CAVALIERI DI BRONZO

PROLOGO

Era una notte serena, e le stelle punteggiavano la volta celeste. L’intero Santuario era immerso nel silenzio. La pace durava ormai da tredici anni, e le Guerre Sacre erano solo un ricordo lontano, remoto.

Lady Arianna, reincarnazione della dea Athena, giunta bambina al Grande Tempio per volere dei Cavalieri d’Oro, era cresciuta circondata dall’amore e dall’affetto dei suoi estremi difensori: allevata da Micene del Sagittario, il Grande Sacerdote di quell’epoca, ed educata da Dauko della Bilancia, il più saggio tra i cavalieri di ogni tempo, era ora pronta per ricoprire il ruolo al quale era stata chiamata.

Quella notte dormiva tranquilla nelle sue stanze a fianco della sala del trono, e non avvertì la leggera brezza proveniente da oriente che percorse le Dodici Case. Neanche i Cavalieri d’Oro ci fecero caso: solo uno di loro comprese cosa si celava dietro quel vento venuto dall’Est. Uscito sulla soglia della Casa da lui presieduta, osservò a lungo il cielo stellato, mentre il suo cosmo dorato da lungo tempo sopito si risvegliava, preparandosi alla battaglia.

- E’...è ora – disse fra sé – Non mi sono mai mosso di qui, sono sempre rimasto a proteggere questa Casa...ma pare che anche questo compito sia finito. Ancora una volta, io combatterò una Guerra Sacra ! -

Stava per incamminarsi giù per la scalinata, quando udì una voce a lui ben nota.

- Fermati ! -

Colui che aveva parlato non si trovava lì, ma era come se i due cavalieri fossero vicini.

- Non posso – disse – Questo è il mio compito, il dovere del cavaliere di questo segno, dai tempi dei tempi...per questo ho conquistato l’Armatura d’Oro, per essere un giorno pronto a sostenere questa lotta. -

- E tuttavia non tu andrai laggiù, perché così vuole Athena... altri sono stati scelti. -

- Mai essi potrebbero vincere contro un nemico così potente...lascia che sia io ad andare, te ne prego -

- Intendi forse disubbidire ad Athena ? -

- Non si tratta di questo, è che preferirei...è che preferirei non dover affidare un compito tanto importante a cavalieri così inferiori. -

- Dobbiamo avere fiducia in loro, poiché anch’essi sono cavalieri della speranza. -

- Ma se non dovessero riuscire ? -

- Riusciranno...riusciranno, ne sono convinto. -

 

PARTE PRIMA

Al villaggio di Rodorio una fanciulla dormiva ignara nella sua casa. Si trattava di colei che, cercata per tanti anni, era apparsa nel momento più grave della Guerra Sacra contro Hades: Patricia, la sorella di Pegasus. Dopo la morte del fratello, caduto da eroe al culmine della battaglia contro Zeus, era tornata al villaggio, ma poco tempo dopo anche il vecchio che quel giorno lontano l’aveva salvata era serenamente spirato, e lei ora era sola al mondo. I cavalieri del Grande Tempio le facevano spesso visita: era il loro modo di rendere omaggio al leggendario cavaliere delle tredici stelle, che per primo aveva innalzato a livelli mai visti il nome dei cavalieri di bronzo.

Quella notte, il vento dell’Est portò fino al villaggio un oggetto arcano e misterioso: un laccio di seta nera. La brezza si insinuò da una finestra aperta, e depose il suo sinistro carico sul delicato petto di Patricia. La modesta capanna fu illuminata per un breve istante da una luce violacea. La fanciulla si alzò ed uscì: i suoi piedi nudi sollevavano piccoli sbuffi di polvere dalla strada, e l’espressione del suo volto era vacua, assente.

Lontano, molto lontano, qualcosa stava accadendo. Là dove i grandi fiumi dell’Asia si perdevano tra gli alberi di una giungla millenaria, un tempio sorse dalla foresta, creando un enorme spazio che interruppe quel verde infinito. Gli alberi secolari furono sradicati dagli edifici usciti dalla terra, che ora si innalzavano verso il cielo con torri e pinnacoli. Dove gli alberi si ritiravano comparivano sale immense e ripide scalinate, e sulle pareti liberate dal muschio riapparvero strane sculture. In cima alle torri più alte enormi volti di pietra dallo sguardo enigmatico sembravano sorvegliare il tempio nato dalla giungla.

