CAPITOLO TRENTACINQUESIMO: QUINTO INTERLUDIO.

LUCE.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: l’inizio del tempo cosmico.

Spazio: isola di Avalon.

Quando aprì gli occhi, era nella luce.

Non c’era altro attorno a lui, soltanto un’intensa luminescenza che, all’inizio, pensò rappresentasse il mondo, poi lentamente quel bagliore si attenuò e altre forme apparvero. C’erano delle grosse pietre grigie, alcune storte, altre dritte, piantate su un terreno erboso e pietre più piccole, forse sassi, che costellavano il suolo. Vi camminò sopra, nudo e scalzo, sentendo la freschezza di quella natura bagnata di rugiada e la ruvidità delle pietre, fino ad affacciarsi tra i monoliti, sfiorandone la superficie, e guardando giù.

Perché era in alto, o almeno così gli apparve quel colle solitario che si innalzava sopra un mare di nebbia, che sembrava fargli da cintura. Ma lui, senza neppure sforzare troppo gli occhi, quella cortina riuscì a penetrarla, vedendo l’isola che si apriva sotto di lui. I terrazzamenti, gli alberi di mele, piccole capanne di legno crollate, un pontile sulla riva di un lago, barche tirate in secca, barche rovesciate, barche che ancora vagavano sulle acque intrise di sangue. E corpi ovunque, di uomini e animali. Corpi che, guardandosi, non erano poi così diversi dal suo.

Eppure egli viveva mentre il resto del mondo, di quello che, risvegliatosi, gli parve il mondo, era sprofondato nel silenzio. Chi era dunque lui? Il portatore di quella distruzione? E perché si era salvato?

Le risposte le ebbe sfiorando una delle grandi rocce che, notò, cingevano la cima del colle. Chiuse gli occhi e, per un momento, gli sembrò di vedere un tempio ergersi sopra di lui, gli sembrò di vedere le pietre per quel che erano state, le mura di un santuario di luce che impavido sfidava il cielo. Ma tempo addietro (quanto? Non seppe dirselo, poiché era il Tempo Prima del Tempo, prima della sua nascita) quella costruzione era crollata e chi vi si era rifugiato costretto a combattere.

Vasteras. Questo era uno dei nomi che si accesero nella sua coscienza. Elmas, Antalya, Kloten. E poi Galen, Menara e Tegel. Dunque erano costoro i Sette che avevano lottato? Per cosa? Perché quella guerra?

"Per proteggere l’umanità, il suo diritto a scegliere e anche a sbagliare." –Parlò allora una voce alla sua coscienza. E quel suono gli strappò una fitta, piegandolo in due, così violento per essere il primo rumore udito in quel mondo immerso nel silenzio. Ma la voce non se ne curò, o forse neppure poteva sentire quel che provava, e continuò a parlare, raccontandogli quel che era accaduto, infondendo alla sua coscienza sempre nuove informazioni.

Gli disse chi era e cosa era, gli disse quel che era accaduto e perché era stato generato e soprattutto gli disse quel che avrebbe dovuto fare. La sua missione, scopo ultimo della sua esistenza. Ascoltando, e comprendendo, allora si rimise in piedi.

"Tutti viviamo per un motivo. Chi per splendere, chi per bruciare, chi per avvolgere il mondo nell’oscurità. Tu vivrai per preparare gli uomini al Secondo Avvento, poiché un giorno, che adesso ci sembra lontano ma poi, nell’enormità del presente in cui ti ritroverai a vivere, lento si avvicinerà, egli farà ritorno per reclamare quel che gli è stato portato via. Un mondo intero, da lui stesso creato. Proteggi quel mondo fino ad allora, figlio mio! Proteggilo e donagli la luce del tuo sapere!"

Figlio? Si chiese, guardandosi attorno e notando, per la prima volta, una strana costruzione sorgere al centro del prato. Un cerchio di pietre dentro al quale, affacciandosi, vide scorrere un liquido fresco; vi intinse le braccia e lo trovò freddo, ma anche pulito e corroborante. Ne prese un po’ tra le braccia e se lo versò in faccia, lasciando che lo svegliasse e che, al tempo stesso, gli desse tutte le conoscenze di cui aveva bisogno. Una in particolare.

