CAPITOLO VENTISEIESIMO: CHIMAIRA.

Razionalmente, Ganimede sapeva di doversi fermare, eppure non riusciva a smettere di danzare.

Era bastato che la donna lo fissasse con i suoi occhi verde mare, che gli sorridesse, stirando le labbra sottili, prima di sollevare le mani, e con esse le vesti leggere che la ricoprivano. A quel gesto, quasi fossero marionette ai suoi comandi, tutti i soldati di Atena che la circondavano si erano sollevati sulle punte dei piedi, per poi iniziare a seguirla, in quell’assurda danza con cui aveva circondato il Cavaliere Celeste. Una danza senza musica, fatta solo di gesti accorti e malizia.

E ora toccava a lui, al Coppiere degli Dei, che alle fanciulle non aveva mai riservato troppe attenzioni, solo quelle previste dal protocollo di corte. Persino alle ninfe e alle ancelle della Reggia di Zeus, che pure ammiravano il suo fisico glabro e scolpito, non aveva rivolto che sorrisi di circostanza. La sua dedizione, come la causa stessa della sua eterna giovinezza, era tutta per il Signore dell’Olimpo, Signore a cui aveva tentato di star dietro, e per cui aveva imparato anche a combattere, o comunque si era sforzato di farlo, facendosi insegnare da Giasone a controllare il cosmo e dai Dioscuri le tecniche basilari di lotta.

Insegnamenti a dir poco infruttuosi. Si disse il Cavaliere Celeste, continuando a danzare, seguendo gli aggraziati movimenti della dama vestita di verde che, in breve, aveva messo su un corteo di ammiratori, che aumentava ogni volta che si avvicinava a nuovi gruppi di soldati. Che fossero uomini, donne, anziani o più giovani, non faceva differenza; nessuno riusciva a resistere all’incanto delle sue movenze, alla delicatezza di quella figura che, in realtà, nascondeva un temibile potere.

Cosa credeva di fare? Costringerli a ballare fino allo sfinimento? Quel pensiero lo fece sentire come la Cerva di Cerinea, la più veloce della Terra, che fu però sfiancata da Eracle in un’estenuante corsa. Avrebbe incontrato la sua stessa fine?

Aveva provato ad espandere il cosmo, per spezzare la morsa mentale, ma non c’era riuscito, realizzando che non si trattava di psicocinesi. No, era qualcosa di simile a un incantesimo tessuto da quella streghetta vestita di verde.

"Una strega? È così che mi dipingi, figlio di Troo e della naiade Calliroe?" –Sussurrò una voce, rimbalzando nella sua mente e strappandogli un gemito di sorpresa. Spostò a fatica lo sguardo sulla fanciulla e la vide sorridere, scoccando un bacio nella sua direzione. –"Eh sì, leggo nella mente. È uno dei miei poteri e tu, mio delizioso bocconcino di carne e cosmo, mi stai donando tanto potere."

"Chi sei?"

"Puoi chiamarmi Bobby, se ti piace. È un nome carino, non trovi? Ho sempre voluto che un uomo mi chiamasse così. Bobby! Che me lo sussurrasse negli orecchi, mentre le sue labbra correvano sulla mia pelle morbida, che mi dicesse quanto mi amasse e mi volesse. Invece tutto quello che ho avuto sono state grida di dolore e acuti ridolini di sorpresa, ben misera rappresentanza del sesso maschile!"

"Sei pazza!"

"Ih ih, ma no sciocchino. Mi sto solo divertendo. Ma se Bobby non ti piace, chiamami Baobhan Sith, come mi definiscono i miei nemici, quelle infingarde e gelose sorellastre che mi ritrovo! Ne sono rimaste poche, per fortuna; la Cailleach le ha sterminate secoli addietro e le superstiti si sono chiuse nei boschi, uscendo di rado, forse convinte che, per la loro piccola statura e il disinteresse nei confronti del mondo, Caos le lascerà vivere. Non sanno che, quando questa vostra ridicola spedizione finirà, farò loro visita."

"Per ucciderle?"