Intanto, nei luoghi più sperduti di quell’immenso continente, si riaprirono tombe sigillate da millenni. In un cimitero abbandonato, la lastra che copriva un antico sarcofago si mosse, e ne uscì un guerriero morto centinaia di anni prima. Nell’oceano si formò un gorgo, alla base del quale, sul fondale, una semplice cassa di legno venne scoperchiata, e colui che vi riposava ritornò alla vita. Nel buio di una profonda grotta, un gruppo di pipistrelli fuggì spaventato quando una bara che lì giaceva venne avvolta da una luce violacea e si aprì di schianto. Altri due neri spiriti sorsero dalle loro tombe dimenticate dal tempo, e ripresero a camminare nel mondo.

Il mattino seguente, Asher dell’Unicorno e i suoi compagni giunsero a Rodorio. Il Grande Sacerdote li aveva informati che il capo del villaggio aveva chiesto l’aiuto dei cavalieri, perché Patricia era scomparsa, ed aveva affidato loro il compito di ritrovarla. Un folto gruppo di persone era radunato di fronte alla casa di Patricia, e nel vederli arrivare si fece loro intorno.

- I cavalieri ! I cavalieri sono venuti ! -

Quella povera gente si accalcava intorno ad Asher e agli altri, toccando con le mani callose le brillanti armature di bronzo. La devozione di quelle anime semplici verso il Grande Tempio era totale, e vedere i grandi cavalieri delle leggende in mezzo a loro era un avvenimento che sarebbe stato raccontato per anni e anni intorno al fuoco nelle lunghe sere d’inverno.

I cinque amici entrarono nella casa, e notarono che nulla era stato toccato: Patricia sembrava non aver preso nulla con sé, nemmeno i calzari. Nessuno aveva udito alcunché. Sembrava che fosse semplicemente scomparsa nel nulla. Mentre stavano setacciando ogni angolo dell’unica stanza, alla ricerca di qualsiasi indizio utile, la voce eccitata di un ragazzo si fece sentire al di sopra del brusio della folla.

- Padre ! Padre ! -

Il ragazzo era il figlio del capo del villaggio, e raccontò di aver trovato uno strano disegno scolpito su una parete di roccia, sulla strada che portava alla zona sacra del Grande Tempio. I cavalieri di bronzo seguirono il ragazzo, mentre il padre cercava di tranquillizzare la folla, dicendosi sicuro del fatto che presto gli invincibili guerrieri della Dea avrebbero ritrovato Patricia.

Il ragazzo condusse i cavalieri nel posto dove aveva trovato il disegno sulla roccia, ed essi lo osservarono attentamente.

- Una mappa ! – rifletté ad alta voce Asher dopo qualche istante – Patricia deve trovarsi lì ! -

- Khalì ! – disse Aspides con voce sicura dopo aver gettato una breve occhiata al disegno.

- Che cosa ? – chiesero all’unisono gli altri.

- E’ una sfida aperta ! Vi spiego durante il cammino. -

Intanto i cinque neri spiriti si erano riuniti al tempio nato dalla giungla. Inginocchiati di fronte ad un’enorme statua dal ghigno minaccioso, attesero l’arrivo della divinità che li aveva risvegliati dal loro sonno eterno.

Ed essa non tardò ad apparire. Sembrò quasi uscire dalla statua, e contemplò soddisfatta i cinque cavalieri in ginocchio di fronte a lei: vestiti di armature dai colori cupi, gli elmi sottobraccio, aspettavano solo un suo ordine, desideravano solo una sua parola.

- Dea Khalì – la salutò quello che sembrava il capo ed il più forte dei cinque – i cavalieri del Nirvana si dispongono ai tuoi comandi. -

- Rudra, della Freccia Divina –

- Khrisna, cavaliere dello Spirito Nero –

- Ganesh, dell’Elefante –

- Indra, il guerriero di Amarawati –

- Rama di Ayodhaya, ai vostri ordini – si presentò colui che aveva parlato per primo.

