CAPITOLO IV

 

Ci sono silenzi che

costruiscono enormi castelli,

nelle nostre anime scosse,

e noi raccogliamo in essi

bauli di parole, di emozioni…

Carlo Bramanti

 

"E voglio giocare a nascondino e darti i miei vestiti […] e darti nastri che non ascolti e guardare film bellissimi e guardare film orribili e lamentarmi della radio e fotografarti mentre dormi e svegliarmi per portarti caffè brioches e ciambelle e andare da Florent a bere caffè a mezzanotte […] e sedermi sulle scale finché tu non torni a casa e preoccuparmi se fai tardi e meravigliarmi se fai presto e portarti girasoli […] e essere mortificato quando sbaglio e felice quando mi perdoni e guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta […] e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male […] e sciogliermi quando mi sorridi e dissolvermi quando ridi […]e raccontarti dell’angelo dell’albero il bambino della foresta incantata che attraversò volando gli oceani per amor tuo […] e raccontarti il peggio di me e cercare di darti il meglio perché è questo che ti meriti…".

Chiudo il libro con un gesto stanco e lo getto sul sedile accanto al mio. Il segnalibro scivola fuori e io sbuffo, pensando che dovrò rileggere tutto prima di ritrovare il punto in cui mi sono fermato.

Se non fosse perché ormai ho accettato l’incarico di tradurlo, non lo riprenderei più in mano. Maledetto libro! Lo detesto.

Non perché lo devo tradurre; questo è un problema praticamente inesistente. Il motivo per cui proprio non lo sopporto sfiora l’assurdo. O forse lo è davvero. Lo detesto perché mi piace. Perché lo trovo vero. Autentico.

Soprattutto queste ultime frasi. È come se fosse stato scritto per me. Come se riuscisse a leggermi dentro.

Un pensiero ormai abusato. Trito e ritrito. Ma a costo di sembrare banale, perfino sciatto, questa è la mia impressione. E di quello che ne pensano gli altri non m’importa nulla.

Lo odio. Punto.

Perché mi sembrano le battute di un film mai girato. Quello di una vita. La mia.

Perché è tutto quello che avrei voluto provare con lei, in questi dieci anni. È l’elenco di tutte le emozioni mancate; che ci sono state rubate.

Riprendo il libro e lo rigiro fra le mani. È un edizione economica, ma ha una bella copertina. Bianca. Bianca con una foto in bianco e nero di una donna. Sorride.

E io ho l’impressione che si prenda gioco di me; che rida di me. Come se sapesse qualcosa che io non so.

Quel sorriso mi fa infuriare. Perché mi schiaffeggia in faccia ogni volta la realtà. E ogni volta fa male. Maledettamente male. Perché significa che sono sempre al punto di partenza.

Posso fingere di dimenticarla , ignorare la nostalgia, cancellare i ricordi, ma alla fine…Alla fine, sono solo un debole, perché lei è sempre presente nella mia mente…e io non ho la forza per cacciarla via, per cancellarla…Non lo voglio neanche fare, in fondo.

D’accordo. Sono uno smidollato. Posso accettarlo. Posso accettare di non riuscire ad affrontare questa questione di petto. Con il mio solito cinismo e menefreghismo. Però è difficile.

Mi abbandono sul sedile. A volte vorrei riuscire a non pensare. Chiudere gli occhi e non vedere nulla, non sentire nulla. Solo silenzio. Dormire…Vorrei dormire. Avrei voglia di sprofondare nell’incoscienza dei sogni. Ma ormai anche quello è un lusso che mi posso concedere di rado.

Getto un’occhiata al mio bagaglio, sopra la mia testa. Potrei prendere un paio di sonniferi. Per riposare un po’. Un paio d’ore; giusto il tempo per scollegare il cervello e non pensare a nulla.

Abbasso la testa e l’appoggio al finestrino. Stupidaggini. Perché anche dormendo non cambierebbe nulla. E lei sarebbe sempre lì, ad aspettarmi.

Guardo di nuovo il libro. Lo odio sempre di più. Dieci anni…Quanto sono lunghi dieci anni? A volte mi sembrano trascorsi secoli, a volte solo pochi minuti. E la sua risata è qui, impressa nella mia memoria. Come se la sentissi adesso. Come se stesse ridendo adesso.