"Oh no, sciocchino! Non hai capito proprio niente. Ti facevo molto più intelligente e invece, Coppiere degli Dei, hai un bel visino e tanti muscoli da assaporare ma all’interno cosa c’è? Il vuoto atemporale? Ehi, non è che per caso i Progenitori sono stati nascosti dentro di te in questi millenni?" –Ridacchiò la Dama Verde, continuando a danzare e, nel frattempo, a parlare alla mente di Ganimede. –"Non le ucciderò. Non in senso fisico, almeno, e non subito. Semplicemente mi servirò di loro, per accrescere la mia forza e continuare a vivere."

"Sei… un parassita…" –Mormorò Ganimede, comprendendo infine. –"Come le strigi del Mondo Antico. Succhi l’energia degli esseri viventi e più ne assorbi…"

"E meno le mie vittime sono in grado di resistere." –Chiarì lei, mentre alcuni corpi iniziavano a cadere. Quelli delle sacerdotesse anziane, di alcune arrefore e di soldati già feriti.

"Bastarda!" –Ringhiò Ganimede, bruciando il proprio cosmo, a cui la Dama Verde rispose con una sghignazzata decisa.

"Bravo sì, brucia il tuo bel cosmo immortale! Non fai altro che aiutarmi!"

A quelle parole il Cavaliere Celeste ammutolì, rilassando i sensi e tentando di capire come superare quello stallo. Non dovette pensarci molto, in verità, distratto dalle urla improvvise di un gruppo di giovani che stavano correndo verso di loro. A vederne le cozze di rame e cuoio, sembravano apprendisti Cavalieri, che stavano tentando di proteggere delle ragazze (forse le future sacerdotesse di Atena?) da…

Una nuvola nera? Esclamò Ganimede, mentre l’ondata di fuggitivi si scontrava col corteo, attirando anche l’attenzione di Baobhan Sith. Proprio in quel momento dalla nube nera scaturì una selva di folgori, che abbatté un paio di apprendisti, terrorizzando gli altri e facendoli scappare, spezzando l’incanto della Dama Verde.

Fu una vibrazione minima, ma sufficiente, per Ganimede, per sollevare le braccia sopra la testa, unendole a pugno chiuso, e radunare il cosmo, generando una brocca ricolma di energia scintillante.

"Anfora delle stelle!" –Urlò, abbassando le braccia e liberando il fiume di stelle.

Baobhan Sith, presa alla sprovvista, venne investita in pieno e scaraventata lontano, con i begli abiti in fiamme e il corpo ustionato. Ringhiando, tentò di rimettersi in piedi, incurante dei capelli bruciati e del sangue che le colava sul volto. Chiuse gli occhi, attingendo al potere assorbito dalla danza, e, davanti agli occhi sbalorditi di Ganimede, iniziò a cicatrizzare le ferite. Una dopo l’altra.

Il Coppiere degli Dei si guardò attorno, strappò una lancia di ferro dalle mani di un ragazzo e la scagliò contro la Dama Verde, trapassandola al cuore. Sputando sangue, Baobhan Sith morì così, in quella posizione scomoda che a Ganimede ricordò il balletto con cui li aveva incatenati poco prima. Di tutte le lezioni ricevute da Giasone, una l’aveva sempre ricordata.

"Se devi uccidere qualcuno, mira al cuore. Stai pur certo che morirà."

Un nuovo strillo delle aspiranti sacerdotesse lo fece voltare, giusto in tempo per vedere la nuvola nera trasformarsi in una creatura uscita da un bestiario del Mondo Antico. Dal corpo si sarebbe detto un cane procione, ma le zampe erano di una tigre, la testa di una scimmia e la coda di serpente. Quando parlò, fissandoli con astio, emise il verso di un tordo.

O era un esperimento malriuscito di Anhar…

"È un Nue!" –Esclamò una voce, mentre un’agile figura lo affiancava, scintillando nella sua armatura divina. Nonostante le numerose ore di scontri che aveva sostenuto, Toma di Icaro sembrava fresco di forze. E forse è davvero così, si disse il Coppiere, osservandolo scattare avanti, per un guerriero formidabile che ha riposato per anni.

Non disse niente, il Cavaliere di Icaro. Mulinò soltanto una lancia di cosmo e la piantò nel ventre della bestia, facendola esplodere. Ganimede, disgustato, si riparò il volto dalla pioggia di interiora, approfittandone per voltarsi verso la Porta delle Tenebre, che proprio in quel momento si stava aprendo.