La dea Khalì stringeva in mano il laccio di seta nera, e lo mostrò ai suoi guerrieri, che nel vederlo lanciarono un unico grido di giubilo. Poi l’oscura divinità si volse verso la statua, alla quale era incatenata Patricia. La fanciulla aveva ripreso i sensi, ma poco mancò che cadesse di nuovo svenuta nel vedere il maligno volto di Khalì e i neri spiriti che l’accompagnavano.

- Chi...chi sono costoro ? – chiese, cercando senza successo di non mostrarsi spaventata. Pensò a Pegasus, al fratello che dopo averla ritrovata l’aveva di nuovo lasciata sola, questa volta per sempre, e si impose di essere forte, come lui aveva sempre fatto in tante situazioni che apparivano disperate.

- I Custodi del supremo Nirvana ! – proclamò solennemente Khalì - Gli spiriti che uccideranno coloro che Athena si compiace di chiamare cavalieri – aggiunse, pronunciando l’ultima parola in tono di scherno.

- Tu sei folle ! – la derise Patricia. Sapeva che stava giocando col fuoco, ma non voleva assolutamente mostrarsi debole.

- Come osi, ragazzina insolente ? – gridò Khalì, afferrandole il delicato collo con la mano ossuta dalle lunghissime unghie.

- I cavalieri del Grande Tempio mi salveranno – ribatté Patricia, sostenendo lo sguardo della dea oscura – Dai tempi del mito, hanno sempre lottato per proteggere gli uomini. Nessuno li ha mai sconfitti ! -

- Che ci provino ! Ma non faranno mai in tempo…guarda ! -

Khalì protese una mano verso la statua che la rappresentava, puntando il dito sul volto dell’idolo di pietra: la grande lingua che pendeva dalla bocca, colorata da una striscia rosso sangue al centro, si mosse, ed iniziò a leccare il collo e le spalle nude di Patricia.

- Aaaahhh ! -

- Vedi, ragazzina ? – gridò trionfante Khalì – Se i cavalieri di cui tanto cianci non giungeranno a te prima di notte, la mia lingua ti succhierà l’energia vitale, fino a ridurti ad un guscio vuoto...ed io prenderò possesso del tuo giovane corpo ! Sì, mi reincarnerò in te, e ritornerò nel mondo dopo secoli di esilio ! -

- Aaaaahh -

Khalì si volse nuovamente verso i suoi guerrieri, che attendevano i suoi ordini a testa china.

- Avranno sentito l’urlo di Patricia, saranno qui a momenti ! Andate ! Mi affido a voi, cavalieri del Nirvana ! -

Infatti, proprio in quel momento, i cavalieri di bronzo giungevano in vista del tempio nato dalla giungla. Asher dell’Unicorno, Aspides dell’Idra, Black del Lupo, Geki dell’Orsa e Ban del Leone Minore si accingevano a combattere la loro prima, vera battaglia. Avevano rischiato la vita per proteggere Patricia dall’attacco di Thanatos nell’ultima fase della Guerra Sacra contro Hades, ed erano pronti a farlo ancora. Le loro armature di bronzo, riparate dal Grande Mur, erano più forti che mai, e i loro cosmi un tempo così deboli da cedere persino di fronte a cavalieri loro pari erano ora più vasti. Grazie a lunghi anni di un addestramento supplementare, avevano affinato le loro capacità ed aumentato il loro potere. Solo la padronanza del Settimo Senso li rendeva ancora diversi dai cavalieri di bronzo della leggenda: Sirio il Dragone, Ikki della Fenice e Crystal il Cigno. E presto, pensavano, anch’essi avrebbero raggiunto il cosmo ultimo che rendeva simili ai Cavalieri d’Oro. Questa era la prima occasione che avevano per dimostrare di esserne degni.

I cinque amici si separarono, augurandosi reciprocamente buona fortuna. La battaglia contro la dea Khalì, la Nera Signora, era incominciata.

PARTE SECONDA

Con l’agilità che gli era propria, Asher saltò su un ammasso di rocce e colonne crollate. Ogni senso teso al massimo, gli occhi che cercavano il nemico, l’orecchio attento ad ogni minimo rumore, avanzava verso l’immenso tempio, dove sapeva che avrebbe trovato Patricia.

Con un attimo di anticipo, si scostò di lato, evitando per un soffio l’attacco portato alle spalle. Spiccò due salti all’indietro, fermandosi su una roccia lunga e piatta, e fissò negli occhi il suo primo avversario.