È il ricordo più bello che ho. Lei che sorride, e la sua risata che si mescola al suono del mare.

Sorrido. Un sorriso triste, tirato. Una smorfia. No; non la voglio dimenticare. Anche se ricordarla fa male. Dannatamente male. Ma preferisco rifugiarmi in un ricordo, piuttosto che affrontare la realtà.

Non ne ho la forza, per affrontarla. E neanche lo voglio. Fuggire è uno sbaglio. Lo so bene. Non si risolve nulla. È solo una soluzione di comodo. Per chi non sa cosa decidere. E io odio chi tergiversa. Mi odio.

Perché non mi sento capace né di affrontare né di ignorare questa situazione. Lei era troppo importante. E io non voglio tradirla.

Ti guardo, raggomitolata sul tuo sedile, di fronte a me. Ti sei coperta con la giacca. La mia giacca. Per non prendere freddo. C’è il riscaldamento, in questo vagone. Ma anche tanta umidità. Ti lascia una sensazione di appiccicoso sulla pelle. Una sensazione orribile.

Mi passo una mano nei capelli, per ravvivarli. Avrei voglia di una doccia bollente. Doccia e un bicchiere di vino caldo. Per scaldarsi bene, e sciogliere questa umidità che ti penetra fin nelle ossa. Sono ore che siamo su questo treno. E io inizio a spazientirmi. Non sono abituato all’immobilità forzata. Per questo non prendo mai il treno. Non mi piace. È come se ti lasciassi trasportare. Come l’onda fa col mare. E io non sono abituato a farlo. A lasciarmi andare.

Passi una mano sul vetro, liberandolo dalla condensa. Fuori è buio. Un’oscurità avvolgente. Null’altro. Solo tu ed io. Su un treno in corsa.

Hai lo sguardo triste. Ultimamente te la vedo spesso quell’espressione. E ho anche imparato che cosa significhi. Sei assorta in un mondo tutto tuo, impenetrabile. Mi domando quali fantasmi stai rincorrendo. Perché è questo quello che stai facendo adesso. Stai vagando lontana, su sentieri che tu sola conosci.

Scuoto la testa. La tue mente non è qui; e io non conosco i tuoi pensieri. Questo è certo. Ma so cosa vuol dire parlare con se stessi. È una condizione che non mi è estranea. Ti proietti in un luogo di totale sospensione. Non esiste altro. Solo tu e le tue emozioni. E ti fanno male. Perché è come girare il coltello nella piaga. Però, non ti vuoi allontanare. Hai paura di tradire qualcosa se lo fai. Di tradire qualcuno.

Ti mordi il labbro inferiore. È una cosa che ti ho sempre visto fare. Fin da piccola. Quando non volevi piangere. Quando volevi mostrarti forte. Anche se di forza in quei momenti non ne avevi poi molta. Perché vuoi mostrarti fredda e controllata. Anche se dentro è come se ti si agitasse un mare in tempesta.

Non vuoi piangere. Neanche adesso. Sai che non sopporto le lacrime. Forse perché mi ricordano quelle che ho visto quel giorno nei suoi occhi. Quelle che ho versato per lei.

Ti raggomitoli di più, tuffando il volto fra le ginocchia. Non me le vuoi far vedere, le tue lacrime. Perché sai che se le vedo, me ne andrò.

Però, non ce la faccio. Non riesco a far finta di niente. Allungo una mano verso di te. È una situazione assurda. Lo so bene. Non mi dovrebbe importare nulla. Era nei patti. Niente domande. Niente risposte. Eppure adesso vorrei sapere perché sei così triste.

Fermo la mano a poca distanza dai tuoi capelli. Indifferente… Dovrei restare indifferente. Perché io per primo so quanto può essere ipocrita la compassione. E io non voglio essere ipocrita. Non in questo momento. Non adesso. Non con te.