***

Tutti si aspettarono di veder uscire Erebo, persino gli ultimi Sparti e le creature infernali che si erano barricate di fronte al cancello nero. Invece, ritto sopra un enorme granchio corazzato, le lunghe chele che si allungavano fameliche in ogni direzione, stava un giovane dal fisico atletico, rivestito da una corazza verde e marrone. Guardandola, si poteva notare quanto fosse asimmetrica, con un coprispalla ornato da due robuste corna e l’altro doppio, simile alle squame di un drago. L’elmo, in parte aperto, lasciava liberi disordinati ciuffi di capelli biondi, mentre una lunga coda metallica serpeggiava attorno al suo corpo, guizzando su chiunque incrociasse il suo sguardo.

Eracle, in quel momento appoggiato alla clava, con alcuni danni evidenti sulla Veste Divina e il fiato corto, lo fissò, realizzando per primo cosa fosse la creatura a cui si accompagnava, una creatura da lui stesso già affrontata.

"Karkinos…" –Mormorò, ricordando il gigantesco crostaceo che tentò di impedirgli di sconfiggere l’Idra di Lerna. Quasi avesse udito la sua voce, il granchio puntò gli occhietti rossi su di lui, facendo scattare le chele a tenaglia e iniziando a correre.

Con grazia, l’uomo sopra di lui balzò in aria, effettuando una capriola all’indietro e atterrando a piedi uniti nella nuvola di polvere che Karkinos si lasciò dietro, mentre, dall’ancora socchiusa Porta delle Tenebre, un’ondata di guerrieri ombra usciva.

"Disponetevi a muraglia! Non voglio vedere neanche una breccia!" –Sbraitò il biondo, per poi aggiungere a denti stretti. –"Sterminateli tutti! Ma lasciate i Cavalieri di Atena a me!"

"Sei piuttosto presuntuoso!" –Commentò allora una voce maschile, facendosi avanti.

"Tutt’altro." –Rispose il fedele di Caos. –"Considerando il debole stato in cui versate, temo che non sarà piacevole come mi sarei aspettato. Ma vedrò di farmi bastare la vostra sconfitta!" –Aggiunse, scattando avanti, con il braccio teso e il pugno diretto al volto del suo avversario.

Ioria fu lesto a spostarsi di lato, afferrando il pugno con la mano destra e muovendola per ribaltarlo, ma l’altro, anziché opporsi, sfruttò la mossa per roteare sopra di lui, trascinando il Cavaliere d’Oro con sé e colpendolo poi con un calcio sul viso, che gli fece saltar via l’elmo, frantumandolo.

"Debolucce queste armature d’oro." –Ghignò, atterrando in perfetta posizione di guardia, le braccia già pronte per la difesa.

O per l’attacco. Notò Ioria, che, a differenza sua, era stanco per gli scontri continui, alcuni (quelli con Siderius, Micene e Capricorn, ad esempio) che lo avevano fiaccato anche nello spirito. Proprio in quel momento il suo avversario caricò.

Con un balzo gli fu davanti, il cosmo che risplendeva attorno al braccio, di un oro così acceso da sembrare ocra. Un cosmo che, non fosse stato infettato dall’ombra, Ioria avrebbe potuto scambiare per uno dei Dodici Custodi.

"Fauci delle tre bestie!" –Gridò il biondino, volgendogli contro il palmo della mano destra, da cui scaturirono tre flussi di energia. Il primo, sotto forma di capra, lo colpì allo stomaco, piegandolo in avanti e lasciandogli due belle crepe nei punti in cui le corna lo raggiunsero; il secondo gli parve l’ombra di un leone e tentò di contrastarlo sollevando le braccia, riuscendovi solo in parte, prima che qualcosa si arrotolasse attorno al suo polso, strattonandolo e aprendo una breccia nella sua difesa. In quel momento il leone lo raggiunse con un’artigliata al collo, scaraventandolo indietro, nella polvere bagnata dal suo sangue e dalle schegge dell’armatura d’oro.

"Ora so chi sei!" –Mormorò Ioria, tenendosi una mano sulla ferita aperta. Ma l’altro neppure lo fece parlare, balzando in alto e piombando su di lui a gamba tesa, roteando su se stesso, costringendo il Cavaliere d’Oro a ruzzolare di lato per evitarlo.