Questi portava un’armatura verde dalle linee sottili, bordata da strisce rosse. L’elmo era una semplice coroncina, le cui parti terminali erano conformate come delle piume di esotici uccelli. I coprispalla ricurvi arrivavano a proteggere il collo, e sui gambali ed i bracciali spiccavano a rilievo figure di serpi. I capelli biondi, trattenuti appena dall’elmo, formavano intorno a lui una massa vaporosa.

Asher e Rudra si scontrarono a mezz’aria. Il cavaliere dell’Unicorno era concentrato al massimo, e si stupì non poco nel vedere sul volto del suo avversario un’espressione svagata e giocosa.

Asher, voltatosi prontamente, lo fissò con disgusto.

Mentre parlava, il suo tono si era fatto via via più minaccioso. Chiuse per un attimo gli occhi, e quando li riaprì la sua espressione era completamente cambiata. Il sorriso svagato era scomparso. Il suo cosmo, la sua stessa armatura, assunsero una tonalità di verde più scura, e nel contempo i suoi capelli biondi divennero di un rosso sangue. Asher osservava stupefatto, e istintivamente si chiuse in posizione di difesa, aspettando di vedere cosa avrebbe fatto il suo avversario. Rudra si mise di profilo, volgendo verso Asher il fianco sinistro, ed allungò in avanti il braccio destro, piegando l’altro all’indietro, come se dovesse tendere un arco. Le sue braccia furono avvolte da un’emanazione cosmica di colore verde scuro, e nell’aura che si era formata alle sue spalle apparve la figura di un arciere. Piegando la schiena all’indietro, puntò le braccia verso il cielo, in una posizione di attacco assai insolita. Asher, sospettando un trucco, non staccava gli occhi da lui, evitando di guardare in alto.

- Cavaliere di Athena, morrai per aver sfidato la grande Khalì, la Nera Signora dell’India. Io, l’arciere degli Dei, ti condanno a morte. ARROW RAIN ! -

Nella sua voce non v’era più nulla di umano. Era come se un Dio si fosse impossessato di lui, ed ora pervadesse tutto il suo essere. Dalle sue mani sorse un vortice di un verde brillante, che si innalzò nel cielo, dove si divise in miriadi di saette smeraldine, che puntarono contro Asher ad una velocità superiore a quella del suono.

Asher venne travolto, e gli strali lo raggiunsero in più punti nelle parti del corpo non protette dall’armatura. Spinto contro una roccia dalla forza del colpo, ricadde a terra, mentre dalla sua fronte colava una striscia di sangue.

Asher si era rialzato senza apparente fatica, e fissava Rudra con una luce furba negli occhi. Numerosi tagli costellavano il suo corpo, ma sembrava intero.

Neanche questo era più il colpo di un tempo: era più forte, più calibrato, ed il cosmo di Asher più vasto. Il ragazzo che aveva fatto da cavalluccio ad una bambina viziata non c’era più. Ora c’era un cavaliere di Athena, padrone della sua forza e del suo cosmo, un cavaliere di bronzo fedele alla grande Dea di Grecia.

I calci di Asher erano come gli zoccoli dell’unicorno: precisi, diretti, mortali. Rudra fu calpestato, la sua bella armatura infranta, l’elmo rotolò lontano, frantumandosi.

- Dea Khalì…perdona la mia incapacità…non avrei mai creduto che i cavalieri potessero tanto…Argh ! – Le ultime parole di Rudra si persero nel rantolo della morte.

Prima di correre via Asher, temendo un colpo alle spalle, si assicurò che il suo avversario fosse morto sul serio. Aveva vinto il suo primo vero combattimento, ed ora si affrettò verso la torre più alta del tempio nato dalla giungla, sovrastata da una grande maschera di pietra che sembrava fissarlo con uno sguardo minaccioso.

Geki dell’Orsa stava percorrendo un lungo corridoio immerso nella penombra. Desideroso di mettere alla prova la sua nuova forza, tese i muscoli delle enormi braccia, stringendo i pugni. Era sicuro che qualsiasi cavaliere del Nirvana gli si fosse parato di fronte avrebbe fatto la fine dei tanti orsi che egli aveva strangolato negli anni di addestramento.