Sbattendo gli occhi, vide, nel riflesso nell’acqua, le sue pupille brillare argentee, i suoi capelli di un colore simile, mossi dalla brezza che solleticava l’erba di quell’isola ricca di meleti. Di quell’isola in cui si era risvegliato e che, quindi, sarebbe diventata la sua casa, dandogli il suo nome e irrorandola col suo potere.

Potere che gli derivava dall’entità che l’aveva risvegliato e che proprio lì, tra le rovine di quel tempio, aveva incontrato la fine della sua esistenza, la fine del suo tempo cosmico. Eppure, di lei qualcosa rimaneva, uno sbuffo di luce, un riflesso nell’acqua del Pozzo Sacro che tentò di afferrare, per carpire fino all’ultimo segreto fosse stato in grado di dargli. E allora vide.

Caos l’oscuro, Caos il creatore dei mondi, Caos il divoratore, che tutto raccolse in sé, persino l’ombra e la luce. Vide sette uomini, così piccoli di fronte al Dio che aveva generato l’universo, ergersi a sfidarlo, e sette armi lampeggiare nelle loro mani, mentre le forze della natura si agitavano attorno a loro, in un tripudio di colori. Infine vide lei, giacere immobile sulla riva di un lago, una mano allungata verso l’acqua, il cosmo che scivolava lungo il suo corpo spezzato. Piangeva, la donna dai capelli di luce, forse per la sorte del fratello che non aveva potuto salvare e che era scomparso, oltre la soglia, assieme all’oscurità che aveva sfidato, o forse per le sorti di un mondo in cui non avrebbe potuto continuare a vivere. Sgorgava impetuoso il sangue da una ferita al ventre, dove la Signora della Notte l’aveva colpita, eppure ancora lei resisteva, conscia del suo ruolo. Così, con un ultimo grido selvaggio, lasciò che cinque spiriti luminosi le uscissero dal ventre insanguinato, cinque fiamme di diverso colore che fluttuarono di fronte a lei, nutrendosi del suo sangue divino.

Una luce bianca, una luce rossa, una terza verde, una quarta azzurra e un’ultima, tremolante, fiamma marrone che, per un momento, credette di vedersi tingere di nero. Una sfumatura leggera, in verità, forse dovuto al fatto che era uscita per ultima, ma sufficiente per sollevare una ruga di costernazione sul volto della Dea che poi, esaurita quell’ultima missione, sfiorì, svanendo.


"Madre…" –Mormorò infine, e quella fu la prima parola che pronunciò. –"Madre. Grazie. Per averci donato la vita, per aver sacrificato la tua affinché questo mondo potesse vivere, e gli uomini sapere e prepararsi. Noi, in questo, li aiuteremo!"

E in quel momento, attorno a lui, quattro fiamme sorsero dal suolo, assumendo forma umana, simile a quella da lui assunta. La prima, di un colore intenso come i raggi del sole, si mutò in un uomo alto e robusto, col petto villoso, che sbatté i pugni assieme, lasciando sfrigolare la propria incandescente energia. La seconda, invece, si affacciò timida, rivelando il volto di un ragazzo dagli occhi azzurri che, a ogni movimento, pareva generare vortici d’aria con cui solleticare, e a volte spegnere, le fiamme del fratello.

"Andrei. Alexer." –Li chiamò, ed entrambi si inginocchiarono. Poi volse lo sguardo verso la terza fiamma, di un colore verde acqua, da cui parve provenire un suono leggero, che gli ricordò i canti che aveva udito nei ricordi di sua madre, quando, assieme ai Sette, aveva forgiato i Talismani. Un lamento capace di trascendere il tempo. –"Asterios." –Gli disse, e anch’egli si inchinò.

Ultimo, infine, sorse dalla terra un giovane muscoloso, con mossi capelli neri e occhi che, guardandoli, parevano mutare colore, alternando il nero al rosso, ma non il rosso solare dell’aura di Andrei, un rosso più pericoloso, che gli rammentò il sangue che fluiva dal ventre della loro madre. Durò un attimo quel dubbio, ma ormai gli era rimasto nel cuore e là sarebbe rimasto, fisso, per tutto il tempo che sarebbe seguito.

Dubbio. Mormorò, prima di chiamarlo con quel nome.


"Anhar." –E anche suo fratello si inginocchiò.