Il fedele di Caos traforò il terreno per cinque o sei metri, prima di risbucare fuori con un’agile colpo di reni, di fronte allo sguardo stupito, quasi ammirato, di Ioria.

"Chimera…" –Commentò, ricevendo un ghigno in risposta. –"Eri in Egitto. Ricordo di averti visto. Hai affrontato Horus e Bastet."

"E li avrei uccisi! Vi avrei uccisi tutti, se quel bastardo dell’Isola Nera non avesse vinto, con l’imbroglio, il mio maestro. E se Forco il traditore di ci avesse raggiunti!"

"Misura le parole! Phoenix non ha imbrogliato. La sconfitta del Signore della Guerra era inevitabile e altrettanto sarà la tua!"

"Tu dici? Di certo non avverrà per mano di un debole come te!" –Sghignazzò Chimera. –"No, Cavaliere, Caos me lo ha predetto. Io non cadrò per mano tua, né di quella di alcuno dei tuoi compagni! Tutt’altro. Sarò io a prendermi le vostre vite, vendicando il mio mentore!" –Disse, concentrando il cosmo e liberando un nuovo assalto. –"Fauci delle tre bestie!"

Ioria tentò di difendersi, ma Virgo fu più veloce, apparendo alle sue spalle e circondando entrambi con una cupola di energia dorata su cui l’assalto si infranse. Tanto era potente che il Kaan tremò e Ioria sentì Virgo digrignare i denti, prima di guardarlo spalancare gli occhi e dare fondo alla sua energia.

"Abbandono dell’oriente!" –Gridò, disperdendo le fiere e abbattendosi su Chimera, sollevando una nube di polvere. Quando scemò, Virgo e Ioria non videro niente, ma prima di chiedersi che fine avesse fatto il loro nemico lo intravidero spuntar fuori dal terreno con un balzo, dopo essersi nascosto nel cratere da lui stesso scavato poc’anzi.

"Subdolo…" –Commentò il Leone d’Oro.

"Io direi astuto." –Ghignò Chimera. –"Non te l’ha insegnato il tuo maestro, a sfruttare il terreno di caccia? È così che fanno i predatori a non divenire mai prede!"

Ioria avrebbe voluto ribattere ma Virgo fece un passo avanti, dando chiaramente a intendere che si sarebbe occupato lui del servitore di Caos.

"Oh, non disturbatevi a scegliere. Lo farò io. E scelgo entrambi." –Disse Chimera, battendo tre volte il tacco sul suolo sabbioso. Subito una faglia si aprì sotto i piedi di Ioria, che vi precipitò senza neanche riuscire a urlare, richiudendosi all’istante, prima che una seconda si spalancasse sotto Virgo.

Con estrema rapidità, il Cavaliere riuscì a teletrasportarsi alle spalle di Chimera, ma non appena riapparve una nuova faglia si aprì, stupendolo. Prima che potesse scomparire di nuovo, un lungo tentacolo d’ombra sbucò e lo afferrò per una gamba, strattonandolo e trascinandolo nell’abisso.

"Che cosa hai fatto?" –Gridò l’acuta voce di un ragazzo, portando Chimera a voltarsi nella sua direzione.

"Oh li ho solo offerti in dono alla Madre. Ne ha bisogno, sapete, per rinascere."

"La madre?" –Mormorò Asher. –"E chi è?"

"Che razza di domande fai, idiota? Preoccupati piuttosto per te!" –Esclamò Chimera, scattando su di lui. Asher fece altrettanto, il braccio avvolto in lucente energia, e i due si raggiunsero a mezz’aria, lasciando collidere i loro pugni, ma la maggior forza del fedele di Caos scaraventò indietro l’Unicorno, contro Castalia, che fu lesta a evitarlo, mentre già Tisifone espandeva il proprio cosmo e scattava all’attacco.

"Assaggia gli Artigli del Cobra dorato!"

"Sono con te!" –Esclamò la maestra di Pegasus, avvolta nel suo cosmo azzurro. –"Meteora pungente!"