La fine del corridoio non si vedeva ancora. Con la coda dell’occhio, Geki colse un movimento alla sua sinistra. Vibrò un pugno dove gli sembrava di aver scorto un’ombra, disintegrando il muro, dove rimase un largo e profondo foro.

Questa volta, l’ombra correva sul muro alla sua destra. Il secondo pugno non ebbe sorte migliore del primo. L’ombra strisciava ora sul soffitto, e calò su di lui con la rapidità del lampo. Nonostante la sua mole, Geki era veloce, ma non abbastanza da evitare il calcio del suo avversario. Colpito in pieno volto, barcollò, ma rimase in piedi: un semplice calcio volante non era sufficiente ad abbattere quella montagna di muscoli.

Di fronte a lui, l’ombra si era fermata, e stava assumendo consistenza corporea. Apparve un cavaliere vestito di un’armatura completamente nera, un nero non brillante e lucente, ma buio e cupo. L’elmo ed i capelli, del pari neri, nascondevano del tutto il volto, del quale si vedevano solo due occhi rosso sangue. Due grandi ali, parte dell’armatura, lo coprivano come una sorta di mantello.

La fiducia che Geki aveva provato poco prima cominciava a vacillare. Come spesso accade alle persone di grande corporatura, era in realtà assai superstizioso, e se in virtù della sua mole non temeva lo scontro fisico, era in difficoltà contro forze di natura spirituale.

Geki commise lo stesso errore che imputava al suo avversario. Al contrario, ad esempio, di Asher, non pensava prima di agire, ma si scagliava sempre all’attacco, fidando nella sua grande forza. Si gettò contro Khrisna, ma non riuscì nemmeno a toccarlo: le grandi ali della nera armatura si chiusero sul corpo del cavaliere, proteggendolo come in una sorta di bozzolo, dal quale spuntavano solo la cima dell’elmo e quegli occhi rosso sangue. I pugni che Geki scagliava rabbiosamente in rapida successione non riuscivano minimamente a scalfirle. Poi le ali si riaprirono, e Geki venne scagliato lontano, lasciando un lungo solco dove il suo enorme corpo e la violenza del colpo avevano scavato le pietre del pavimento.

Il cavaliere dell’Orsa attaccò di nuovo, e questa volta fu abbastanza veloce da trovare un varco verso il corpo di Khrisna, prima che le grandi ali si richiudessero. Afferratolo per il collo, lo strangolò nelle sue enormi braccia, attingendo fino all’ultima goccia del suo cosmo. Mise nel suo colpo tutta la forza di cui era capace, aumentando la pressione fino al limite estremo.

Khrisna spiegò le ali, e si mutò nuovamente in ombra. Scomparve dalla braccia di Geki, come il fumo che esce da un camino e si perde nel cielo.

Geki si voltò di scatto, ma quello che vide non era Khrisna.

Era un demone. No, erano mille, migliaia di demoni. Forme orrende, ghigni satanici, urla spaventose. Tutto ciò che suscita un atavico terrore nell’animo umano era lì, e riempì gli occhi e la mente di Geki, penetrò nel suo corpo, gli lacerò l’anima. Era un illusione ? Forse, o forse non lo era. L’armatura era intatta, ma la sua mente era in preda alla follia. I demoni gli avevano graffiato le carni, avevano bevuto il suo sangue. C’erano ferite sul suo corpo, e quelle erano ben reali. Geki crollò a terra, un’inutile montagna di muscoli appoggiata ad un muro buio, in attesa della fine. Chiuse gli occhi, aspettando il colpo di grazia.

La terribile voce di Khrisna rimbombò nelle sue orecchie. Ora il nero spirito avrebbe preso il suo cuore…ma nessuna mano gli penetrò nel petto, nessun colpo mortale lo raggiunse. Aprì gli occhi, sorpreso di essere vivo.

Il pugno di Khrisna era stato fermato dal bracciale di un’armatura di bronzo di colore verde.

Geki sorrise, un sorriso stentato, con il sangue che gli colava da un angolo della bocca. Scivolò a terra privo di sensi.

I demoni si scagliarono contro Black, che ne fu avvolto e scomparve in mezzo a loro. Khrisna osservava compiaciuto, ma il suo ghigno si mutò in stupore quando la folla delle malefiche creature si aprì e si dissolse. Black riapparve, del tutto illeso.