Faccio un respiro profondo e ti sfioro con una carezza. Sto tremando. Ridicolo! Sento brividi per tutto il corpo. Come quando ero con lei, e le mostre mani si sfioravano. Le stesse sensazione. Pensavo di averle dimenticate… Spero solo che tu non te ne accorga. Perché non lo potrei sopportare.

Perché non riesco ad accettare quel senso di disagio che mi prende allo stomaco ogni volta che ci incrociamo con lo sguardo, che ci sfioriamo. Ogni volta che le tue braccia si stringono a me, mentre corriamo nel vento.

Di colpo, mi accorgo che tu mi stai osservando, attraverso il velo dei tuoi capelli. E che io ti sono venuto vicino. Molto vicino. Troppo.

Ritiro la mano e mi alzo da terra. Chissà poi come ci sono finito inginocchiato a terra, davanti a te. Non me ne sono neanche accorto. Ero come ipnotizzato dal tuo respiro. Dal tuo profumo. È buono, quel profumo. Fresco, e delicato. Inebriante.

Mi impongo la calma. Non voglio che tu capisca. Non devi capire niente. Devi ignorare tutto. E anch’io. Devo farlo anch’io. Liberarmi dalla malia del tuo sguardo. Del tuo profumo. Del tuo respiro. Perché mi fa paura. Perché ne ho paura.

Afferro la mia giacca e inizio a frugare nelle tasche. In realtà, non sto cercando nulla. Solo, non voglio incrociare i tuoi occhi. Devi smetterla di guardarmi. Non lo sopporto. Non lo accetto.

Mi ritrovo in mano il mio accendino e un pacchetto mezzo vuoto di sigarette. Perfetto! La mia salvezza. Qui non si può fumare; devo per forza uscire. Scusa pronta.

Una scusa… devo essere impazzito. Da quando ho bisogno di giustificare quello che faccio? Io non devo render conto a nessuno. Tanto meno a te. Eppure, la prima cosa che mi è passata per la testa è stato cercare un motivo che mi permettesse di allontanarmi senza farti sentire in colpa.

Come se mi importasse dei tuoi sensi di colpa. Ho già i miei fantasmi con cui convivere. L’ultima cosa che voglio è dovermi preoccupare di quelli altrui.

Getto un’occhiata al libro sul sedile. Il copione di un film mai girato. Quello di una vita. La mia.

Dieci anni trascorsi nel suo ricordo. Lei che ride nella mia mente; tu che piangi davanti ai miei occhi. E io…io che…

Basta! Sto impazzendo. Ho bisogno di aria. Tutto questo è assurdo. Patetico. Neanche la più scadente telenovelas cade così in basso. E il ridicolo è che la colpa è mia. Perché sono io che mi sto facendo coinvolgere. Dopo che avevo messo in chiaro che era solo un passaggio. Un lungo passaggio, va bene. Ma solo quello. E tu non mi hai mai chiesto nulla.

Mi infilo la giacca con un gesto esasperato. Ho troppi pensieri in testa. Troppa confusione. Devo fermarmi.

Afferro accendino e sigarette ed esco. Ti sto lasciando sola…io…non riesco a vederti piangere…Per questo, ti lascio sola…solo, per lasciarti piangere…solo per questo…

 

 

Stupido.

Ecco cosa sono. Uno stupido. Che ha paura delle lacrime di una donna. Che ha paura di farsi coinvolgere.

Maledizione! Sembra che tu lo faccia apposta. Come se conoscessi i miei punti deboli. E sai bene che odio le lacrime. Perché riescono a piegarmi. Soprattutto le lacrime di una donna.

Abbasso il finestrino, e lascio che entri l’aria, assieme ad una pioggerellina fine fine, quasi invisibile. Ho bisogno di aria. Anche di quest’aria nauseabonda, impregnata dell’odore di carburante bruciato. Non m’importa.

Prendo una sigaretta dal pacchetto. Ce ne sono dentro davvero poche. Tre-quattro appena. Mi chiedo quando le ho comprate. E dove. E soprattutto perché.

Non sono un fumatore incallito. Tanto che non ricordavo più neanche di averlo, questo pacchetto. Ad esser sincero, non ho ancora capito se fumare mi piaccia oppure no. Mi rilassa. Ecco tutto. Anche se è un rimedio cui ricorro molto di rado. Con buona pace di mio fratello, che preferirebbe che almeno in quelle situazioni lo chiamassi, fossero anche le tre di notte.