Eccoli, gli Angeli, nati dal sangue di colei che aveva sfidato il suo stesso creatore per garantire un futuro agli uomini. Per lei avrebbero combattuto, per onorare la sua memoria. Di lei sarebbero stati i guerrieri, gli Arconti che avrebbero retto il mondo in attesa del suo ritorno. E, su tutti, lui li avrebbe guidati, lui, Avalon, il signore dell’isola delle mele, il Principe Supremo degli Angeli.

"Alzatevi, fratelli miei! Oggi nasciamo! Oggi inizia la nostra vita, oggi siamo l’Alfa! Un giorno, di questo tempo cosmico, saremo l’Omega!" –Ed espanse la propria aura argentea, invitando i fratelli a fare altrettanto.

Andrei bruciò il proprio cosmo scarlatto, rivestendosi di un’armatura rossastra che pareva richiamare i colori del sole. Nella mano destra lampeggiò uno spadone di pura fiamma che, con un impercettibile movimento del braccio, tagliò la cortina di nebbia attorno all’isola, aprendo un corridoio in cui ratto si infilò, spalancando le ali e lanciandosi alla scoperta del pianeta.

Alexer, al suo fianco, vorticò in un’aura azzurra, costellata da folgori e scintille, gocce di pioggia e cristalli di neve, che si solidificò su di lui, divenendo una corazza che quasi parve composta di ghiaccio. Una corazza in grado di riflettere gli umori del mondo. Nel suo palmo brillò un fulmine azzurro, prima che sollevasse il braccio e lo scagliasse in alto, verso il cielo profondo, spalancando le ali e inseguendolo.

Per terzo, Asterios espanse il cosmo, simile alle verdi acque sconfinate dell’oceano su cui il sole e il cielo si riflettevano, e venne rivestito dalla propria corazza. In mano strinse uno strumento con fili sottili che, pizzicandoli, produssero suoni dolci e bolle d’acqua, e tutt’attorno a lui una marea di energia acquatica ribollì, spingendolo in alto, cavalcando quell’onda di conoscenza che mai sarebbe venuta meno.

Ultimo, infine, Avalon spostò lo sguardo su Anhar, che, a differenza dei suoi fratelli, non aveva ancora bruciato il proprio cosmo. Unico, al contrario, a fissarlo incuriosito.

"Perché siamo nati, fratello?" –Gli chiese, e quelle furono le prime parole che pronunciò.

"Per adempiere a una missione. Difficile, estenuante, ma necessaria per garantire la sopravvivenza della Terra. Avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi, Anhar, per riuscire ad adempierla. Sarai al mio fianco?"

L’Angelo della Terra rimase a osservarlo per qualche istante, gli occhi che passavano dal rosso al nero, fino a stabilizzarsi in un colore scuro come la notte. Li abbassò, mentre il suo cosmo fiammeggiava attorno a sé, invadendo l’intera collina di Avalon, e si inchinò.

"Sempre." –Rispose.

Avalon gli andò incontro, lo abbracciò e sorrise.

"Sempre." –Ripeté, baciandolo in fronte e lasciando che la luce di Emera fluisse anche in lui, convinto che, più di ogni altro, ne avesse bisogno.

Vi fu una fiammata di cosmo e anche Anhar abbandonò l’Isola Sacra, andando alla scoperta del mondo e lasciando Avalon da solo. Come sarebbe stato, in cuor suo, fino alla fine del proprio tempo cosmico.

***

"Mio Signoreee!!!" –Gridò Ascanio, vedendo l’ombra immensa piombare sul suo maestro che, imperturbabile, si preparava ad affrontarla.

"Non avrò il mio impero, né sarò araldo dell’ombra! Ma tu, burattinaio di mondi, pagherai con la vita l’avermi umiliato una seconda volta!" –Esclamò Anhar, infiammando l’aria con vampe di fuoco nero, che circondarono Avalon, lambendo le sue lunghe vesti argentee. –"Ti ucciderò! E brucerò la tua carcassa sulla cima dell’Isola Sacra, assieme ai vetusti corpi dei druidi che mi rifiutarono!" –E nel dir questo piombò su di lui, in un turbine di fiamme nere.

Lo scontro tra le due potenti energie cosmiche produsse una deflagrazione che spinse tutti indietro di qualche metro, aprendo nuove faglie sul martoriato suolo dell’Isola delle Ombre. In quella il vulcano ricominciò a eruttare, in maniera più consistente, mentre lapilli incandescenti piovevano su Ascanio e sui Cavalieri di Atena, costringendo tutti alla fuga.