- Cavaliere del Nirvana, la tua illusione era ben congegnata…ma non può nulla contro di me ! –

- Cosa vuoi dire ? Spiegati ! -

Nella voce di Khrisna si avvertivano ora la frustrazione e la rabbia. Chi era quel cavaliere che aveva subito senza danni il suo colpo migliore, la tecnica che portava irrimediabilmente alla follia ?

- Un tempo io incontrai un cavaliere a me superiore, col quale ero stato designato a battermi. Egli sconvolse la mia mente con un colpo terribile, a paragone del quale il tuo è poco più che un trucco da prestigiatore. Ma fui in grado di riprendermi, ed ora la mia mente è più forte. Il tuo colpo non ha avuto effetto, mi dispiace. –

- Puoi anche aver evitato il mio attacco, ma non riuscirai a trovare un varco nelle mie difese. Prova pure, se ti riesce ! –

Khrisna chiuse intorno a sé le grandi ali con un ampio movimento, lentamente, quasi a voler sfidare Black.

Il colpo di Black era tagliente come le zanne del lupo, e frantumò le ali di Khrisna. Frammenti della nera armatura volarono all’intorno. Con le ali spezzate, Khrisna era inerme: non poteva più trasformarsi in uno spirito e fuggire, e subì in pieno l’attacco di Black. Il pugno del cavaliere del Lupo infranse anche la corazza dell’armatura, raggiungendo al cuore il cavaliere dello Spirito Nero.

Khrisna cadde riverso, con l’armatura in frantumi: il sangue rosso scuro che colava dalla ferita mortale non era dissimile dalla nera veste, ora lacera, che portava sotto la corazza.

Black corse a sincerarsi delle condizioni di Geki.

Il cavaliere dell’Orsa non aveva ancora ripreso i sensi. Black sapeva che non c’era tempo. Lasciato il compagno, riprese la sua corsa verso il tempio di Khalì.

Ban stava salendo per uno stretto sentiero, facendosi largo tra le felci e i bambù che a tratti gli ingombravano la via. Giunto in cima, si trovò in una larga spianata, fiancheggiata da colonne. Nel centro esatto dello spiazzo si trovava quello che sembrava un altare, una pietra quadrangolare sporca di sangue secco. Ad un tratto, una voce risuonò nell’aria.

Da un grande edificio sull’altro lato della piazza uscì un cavaliere di corporatura a dir poco enorme. Era più alto persino di Geki, più possente di Aldebaran del Toro, il Cavaliere d’Oro. Ban, che pure era anch’egli di corporatura robusta, non gli arrivava neanche alle spalle. E tuttavia la sua mole non lo rendeva grottesco o ridicolo. Dal suo volto traspariva una grande nobiltà, e nel suo sguardo non c’era ferocia né sete di sangue. Sembrava indifferente alla presenza di un nemico di fronte a lui, e squadrò Ban come un boia dal nero cappuccio guarda i condannati.

Ganesh indossava un’armatura di colore grigio chiaro, che aderiva perfettamente al suo enorme corpo. L’elmo era conformato a testa di elefante, con le grandi orecchie ripiegate e le zanne che si allungavano in avanti a formare i paraguance. I coprispalla erano piatti, di forma trapezoidale. Bracciali e gambali erano formati non da uno solo, ma da ben due pezzi, tanto erano grandi le parti del corpo che dovevano coprire. Su ciascun pezzo dell’armatura spiccavano delle corte strisce rosse, simili a sbuffi di sangue. La cintura e la corazza erano un pezzo unico, e lungo quella che avrebbe dovuto essere la linea di separazione tra le due parti correva un’ampia striscia di colore viola. Sulle ginocchiere e sui coprigomiti si vedevano dei simboli magici, anch’essi di colore viola.

Esitava ad attaccare per primo, ma non certo per paura: se avesse usato il suo colpo avrebbe forse rischiato di vederselo parare o respingere. Doveva scoprire su quale tipo di difesa poteva contare il suo avversario, e poi cercare un modo per aggirarla. L’istinto gli diceva che Ganesh non faceva affidamento soltanto sulla forza fisica.

