietreggiare persino Nesso.

"Non temere, giovane eroe, i cani da caccia dell’Annwn non ti azzanneranno!" –Disse una voce maschile, dall’accento inglese (o forse scozzese? Un tempo l’avrebbe riconosciuto subito, ma adesso era troppo stanco). –"Avrebbero ben poco di cui cibarsi, in verità. Sei tutto ossa e muscoli, ragazzo! Molto meglio, per i miei levrieri, una dieta a base di Utukku!" –Ridacchiò, prima che il frusciare di candide vesti lo distraesse, anticipando l’arrivo di una figura ammantata di luce.

Così, quantomeno, fu come Rhiannon apparve a Nesso, una meravigliosa madonna che sprigionava un bagliore intenso e corroborante, che subito gli avrebbe fatto chiudere gli occhi.

"Riposa, eroe. Le tue fatiche sono giunte a termine. Se me lo permetterai, io ti curerò. Prendi la mia mano e seguimi! Ti porto dai tuoi amici!" –Disse la sposa di Arawn, allontanandosi con Nesso e lasciando il compagno e la sua muta ad affrontare gli Utukku. A ogni passo, Nesso parve stare meglio, sebbene forse fosse soltanto una miglioria apparente, ma la presenza di Rhiannon era come il tocco della rugiada fresca. Il tocco della vita.

"Nesso! Stai bene?" –Lo chiamò una voce, che, se anche non vide il suo proprietario, subito riconobbe, rallegrandosi che il Luogotenente dell’Olimpo fosse ancora vivo.

"A quanto pare ci siamo tutti!" –Commentò Demetra.

"Umpf! Ma che bella riunione di famiglia!" –Borbottò qualcun altro, che Nesso forse non conosceva. Guardandolo, vide solo una folta capigliatura blu. –"Possiamo andare adesso? La guerra ci attende ed è lungi dal…" –Ma Sin non riuscì a terminare la frase che il suolo iniziò a tremare. –"Oh fantastico, e ora che succede? Quale nuova creatura immonda partorirà questo tempio?"

"Che succede? State tutti bene?" –Altre voci in arrivo. Queste, Nesso le riconobbe, erano Atena e il suo Primo Cavaliere.

"Per ora…" –Il suolo continuò a tremare, spaccandosi ovunque e risucchiando massi e pietre nelle sue oscure profondità, assieme ai cadaveri che costellavano la Corte della Notte e alle mura, ai baluardi e a pezzi di santuario, e, sopra tutto quel frastuono, risuonò l’urlo disperato di una donna. Una donna che solo Pegasus parve riconoscere.

"È Nyx!" –Esclamò, mentre una faglia si apriva proprio sotto i suoi piedi ed egli precipitava nell’oscurità, assieme ad Atena, Sin, Demetra, Nikolaos, Rhiannon, Shen Gado, Nesso, Arawn e a tutti i suoi bei levrieri.