Ore più tardi, mentre i fumi del vulcano s’acquietavano e i combattenti vittoriosi curavano le ferite nelle loro dimore, una figura, d’argento vestita, camminava scalza lungo quel che rimaneva dell’isola. In parte era collassata, come Atlantide e Mu, in altre parti si era riempita d’acqua, allagando quel che d’ombroso giaceva nei suoi oscuri androni. Ne rimanevano soltanto scogli brulli e una sottile striscia di terra composta per lo più da rocce affioranti in cui nessun uomo avrebbe più messo piede. Ma egli, che un uomo non era, procedeva placido verso la fonte di quel lamento.

Un lamento che nessun orecchio umano (e forse nemmeno divino) avrebbe udito poiché parlava nella Prima Lingua, che soltanto in cinque potevano comprendere. E due erano lontani, e un terzo troppo distratto per udirlo.

"Mio signore, possente Anhar…" –Una donna, china su un cumulo d’ombra, stava mormorando qualcosa. –"Cosa posso fare? L’alchimia di Athanor, quella con cui ha imbrigliato Giasone della Colchide, forse potrebbe aiutarvi?"

"Mio fratello non ha bisogno dell’aiuto di nessuno al di fuori del mio!" –Parlò allora Avalon, affacciandosi tra le rocce e lasciando che la donna (che era una vecchia vestita di stracci) lo fissasse con sorpresa e sdegno, prima di riconoscerlo e dare voce alla propria rabbia. Così, anziché temerlo, si lanciò su di lui, avvolta in un gelido cosmo, non suscitando altra reazione, nel Principe degli Angeli, se non un banalissimo movimento del braccio, con cui la scaraventò via, facendole descrivere una parabola nel cielo del Mediterraneo orientale. –"Insolente. Come la tua antenata." –Commentò, riprendendo ad avanzare.

"Dove l’hai spedita?" –Gli chiese Anhar.

"Sbuff, che importanza ha? Davvero credevi di farne la nuova Cailleach? Potrà al massimo lanciare qualche fulmine e vomitare un po’ di vento da quella sua deforme bocca ma controllare le potenze della natura è obiettivo per lei irraggiungibile."

"Un discorso che vale per molti."

A quelle parole Avalon annuì, chinandosi sul fratello che giaceva nella polvere.

Distrutto nel corpo dall’attacco congiunto dei Cavalieri di Atena, di Anhar (o Flegias, come si faceva chiamare in Grecia da qualche decennio) era rimasta soltanto l’ombra a cui, grazie ai suoi immensi poteri, era riuscito a dare una forma vagamente umana. Avalon sapeva perché; era piuttosto ovvio, in verità. Erano Angeli, figli della Signora del Giorno, discendenti diretti del Generatore dei Mondi, e certo non bastava il benché-molto-potente attacco di un gruppo di Cavalieri che a malapena aveva raggiunto l’Ottavo Senso. Oh no, se volevano avere qualche speranza, di vincere un Angelo o chi stava sopra di loro, sarebbero dovuti andare oltre. Qualcuno, in verità, pur senza accorgersene, lo stava persino facendo e Avalon non dubitava che presto avrebbe padroneggiato il Nono Senso e forse, in tal caso, qualche speranza in più l’avrebbero avuta.

Ma se Anhar fosse morto, a cosa sarebbe servito?

No, si disse, afferrando il volto d’ombra di suo fratello e abbassandosi fino a sfiorargli la fronte con le labbra, come già aveva fatto quel lontano giorno perso negli abissi del tempo in cui si erano risvegliati. Anhar non deve morire! E fiatò, dentro di lui, una scintilla della luce di Emera. Un’altra.

Subito la nera evanescenza sussultò, riacquistando, per una frazione di secondo (così breve di fronte all’interminabile presente in cui avevano vissuto), l’aspetto del suo fratello, del fratello che aveva amato di più per tutto quel tempo. E che non era riuscito a salvare.

Sospirando, Avalon si rialzò, guardandosi attorno, quasi temendo che Andrei o Alexer potessero spuntare da dietro le rocce, per chiedergli spiegazioni. Ma tutto era quieto e si disse certo che il Signore del Fuoco fosse tornato a Isla del Sol, a insegnare a Jonathan o magari a trovare il coraggio per dirgli di essere suo padre, mentre il Principe della Valle di Cristallo (come lo conoscevano gli abitanti di Asgard) avrebbe fatto visita a Cristal e alla Regina di Polaris, rinsaldando vecchi legami che presto sarebbero stati messi a dura prova.