Scrollo le spalle, mentre cerco di ricordare in quale tasca ho infilato l’accendino. Parlare è una delle cose che mi riescono più difficili. E lui lo sa bene. E non ne è entusiasta. E in fondo, anch’io ogni tanto vorrei riuscire a farmi capire veramente. Senza perifrasi. Senza fraintendimenti. Ma non riesco a esprimermi come vorrei. Forse, se mi impegnassi un po’ ce la potrei fare. Ma è difficile. Perché sarebbe come ammettere di essere deboli. E io non voglio sembra debole. Non me lo posso permettere.

E allora, è meglio se in quelle situazioni in cui raggiungo davvero il limite mi accendo una sigaretta, che farà pure tanto male ai polmoni, ma fa tanto bene ai miei nervi. Infatti, basta la prima boccata, che subito sento una sensazione di sottile benessere, come quando si nuota in piscina o ci si sdraia al sole. Durerà anche solo quattro o cinque minuti, il tempo per la sigaretta di arrivare a due millimetri dal filtro, ma buttala via una sensazione del genere!

Ho trovato l’accendino, finalmente. Lo faccio scattare, e la fiammella si contorce per un istante nell’aria fredda. Basta poco per far sparire una fiamma. Ancora meno un’illusione.

Non mi piacciono molto gli accendini. Preferisco i fiammiferi. Anche se sono più scomodi. Ma mi piace l’odore del legno che brucia. In mancanza di meglio, comunque, vada per l’accendino.

Giro le spalle al finestrino e accendo la sigaretta, appoggiandomi alla parete del vagone. Faccio un tiro lungo, gustando il sapore forte e amaro del tabacco. Un sapore che trovo molto piacevole. Dopo tanto tempo. Mi dà una sensazione di calore, che scende in gola e nei polmoni, bruciando e pizzicando.

Non tossisco, però. È una sensazione che conosco. Anche se è passato del tempo dall’ultima volta. Ma non importa. In questo momento, non importa nulla.

Osservo con aria assente il fumo che si arriccia in curiosi arabeschi azzurrognoli prima di dissolversi in una nebbiolina leggera. Socchiudo gli occhi e non penso a nulla. O almeno ci provo.

Ma continuo ad avere davanti agli occhi quel tuo sguardo…come definirlo?...triste, disperato…forse rassegnato…No; decisamente non riesco a inquadrarlo. L’unica cosa che so è che non ti è mai appartenuto. Questo lo so per certo.

Perché è uno sguardo che conosco bene. Molto bene. Perché l’ho visto migliaia di volte su di una persona. L’ho visto molte volte. Su di me. Anche se vorrei sbagliarmi. Perché è lo specchio di sensazioni che si rincorrono, annodandosi fra la gola e lo stomaco. Sensazioni che non si vuole definire. Perché fa male, farlo. Maledettamente male.

Una luce di pietra invade il vagone. L’alba. La osservo attraverso una nebbia lattiginosa; laggiù in fondo c’è l’oceano, col suo grigio orizzonte increspato.

Un sorriso mi increspa le labbra, anche se assomiglia di più ad una smorfia. Per un attimo, mi sono ricordato lo scintillio che ho visto nei tuoi occhi quel giorno che ti ho mostrato l’aurora d’Irlanda, mentre eravamo sospesi su una scogliera su onde possenti, col vento freddo della brughiera che ci avvolgeva.

In quel momento, il tuo sguardo era il suo, e io ho sentito una stretta al cuore. Qualcosa di struggente, di malinconico. In quel momento, ho capito davvero ciò che avevo perso dieci anni fa.

E ho deciso che non ti avrei lasciata più. Almeno finché non rivedrò quello sguardo da bambina. E questa volta non voglio infrangere la promessa che ho fatto con me stesso.

Ma ecco, la sigaretta sta ormai per finire; solo pochi milligrammi di tabacco la separano dal filtro. È tempo di schiacciare il mozzicone nel portacenere, badando bene che si spenga del tutto. Perché se il fumo è buono e rilassa lo spirito – perlomeno il mio – l’odore del mozzicone che agonizza è quanto di più rivoltante si possa immaginare.