Chimera neppure si mosse, limitandosi a rivolgere loro il palmo della mano destra, su cui il duplice assalto impattò, senza neppure sbilanciarlo. Sorrise divertito, prima di roteare la mano e avvolgere l’energia nel proprio cosmo, generando un’enorme sfera che poi scagliò contro di loro, scheggiando e facendo vibrare le armature d’oro.

"Io sono la bestia dalle triplici fattezze! Io sono leone, capra e serpe al tempo stesso! Io sono Chimaira, figlio del mito, e voi uomini, cosa potete fare contro il mito?"

A quel punto rimasero soltanto Reda, Salzius e Nemes, giunti al seguito degli amici.

"Ma per favore!" –Esclamò Chimera, scuotendo la testa. –"Non mi umilierò con tre nullità dal cosmo simile a uno sputo nell’universo!"

"Dovrai farlo invece!" –Disse Nemes, lasciando schioccare la frusta. Non aggiunse altro e scattò avanti, seguita da Reda e Salzius.

"D’accordo. Vampa di fuoco! Annientali!" –Tuonò, travolgendoli con un’onda composta di pura fiamma, così intensa da sciogliere la frusta del Camaleonte e distruggere quel che restava delle tre corazze di Bronzo.

Gridando per l’estremo dolore, Nemes, Reda e Salzius ricaddero a terra, poco distanti dai già abbattuti compagni, i corpi macchiati di ustioni violente, la pelle a tratti consumata, i capelli arsi in un’unica fiammata. Rimettendosi in piedi, e guardandoli, Asher dovette trattenersi dal non vomitare, chiedendosi come potessero (e per quanto ancora lo sarebbero stati) essere ancora vivi, se viva poteva ancora essere la carne sotto quello strato di bruciature.

"Male… detto!" –Chiuse la mano a pugno e lasciò sfrigolare il cosmo, ma prima ancora di muoversi, Chimera si era spostato al suo fianco, afferrandogli il polso con la coda dell’armatura e piegandoglielo, mentre lo colpiva all’addome con un pugno.

"Già, già, sono un gran bastardo, vero? Che vuoi farci, ho una motivazione ben salda per combattere. Anzi no, con voi qui presenti, ne ho tre di motivazioni!" –Spiegò il fedele di Caos, travolgendo l’Unicorno con un’onda di energia e gettandolo a terra.


"Asher!!!" –Gridò Castalia, per poi rivolgersi a Tisifone, che ugualmente si stava rialzando. –"Non possiamo tergiversare. È noi o lui!" –La compagna annuì e insieme l’Aquila e l’Ofiuco saettarono avanti, ormai alla velocità della luce, forti delle corazze che le rivestivano e davano loro calore. –"Fish! Cancer! Questo colpo è anche per voi!!! Meteora pungente! Cobra incantatore!"

"Che nomi assurdi…" –Commentò Chimera, prima di scattare di lato, evitando il duplice attacco. Si portò alle spalle di Castalia e le conficcò le corna di cosmo della capra nella schiena, facendole sputare sangue e prostrandola a terra, poi, mentre Tisifone si voltava per aiutarla, la spinse indietro con una vampa di fuoco, ricacciandola accanto a Asher che tentava di rialzarsi. –"Sei agile. Più agile degli altri perdenti. Ma in battaglia serve anche la forza, è questo che determina la vittoria. Non l’una o l’altra qualità ma la loro combinazione. Lo so bene, io che ne sono il risultato." –Disse, continuando a tenere il pugno premuto contro la schiena di Castalia, che boccheggiava in ginocchio, vomitando sangue. –"Conoscete, immagino, la storia della Chimera, figlia di Echidna e Tifone, di stanza a Patara, in Licia? Quel che non sapete è invece la mia storia e forse, giunti a questo punto, dovrei raccontarvela, cosicché possiate comprendere la mia mente malata, e poi dirmi che mi sbaglio, sbizzarrendovi con qualche retorico discorso su quanto la vita sia bella e meriti di essere vissuta. Ah ah ah. Mi diverto sempre a massacrare i Cavalieri di Atena! Di tutti gli eserciti divini, siete i più patetici." –Aggiunse, sollevando la Sacerdotessa dell’Aquila, impalata e inerme sul suo braccio, di modo che tutti potessero vederla, anche Nemes, Reda e Salzius, che a stento poterono girare gli occhi. –"Ma vi deluderò, non ho intenzione di dirvi niente. Solo di uccidervi!" –Detto questo, scaraventò Castalia in alto, sospinta da una vampa di fuoco, prima di prepararsi a saltare.