Aveva già visto, nelle acque del Pozzo Sacro, i Giganti di Fuoco uscire da Muspellheimr e marciare su Bifrost e il giorno in cui il Ponte Arcobaleno si sarebbe schiantato, producendo un rumore tale da essere udibile in tutti i mondi divini. Così forse quegli indolenti e pigri Dei si sarebbero resi conto di quanto le sue parole non erano vuote leggende ma minacce concrete.

Un rantolo gli fece abbassare lo sguardo su Anhar, che sbatteva le lunghe ciglia nere, faticando a riordinare i ricordi (i troppi secoli di ricordi da cui chiunque sarebbe stato sopraffatto), e forse faticando anche a credere a quanto appena avvenuto.

"Perché?"

"Sii più chiaro!" –Gli disse, con voce atona.

"Perché mi hai salvato? Potevi lasciarmi morire e mi sarei disperso al vento, smarrendo la mia coscienza…"

"Dunque questa dovrebbe essere la fine di un Angelo? Io non credo. Siamo guerrieri, Anhar, non erbe da gettare in un braciere. Lo hai dimenticato? Hai dimenticato perché siamo nati? Per combattere e vincere l’ultima guerra?"

"Umpf! E tu hai dimenticato che ho abiurato al tuo progetto suicida secoli addietro? Se sei qua per tentare un altro approccio, per recuperare la mia coscienza malata e farne un altro tuo umile leccapiedi, potevi lasciarmi morire. E, se tu fossi un grande tessitore, lo avresti fatto, così forse non ti avrei più ostacolato. Invece così…" –Sibilò Anhar, muovendosi per rialzarsi, ma bastò che Avalon gli poggiasse un piede sul petto (o, quantomeno, dove in quella sagoma d’ombra doveva trovarsi il petto) per piantarlo di nuovo al suolo, sommerso da un rigurgito di luce che lo fece strillare.

"Invece così servirai allo scopo. Tutti ne abbiamo uno, Anhar, e forse nostra madre ne aveva uno anche per te."

"Nostra madre? Dunque tu sai chi ci ha generato? Parla, Avalon! Perché non ne hai mai fatto menzione con gli altri?"

"Avresti potuto capirlo anche tu, se tu avessi usato la Vista per guardare indietro." –Continuò il Signore dell’Isola Sacra, imperturbabile. –"Invece, mosso da una delirante frenesia di possesso e trionfo, hai sempre rivolto avanti il tuo sguardo, senza comprendere che la vera conoscenza sta nell’osservare i flussi, considerando il tempo un unico immenso presente. È così, del resto, che Caos lo considera, un qui e ora, nient’altro."

"Sei ardito nel parlare. Scommetto che informazioni simili non le hai mai rivelate agli altri tuoi galoppini…"

"Non ce n’è mai stato bisogno. Andrei, Alexer, persino Asterios, sanno dove stare. Tu, invece, non l’hai mai capito, sempre irrequieto, sempre in cerca di nuove verità, incapace di vivere con quelle che già possiedi. Pensavo che ti avrebbe illuminato ricevere la luce di Emera, invece ti ha soltanto confuso, dandoti motivo di pensare che contro Caos non vi è speranza e che, anziché tenerli segreti, e addestrare coloro che li portano, fosse nostra ragione d’essere impiegare i Talismani, e magari offrirglieli in dono. Non è così, Anhar? Tutto quello che hai fatto, negli ultimi tremila anni, lo hai fatto soltanto perché hai paura! Perché hai visto, nei ricordi di nostra madre, quello che accadde durante la Prima Guerra e ne sei inorridito. Tu, un Arconte guerriero, inorridito da un potere più grande di te!"

"Tu non lo sei? Avalon, non so a quale perverso gioco tu stia giocando, ma ti giuro che io ti ucciderò!"

"E su cosa vorresti giurare? Cosa reputi così sacro e giusto da meritare di essere la pietra miliare di un giuramento che presto romperai, come hai rotto i tuoi patti con Seth, Apopi, Crono e Ares? A questo proposito, quel poveraccio di Loki sa cosa hai in mente? Con una mano gli aprirai la strada per il Valhalla ma non gli hai detto che Asgard non sarà mai sua, perché con l’altra la brucerai."