Chiudo il finestrino e mi ricaccio in tasca l’accendino. Forse non ricorderò più dove sarà, la prossima volta. O forse fra poco sarò di nuovo qui, per una seconda sigaretta.

Per il momento, è tempo di rientrare.

 

 

Pazzesco. Quel libro deve essere stregato. O io sono diventato troppo impressionabile.

O forse fumare quella sigaretta dopo tanto tempo mi ha completamente rimbambito. Ecco. Deve essere questa la spiegazione. Altrimenti non so come accidenti spiegarmi come mi sia passata per la testa l’idea di andare a prendere caffè e brioches per tutti e due.

Comunque sia, adesso sono qui. Un imbranato; che cerca di tornare al proprio scompartimento evitando una catastrofe. Se almeno questo maledetto treno sobbalzasse un po’ meno! Ma penso che sarebbe chiedere troppo.

E mentre sto facendo l’equilibrista, l’unica cosa cui riesco a pensare è al tuo sorriso. Quello che vedrò scintillare nei tuoi occhi. Perché sono sicuro che lo vedrò.

Intanto, l’unico che sorride sono io. Perché mi fai tenerezza, addormentata come una bimba sul tuo sedile, quasi nascosta sotto la giacca che ti ho prestato. È troppo grande. Decisamente.

Scrollo le spalle. Non credo che per te sia un problema. Altrimenti, rimedierò.

Appoggio il vassoio sul tavolino pieghevole. Pazienza. Non ho il coraggio di svegliarti; non adesso che sembri finalmente tranquilla. Tanto la colazione non si raffredderà in fretta. Alla peggio, la farò riscaldare.

Inizio a bere il mio caffè, e intanto ti osservo. È vero. Di solito non mi piace guardare la gente. Perché questo implica l’essere guardati e io odio esserlo. Guardo una persona negli occhi solo quando le parlo. Perché in quel momento la situazione è diversa.

Come adesso.

Non abbiamo scambiato molte parole io e te, in questi mesi. Ci siamo limitati all’essenziale. Ognuno perso nei suoi pensieri. Nelle sue fantasie e nelle sue illusioni.

Io non sono abituato ad avere un compagno di viaggio. Finora, lei è stata la sola compagna di tutte le mie fughe e peregrinazioni. E la tua presenza mi è sembrata un’imposizione. Anche se adesso non so se sarei contento di rinunciarci.

Un leggiero ronzio attira la mia attenzione. Hai perso una delle cuffie del lettore; non te ne sei nemmeno accorta, avvolta nei tuoi sogni.

Devo ammettere che mi ha stupito non poco la tua richiesta. Mi hai chiesto se avevo un lettore CD. Così; di punto in bianco. E in quella domanda c’era un tremito che non mi so spiegare. Era come se dalla mia risposta dipendesse qualcosa di capitale.

Non ti ho detto nulla. Non mi piace parlare, quando è superfluo. E tu lo sia. Ho preso il mio bagaglio e ti ho dato il lettore. Sì; lo avevo con me. Lo porto sempre. Perché adoro la musica. Mi rilassa. Un po’ come il fumo.

Ti avevo dato anche la custodia dei CD. Ma tu hai scossa la testa. Avevi il tuo. Lo hai inserito, e non hai più smesso di ascoltarlo. Quel CD. Il tuo.

Non sono curioso. Non lo sono mai stato. Eppure vorrei sentire la musica che ascolti. Per provare a capirti di più. Ad aiutarti.

Aiutarti…Perché non ho potuto aiutare lei. Forse è questo quello che cerco. Una seconda possibilità. Semplice. E odioso. Non credo che esista nulla di più detestabile. Interessarsi agli altri per se stessi.

Non lo farò. Perché non ti posso sostituire a lei. E sarebbe veramente troppo cinico. Anche per me.

Però, il desiderio di capirti non mi è passato. Per riuscire a sciogliere almeno un po’ il groviglio di sensazioni che vedo sempre nei tuoi occhi. E che sento in me ogni volta che ti sfioro.