Tisifone avrebbe voluto fermarlo ma nel momento stesso in cui scattò capì che non sarebbe arrivata in tempo, che Chimera era troppo veloce, persino per un Cavaliere d’Oro. Strategia, forza e velocità, non c’era niente che mancasse a quel guerriero perfetto. Perfetto e vittorioso! Mormorò, avvilita, osservandolo allungare il braccio destro, su cui già brillavano le corna della capra infernale, mirando al petto dell’amica.

"Nooo!!!" –Tentò di urlare, ma neppure le parole le uscirono in tempo, precedute da un guizzo rapido di cosmo color lilla. Un fulmine quasi, una serpentina di energia che trapassò Chimera e lo deconcentrò, costringendolo a ripiegare, mentre una figura in armatura celeste afferrava Castalia e la portava via dalle fiamme, depositandola a terra, con delicatezza, molti metri più avanti.

"Come… hai… osato?" –Avvampò Chimera, atterrando, per la prima volta, con poca grazia e tenendosi una mano sullo stomaco. Tisifone notò che da un lato della bocca un rivolo di sangue gli colava lungo il collo.

"Per proteggere mia sorella oserei anche di più!" –Rispose una voce maschile, mentre colui che aveva salvato Castalia si faceva avanti, rivelando un’armatura celeste, decorata con un bizzarro gonnellino di stoffa. I folti capelli fulvi, lo sguardo deciso, il pendente di famiglia ancora legato al collo. –"Il mio nome è Toma di Icaro e non ti chiederò per cosa o chi combatti. No, ti dirò soltanto questo: ho sfidato l’ira di Zeus pur di sapere mia sorella al sicuro. Credi che mi farò impaurire dal belato di una capra, dallo strisciare codardo di una biscia o dal miagolio di un gatto selvatico? Se lo credi, non mi conosci!"

"Vediamo di rimediare, allora." –Chiosò Chimera, lanciandosi all’attacco. Toma fece altrettanto e i loro cosmi esplosero.

***

Emera era invasa dal dubbio, ed era stato Phoenix a instillarlo in lei.

No, non era vero. Scosse la testa, muovendo qualche passo nell’ampia camera a lei riservata, il pavimento e le mura ancora annerite dall’infiammarsi del cosmo della Fenice. Se doveva essere onesta, e con se stessa poteva esserlo, il dubbio l’aveva già raggiunta al Grande Tempio, quando aveva osservato Atena e i suoi Cavalieri combattere fino allo stremo delle forze per una causa persa in partenza, una causa a dir poco ridicola. La difesa di una corrotta umanità che aveva rifiutato la luce.

Eppure Phoenix aveva fatto di più, aveva rifiutato l’altra vita che gli aveva offerto, l’altra vita in cui sarebbe cresciuto assieme a colei che amava e sempre assieme sarebbero morti, di morte naturale. E quel lontano giorno, Emera avrebbe assistito al decomporsi del suo corpo, ancora lì, disteso sull’Altare del Giorno Dopo. Cosa poteva chiedere di più un uomo? Cosa poteva esserci di più che non il concretizzarsi dei propri sogni? Inoltre… poteva un uomo ardire così tanto, rifiutando un dono divino?

Era follia, avidità o hybris la loro? O forse…? Un altro pensiero l’aveva invaso e adesso non riusciva più a toglierselo dalla mente, al punto da sopraffare tutti gli altri. Era colpa di Phoenix, certo, di quel colpo che le aveva ferito la fronte e che lei aveva creduto fosse un semplice graffio. Invece, qualunque potere fosse, non ne era immune. Quale ironia, in fondo, scoprire che anche gli Dei ancestrali hanno delle debolezze che nemmeno conoscono! Eppure lei avrebbe dovuto saperlo, lei che, come suo fratello, aveva già vissuto un’intera esistenza a fianco di Caos e dei loro genitori. Non erano stati sconfitti anche in quell’occasione? Non avevano ruggito così tanto da scuotere pianure intere, livellare montagne e sollevare oceani, solo per poi precipitare nel vuoto che separa i mondi?