"Tu? Come sai?" –Avvampò Anhar.

"So perché ho visto, facendo buon uso di un dono che concessi anche a te. Un dono che, mi rendo conto, non hai mai saputo sfruttare. Chissà, forse un giorno, quando rivedremo nostra madre, ella mi punirà per non averti saputo guidare nella luce. Oppure…"

"Oppure cosa?"

"Oppure la tua presenza destabilizzante, il tuo rimanere in bilico tra vita e morte, luce e ombra, natura e distruzione, faceva parte del suo piano? Voglio credere che sia così! Per questo ti ho salvato. Ma né tu né io ricorderemo niente di questo momento. Addio, fratello. Se mai dovessi tornare a cercarmi, io ti combatterò!" –E, tramite la gamba con cui lo stava bloccando, Avalon lo irrorò di luce.

"Avalon, no, aspetta! Io…" –Ma la luce lo inghiottì, e anche il Principe degli Angeli ne fu travolto, scivolando fuori dalle pieghe del tempo e dello spazio. Quando rinvenne, era di nuovo nella sua dimora, sulla cima del colle di mele da cui dirigeva il gran concerto del mondo.

Scosse la testa, stordito, ritenendo di essersi addormentato. Di certo il confronto con Anhar sull’Isola delle Ombre lo aveva stancato, soprattutto quell’ultimo attacco, quando, in forma d’ombra, aveva cercato di fagocitarlo, di fronte agli occhi sconvolti di Ascanio e dei Cavalieri di Atena.

Ascanio. Mormorò, sorridendo al pensiero del valoroso Comandante dei Cavalieri delle Stelle che aveva raggiunto vette che gli altri suoi parigrado non avevano neppure sfiorato. Tranne Febo, quello era ovvio; lui era il figlio di un Dio, per quanto a volte non sembrasse esserne troppo consapevole.

Chiamò un servitore e gli ordinò di preparargli un bagno, e poi mandò a chiamare il Primo Saggio. C’erano un paio di cose di cui doveva parlare con lui. Uno spiffero freddo lo portò a stringersi nelle sue vesti, uno spiffero che veniva da nord e che di certo anticipava l’avvento dell’inverno.

***

"Andate via, Cavalieri di Atena! Vi prego! Se moriste voi, morirebbe la speranza! Voi siete il futuro per le genti libere di tutto il mondo! Voi siete coloro che tutti attendono, quando pregano qualunque Dio possa salvarli e dare un senso alle loro esistenze! Voi siete il domani! Addio, giovani Cavalieri, e grazie per avermi regalato un sogno per cui vivere!" –Sorrise il Signore dell’Isola Sacra, prima di lasciar esplodere tutto il suo cosmo in una nebulosa di luce.

La detonazione non fermò Caos, che anzi di quella luce si nutrì, ma permise ad Avalon, per un momento, uno soltanto, di nascondere la sua presenza.

Così, privo del corpo (che Caos stava fagocitando alle sue spalle), privo della sua armatura, che ormai non avrebbe più indossato, e privo di molti suoi poteri, ricordi e certezze, fluttuò nel vuoto che separa i mondi, certo che nessuno, laggiù, sarebbe mai venuto a cercarlo. Chi mai sarebbe stato, del resto, così sciocco da camminare sul ciglio di un varco che avrebbe potuto chiudersi all’improvviso? Di certo non Caos, né i Progenitori, che avevano atteso fino ad allora che la configurazione astrale si ricreasse per uscirne.

Ma Avalon, che le stelle aveva a lungo studiato, ben sapeva quanto sarebbe durata quella configurazione. Così la sfruttò, per nascondere la sua presenza e per guardare il mondo da lontano, da così lontano che mai avrebbe pensato di arrivarci. Eppure tempi estremi richiedono misure estreme; così gli aveva detto una volta l’uomo che gli aveva insegnato a usare il cosmo per combattere, mettendolo al corrente di tanti piccoli segreti e rimedi naturali di cui la sua coscienza era priva.

Sua madre, del resto, non aveva avuto modo di insegnargli alcunché, infondendogli soltanto i rudimenti necessari per lo svolgimento della sua missione. Magari, durante il loro incontro, avrebbe anche potuto chiederle cosa avrebbe fatto di lui, di tutti loro cinque, se avesse potuto crescerli con calma e affetto. Chissà come Anhar sarebbe diventato, se avesse avuto l’amore di qualcuno? Lui, nel suo piccolo, ci aveva provato a capirlo, ma non era riuscito a vincere l’invidia, l’odio e la paura in cui il suo cuore era affogato.