La voce di Ganesh era una cantilena funebre, una lugubre nenia. Nei suoi occhi non c’era traccia alcuna di odio, di disprezzo verso un nemico, un invasore: l’altro era solo un condannato a morte e lui, il boia, doveva eseguire il suo lavoro.

Ban decise che aveva aspettato abbastanza, e attaccò. Voleva saggiare la potenza di Ganesh, e balzando in avanti scagliò una serie di colpi. Ma non riusciva a raggiungerlo: era come se i suoi pugni fossero fermati da una barriera oscura, un’aura che ricopriva Ganesh come una sorta di sudario. Non era solo il suo cosmo, che si stendeva minaccioso alle sue spalle: era qualcosa di palpabile, di vivo…che ora si preparava ad attaccare.

Ganesh scagliò il suo colpo. Non assunse alcuna particolare posizione d’attacco, o almeno così sembrò a Ban. L’aura oscura che lo avvolgeva parve rientrare nel suo corpo, e ne uscì mutata in un bianco fantasma, che afferrò Ban alla gola e lo sollevò in aria, scagliandolo poi sulla pietra del boia, sporca del sangue ormai secco di innumerevoli condannati a morte. L’etereo fantasma si concentrò nella mano di Ganesh, che calò il suo immenso pugno, pronto a spappolare la testa di Ban come una noce.

Era la zampa dell’elefante sacro che schiacciava la testa ai condannati. Ban venne colpito in pieno. Non aveva potuto difendersi in alcun modo, poiché era come paralizzato, incapace di compiere il benché minimo movimento. La violenza del colpo lo sollevò in aria, e ricadde a terra, a faccia in giù. Dopo tanti secoli, sull’antica piazza delle esecuzioni capitali scorreva di nuovo il sangue.

Ganesh contemplò il risultato del suo lavoro, e storse la bocca in una smorfia. Per la prima volta, aveva sbagliato: il condannato non era ancora morto.

Ma il suo pugno si arrestò quando un nuovo, bruciante cosmo sorse dal cavaliere del Leone Minore che giaceva riverso a terra. Ban si rialzò, lentamente, e si preparò ad affrontare di nuovo Ganesh.

Il colpo di Ban dissolse l’aura oscura che avvolgeva Ganesh, il quale non fece il minimo tentativo di difendersi. Nel mondo che aveva sempre conosciuto gli uomini erano docili creature completamente in balia degli Dei. Lui, il boia, uccideva, ed i condannati morivano. Erano regole eterne ed immutabili, e la possibilità di metterle in discussione semplicemente non esisteva. Quel mondo era ormai scomparso, da quando una Divinità proveniente da un paese lontano si era schierata a fianco degli uomini contro gli altri Dei. E Ganesh, il fedele esecutore della volontà dei numi, per il quale l’intera esistenza aveva sempre e solo significato obbedire agli Dei, sapeva di non poter vivere nel mondo nuovo che stava nascendo, nel quale gli uomini, i piccoli, deboli uomini osavano combattere gli Dei stessi. La grigia armatura si disintegrò, ed egli precipitò all’indietro, pronunciando le sue ultime parole:

Ban osservò stupefatto l’enorme corpo di Ganesh dissolversi tra il vento e la polvere, e la pietra del boia sprofondare tra quelle antiche rovine. Si volse per avviarsi, ma fatti pochi passi scivolò al suolo privo di sensi, stremato dal combattimento.

 

Aspides dell’Idra era quasi arrivato alla grande torre, punto centrale del tempio di Khalì. Ai lati della strada si aprivano due vasche ancora piene d’acqua: sulla superficie galleggiavano felci e ninfee, che creavano un paesaggio magico, di tranquilla quiete, un luogo di serenità assoluta. Il profumo dei fiori e il cinguettio degli uccelli però non ingannarono Aspides: di sicuro si trattava di un’illusione, opera di un nemico che aveva creato un paesaggio incantato allo scopo di confonderlo. Il cavaliere dell’Idra era brutto, ma non stupido, e stette in guardia.

Percependo una presenza alle sue spalle, Aspides si voltò di scatto. Il suo avversario era lì, di fronte a lui, e lo fissava con la stessa espressione con cui un gatto fissa un topo intrappolato in un angolo. Indossava un’armatura completamente bianca, di un candore abbagliante. I lunghi capelli, anch’essi bianchi, scendevano sulle spalle, protette da coprispalla appuntiti, e in mezzo alla fronte spiccava il simbolo di un sole dai lunghi raggi. I riflessi rossastri dell’elmo ricordavano quelli del sole al tramonto. In vivace contrasto con il candore dell’armatura, la veste era invece nera, color delle nuvole quando sono cariche di pioggia.