Fu una bella idea, quella.

Emera non ci pensava da tempo, non pensava ai Primi Giorni. Aveva smesso di farlo quando erano stati rinchiusi nell’intermundi e da allora aveva osservato: gli uomini, la Terra, le guerre divine, chiedendosi come potessero quegli esseri inferiori aver vinto. Come potessero disporre del diritto di distruggere quel che gli Dei avevano creato. Quel che Caos aveva creato.

Una fitta la aggredì improvvisa, prostrandola a terra, carponi, mentre le immagini andavano e venivano e una voce parlava. Una voce così simile alla sua.

"Al principio era il tempo. Non c’era sabbia né mare, né gelide onde. Non c’era terra né cielo in alto, un vuoto si spalancava e in nessun luogo erba."

Un vuoto? Sì, era l’universo prima della Creazione. Io lo ricordo. L’ho visto, tramite gli occhi di Caos. Poi lui generò il mondo e trasse Nyx dalla Notte eterna e lei partorì Erebo dalle Tenebre primordiali. Loro, i Primogeniti. I nostri genitori.

Poi nacque Etere, o nacqui prima io? O forse nascemmo insieme, i Gemelli di Luce, per bilanciare l’oscurità dei primordi, in un equilibrio perfetto su cui avrebbe dovuto basarsi la vita sul pianeta.

"Splendette da sud il sole sulle pareti di pietra, allora si ricoprì il suolo di germogli verdi."

Eccolo, Etere, mio fratello. Oh com’era bello quel giorno, con il volto rilassato e perfetto, quasi fosse stato plasmato dalla sabbia astrale, rilucente come polvere di stelle. E sorrideva, mentre camminava per il mondo e lasciava che la sua luce lo rischiarasse. Io feci altrettanto, io lo seguii e concessi agli uomini l’avvicendarsi del giorno e della notte, per dare loro indicazioni sul tempo per il lavoro e sul tempo per il riposo. Così doveva svolgersi la loro vita, in perfetto equilibrio.

E allora cosa si è rotto? Cosa si è spezzato? Si chiese Emera, portandosi le mani alla testa, quasi potesse strappar via quella vibrazione che sembrava spezzarla in due.

"Altari e templi, alti gli uomini innalzarono, focolari accesero, crearono ricchezze, tenaglie fabbricarono, ingegnarono utensili. Nel cortile giocavano, non sentivano affatto mancanza d’oro."

Non volevano l’oro? Volevano soltanto… studiare, capire, mettere in pratica le loro capacità, ampliare i confini della conoscenza. Volevano soltanto… crescere? Balbettò Emera, sollevando la testa, mentre le fitte sembravano alleggerirsi un po’.

"Hai capito adesso, madre?" –Parlò una voce dal profondo del suo animo. –"Il Tenebroso non la prese bene, non approvava tutto quell’interesse per la scienza e per la vita felice che gli uomini stavano cercando di realizzare. Loro voleva che lo adorassero o, meglio ancora, che lo temessero. Così iniziò a bisbigliare agli orecchi del Caos, e Nyx fece altrettanto. Loro, loro per primi, ruppero il principio dell’equilibrio, perché volevano potere, perché volevano che l’oscurità dominasse. Ed erano certi di poter trovare negli uomini inconsapevoli alleati."

"Ma certo! Caos vide nel progresso un tentativo degli uomini di detronizzarlo, di disconoscere tutto quel che aveva fatto per loro, regalando loro un mondo."

La voce annuì, continuando a raccontare.

"Così strinse il laccio, imponendo leggi liberticide, pretendendo omaggi, tributi e sacrifici, espandendo le sue braccia di tenebra sì da avvolgere il pianeta nella sua stretta e niente, nulla e nessuno potevano fuggirli. Chi ci provava, chi anche solo ardiva obiettare o uscire dal sentiero tracciato dagli Dei, veniva annientato."

"Ma qualcuno ci riuscì!" –Disse Emera. –"I Sette!"