Eppure Anhar non è perso! Si disse Avalon, certo che, alla fine, anch’egli avrebbe avuto ancora un ruolo da giocare. Lui, invece, adesso doveva trovare sua madre. Così scandagliò il mondo dall’alto, vagando di luogo in luogo, scivolando tra una marea di sentimenti confusi, cosmi deboli e baluginanti e regni divini sull’orlo del collasso, finché non la trovò, seguendo la scia di dubbio che si lasciava alle spalle.

Aveva provato ad avvicinarla al Santuario di Atena, sperando che, nella miriade di scontri e cosmi ardenti, nessuno lo notasse, ma lei non sembrava riconoscerlo. Lei sembrava non ricordare. Forse nell’intermundi Caos o Erebo le avevano alterato i ricordi, o semplicemente, troppo stanca e debole, era stata sovrastata dall’oscurità che invece mai calava, fomentata dall’odio e dal male che gli uomini non accennavano a smettere, neppure a rischio di distruggersi a vicenda.

A volte, nel corso di quei millenni di guardia, Avalon si era chiesto se gli uomini non meritassero davvero l’estinzione che Caos aveva promesso loro, ma poi, anche nei momenti di sconforto (perché sì, c’erano, sebbene di rado ne parlasse), pensava a sua madre, alla vita che aveva loro donato affinché divenissero i custodi del mondo, di quel mondo per cui lei riteneva valesse la pena combattere, e morire. Così era andato avanti e adesso, forte di quella determinazione, avrebbe ricordato anche a lei chi era.

Non (soltanto) uno dei Progenitori, bensì Emera, la Signora del Giorno, il contraltare perfetto della Notte, sorella e sposa di Etere, Signore della Luce e uccisore di Erebo.

Quando la trovò, chiusa nelle sue stanze nel Primo Santuario, le forze dell’Alleanza si erano appena radunate all’esterno, marciando verso ciascuna delle quattro porte da cui si accedeva alla struttura. Un attacco di certo pianificato da Andrei, che non lasciava mai nulla al caso.

Sorridendo, Avalon pensò che neppure il fratello avrebbe potuto prevedere la sua (sia pur debole, fatua e svanente) presenza. Così abbandonò il varco tra i mondi, prima che la cappa di tenebre avvolgesse l’intero pianeta, e fluttuò verso Emera, raggiungendola mentre stava sollevando il velo di luce che avrebbe riparato l’ingresso da lei difeso. Non fu facile, ma riuscì, progressivamente, a risvegliare la sua coscienza, la stessa da cui anche lui era stato partorito.

E allora sorrisero entrambi, ritrovandosi, stretti in un abbraccio immateriale ma uniti da una sola certezza. La loro missione non era ancora finita.

In quel momento Erebo attaccò Emera, sbattendola a terra, e poi infilzò Etere, nutrendosi della sua energia. Una prospettiva terribile e raccapricciante a cui nessuno aveva mai prestato orecchio. Vedendo la carcassa priva di vita del Signore del Cielo più Alto, vedendolo tramite gli occhi della sorella, intrisi di lacrime, Avalon rabbrividì, pensando che se fosse accaduto a lei, tutti i loro piani sarebbero falliti.

Così, con gentilezza, la invitò ad alzarsi, allontanandosi dalla Corte della Luce, che presto sarebbe stata invasa dalle forze dell’Alleanza, e a scendere negli androni del Primo Santuario. C’era ancora qualcosa che poteva fare, con le ultime energie che le rimanevano, qualcosa che Avalon non smise di sussurrarle all’orecchio durante il tragitto, finché la sua voce, di per sé già molto debole, non si ridusse a un flebile sussurro, sormontato e vinto dalle grida e dai rumori di guerra che risuonavano tutt’attorno al complesso templare. Un sussurro che infine scomparve.

Accasciandosi sulle ginocchia sbucciate, per la perdita del primo e più amato figlio, Emera singhiozzò, soltanto per rendersi conto, all’udire i passi metallici avvicinarsi, che era proprio dove voleva andare.

Alzando lo sguardo triste e bagnato di lacrime, vide Caos torreggiare sopra di lei.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: la fine del tempo cosmico.

Spazio: Primo Santuario.

Fine.