Mi avvicino e ti sfilo piano cuffie e lettore. In fondo, la mia è solo curiosità. Devo convincermi che è così. Forse, poi, anche le mie sensazioni saranno dimenticate. Voglio solo sentire questo CD.

È solo curiosità. Nient’altro. Punto.

Play.

Lifesaver

Your timing’s really strange

Catch me later

But can you please be late

And it’s funny how your thoughts think they’re right at all

And it’s funny how your cause makes no sense at all

Lifesaver

Let’s play a little game

Catch

Me later

But make sure you’ll be there late

And it’s funny how it seems you’re doing things

And it’s funny how you find your peace of mind

Lifesaver

I’m cancelling our date

Lifesaver

It’s time you had a break

Lifesaver

I’m cancelling our date

Lifesaver

My saver

Stop. Play. Nuova canzone.

Lifesaver

Your timing’s really strange

Catch me later

But can you please be late

Stop. Devo aver sbagliato tasto. Riproviamo.

Lifesaver

Your timing’s really strange

Niente. Non ho sbagliato. È l’unica canzone del CD. È quella che stai ascoltando da ore.

Una melodia dall’andamento struggente, accompagnata da una semplice chitarra. Fra rumori di mare e di vento. Abbandono. Vuoto. Un mondo sonoro di contatto con emozioni che fanno male. Dannatamente male.

E ti ci senti affondare dentro. Come una barca alla deriva.

Faccio ripartire il CD. Ascolto ancora. L’ascolto due, tre, quattro volte. Continuo. E ogni nota è una stilettata al cuore.

Non capisco. Non riesco a capire. Perché ascolti questa canzone? Solo questa canzone? Cosa significa per te?

Sento una mano sfiorarmi il volto. La tua mano. Sul mio volto. Un brivido lungo la schiena.

Hai preso una cuffia e ti sei messa ad ascoltare la musica, inclinando la testa di lato. Ci guardiamo. Istanti lunghi come ore.

Vorrei chiederti perché di questa musica. Vorrei chiederti tante cose. Ma non ci riesco. Ho un groppo alla gola. Non riesco a parlare. Non adesso.

Mi siedo accanto a te e ti attiro contro il mio petto. Ti sento rigida all’inizio, ma poi ti rilassi. Ti sfioro i capelli con una mano. Una carezza leggera. Continua. Per farti capire che ci sono. Che non ho intenzione di andarmene. Non di nuovo. La tua mano sul mio petto. Le tue dita chiuse attorno alla mia maglia. Una sensazione che mi piace, e mi fa tremare. Una sensazione bellissima. Straniante.

Ti copro con la giacca e fisso lo sguardo sul paesaggio fuori dal finestrino. Piangi pure. Non ti guardo. Trasforma quella massa di sensazioni in un pianto liberatorio. Ti farà bene. Dopo starei meglio.

Non c’è nessuno qui. Solo noi due. E io non lo dirò mai a nessuno. Ti puoi fidare. Piangi pure. Fa scivolare via quella maschera che ti blocca e ti fa star peggio.

Non pensare a me. Ho scelto io di restare. E deciderò anche se farmi coinvolgere o no. Per adesso, voglio solo sentire i tuoi singhiozzi. E stringerti come facevo con lei.

Niente parole. Sono inutili. E niente domande. Sono ipocrite. Non voglio sapere nulla. Solo, voglio far cessare questa musica. Cerco il lettore.

Stop. Basta con questa melodia. È troppo triste. Struggente. Non la voglio più sentire. Perché voglio fare di tutto per rivedere il tuo sorriso. E questa è una promessa. Come quella che ho fatto con me stesso. Così simile, così diversa. E il primo passo è spegnere questa musica. Per il resto, si vedrà.

Per il momento, voglio solo perdermi nel tuo respiro.

Il brano è estrapolato dall’opera teatrale di Sarah Kane intitolata Febbre. (Sara Kane, Tutto il teatro. Einaudi

editore. Torino. 2000).

La canzone si intitola Lifesaver, quarta nell’album Frsherman’s Woman, di Emiliana Torrini, edito nel 2005.