"Ci riuscirono perché qualcuno glielo permise. Qualcuno di dolce e generoso, qualcuno che aveva imparato ad ammirare l’umanità, ad ammirarne le caratteristiche che la rendevano unica e inimitabile: la sua sete di conoscenza continua, la sua tendenza all’errore, ma anche al miglioramento, il suo desiderio di vivere intensamente. Qualcuno che a sua volta era amato e adorato dagli uomini che ovunque, in tutte le culture, veneravano la Grande Dea Madre. Così, per porre fine alle ambizioni di Caos, Ella li nascose nella luce, dove gli occhi di Erebo e Nyx non potevano arrivare, e là i Sette lavorarono alacremente per generare i manufatti che impugnarono contro Caos. I Talismani delle Stelle, che riunivano in sé le forze della natura."

"Ella?" –Mormorò Emera, iniziando a capire. Ma la voce proseguì.

"Quando i Talismani furono forgiati, Ella li condusse sulla cima di un colle, dove sollevò un tempio di pietra lucida attorno a loro, su cui il sole, riflettendosi, li avrebbe schermati. E là li benedisse, piangendo e temendo per il loro destino, per il destino di tutti gli uomini. Fu quel giorno che, per la prima volta, la chiamarono col nome che le compete, e con cui ti chiamo tutt’ora, madre."

"Madre…" –Disse Emera, non riuscendo a trattenere le lacrime. Né i ricordi, che adesso, grazie al Fantasma Diabolico di un Cavaliere andato oltre il nono senso, erano liberi di tornarle. –"Caos… lui ci percepì in quel momento esatto. Un fulmine nero si schiantò sulla cima del colle, distruggendo il tempio e lasciando soltanto alcuni pezzi di roccia, reliquie che i druidi e i sacerdoti di Avalon avrebbero adorato per secoli. Quel giorno iniziò la Prima Guerra."

"E tu scegliesti dove stare. Tu, invero, la iniziasti!" –Concluse la voce, che adesso Emera riconobbe. –"Sei pronta, adesso, a compiere la stessa scelta?"

Per qualche secondo nessuno parlò, il silenzio regnò sovrano nella dimora della Signora del Giorno, poi, lentamente, Emera si rimise in piedi, pulendosi le lacrime dagli occhi e scuotendo i vestiti bruciacchiati e impolverati. A passo lento si avvicinò alle ampie finestre, guardando fuori, ma ovunque ponesse lo sguardo il panorama era lo stesso.

Guerra, sangue e morte. E, su tutto, una tenebra imperante, una tenebra così fitta che persino lei fece fatica a penetrarla, chiedendosi se vi fosse ancora qualcosa oltre. Il sole, le stelle, il cielo più alto, da cui lei e Etere avevano lasciato cadere gocce di luce sulla Terra, per rinfrancare l’animo degli uomini e ricordare loro di camminare a testa alta, senza temere l’oscurità.

Etere? Si scosse, chiedendosi dove fosse suo fratello. Tese i sensi e lo sentì, impegnato in lotta di fronte alla Porta della Luce. Senza esitare, si avviò fuori dalle sue stanze, bisognosa di parlare con lui quanto prima. Era possibile, infatti, che anch’egli avesse ricordato o, se non l’aveva fatto, poteva sempre aiutarlo a ritrovare quello che era. Suo fratello, Signore della Luce del Cielo. Suo fratello, l’Imperturbabile, e l’uccisore di Erebo.

"Vai da qualche parte?" –La gelida voce la raggiunse non appena mise piede fuori dalla stanza, risuonando dagli androni oscuri del corridoio. Voltandosi, ad Emera parve di vedere le tenebre allungarsi verso di lei, da ogni direzione, fino a toglierle ogni spazio di movimento, mozzandole il fiato e forzandola a un involontario passo indietro. E là, in mezzo a quelle tenebre, due occhi rossi si accesero all’improvviso, avvicinandosi famelici, mentre una potentissima forza invisibile la scagliava indietro, contro l’Altare del Giorno Dopo, distruggendolo.

A fatica, Emera tentò di risollevarsi, spazzando via i detriti e la polvere, ma un tacco metallico le premette sul seno, schiacciandola di nuovo nelle macerie.

"Ripeto la domanda." –Sibilò Erebo, la cui maschera entrò nel campo visivo della Dea. –"Vai da qualche parte?" –E affondò.