Aspides ne era capace, ma si rese benissimo conto che, senza quegli anni di addestramento supplementare a cui si era sottoposto insieme ad Asher e agli altri, sarebbe caduto al primo attacco. Mentre cercava di frenare l’impeto di Indra, parando i suoi colpi con i bracciali dell’armatura, si disse che probabilmente il suo avversario conosceva alla perfezione i suoi poteri. Doveva trovare un altro modo per sconfiggerlo.

Scivolò sull’erba bagnata di rugiada, e all’ultimo istante, incrociando le braccia, fermò un calcio diretto al suo volto. Quell’attacco deciso lo aveva stancato, ed ansimava pesantemente.

Aspides attaccò con uno scatto fulmineo, e per un attimo Indra fu colto di sorpresa. Sfruttando lo slancio e tutto il peso del suo corpo, Aspides riuscì a gettarlo a terra. Gli artigli dell’Idra uscirono dai bracciali, piantandosi nel collo di Indra, l’unico punto non protetto dall’armatura. Erano capaci di scalfire un’armatura di bronzo, ma molto probabilmente la corazza del cavaliere del Nirvana era fatta di un materiale ben più resistente: se Aspides non voleva veder fallire la sua unica arma, doveva riuscire a colpire Indra là dove questi era indifeso.

Indra rimase a terra, ma Aspides sapeva che non era finita. Infatti poco dopo il suo avversario si rialzò: sembrava aver accusato il colpo, ma tuttavia era ancora ben vivo.

Indra spiccò un balzo in aria, e il suo cosmo che si espandeva oscurò l’azzurro del cielo. Cominciò a piovere, una fitta pioggerellina che si fece via via più forte, fino a mutarsi in un temporale di spaventosa intensità. Fulmini e scariche elettriche comparivano per un breve istante illuminando l’oscuro cosmo del cavaliere del Nirvana. Indra, che sembrava quasi cavalcare le nubi, allargò le braccia, e l’energia contenuta nelle nuvole tempestose sembrò riunirsi nel suo corpo. Unì le mani palmo contro palmo, e la sua espressione serena, il suo sorriso imperturbabile erano quelli degli innumerevoli eroi e saggi dell’India, che neanche le intemperie riuscivano a distogliere dalla loro meditazione. Lanciò contro Aspides un colpo di inaudita potenza.

Le nere nubi che lo circondavano si scontrarono, fondendosi le une nelle altre. L’energia che contenevano venne liberata, ed assunse la forma di un unico, immenso fulmine, che colpì in pieno il cavaliere dell’Idra. La saetta zigzagante attraversò il suo corpo, che fu percorso da qualcosa come migliaia di scariche elettriche. Aspides fu sollevato in aria, e ricadde con un tonfo nella vasca piena d’acqua. Quando riaffiorò, il suo corpo galleggiava tra le ninfee.

Indra aveva vinto ancora una volta…ma improvvisamente le gambe gli cedettero e cadde in ginocchio. Il veleno dell’Idra stava cominciando a fare effetto.

Aspides galleggiava tra le ninfee, ma non era ancora battuto.

Il cosmo di Aspides si allargò nell’acqua. Indra, sempre più incredulo, osservò il cavaliere dell’Idra uscire dalla vasca, togliendosi di dosso le felci e le ninfee che gli erano rimaste appiccicate sull’armatura. Sanguinava copiosamente da numerose ferite, ma l’armatura era intatta.

Indra spiccò un balzo in aria…o per lo meno cercò di farlo. Le gambe non gli rispondevano più.

Aspides si lanciò contro Indra, piantandogli nuovamente gli artigli nel collo. Ma questa volta essi uscirono anche dalle ginocchiere, colpendolo allo stomaco. L’armatura di Indra era davvero assai resistente, ma ormai il cavaliere era ferito, e il suo cosmo si stava indebolendo. Senza mollare la presa al collo, Aspides tempestò Indra di ginocchiate allo stomaco, sempre nello stesso punto. Gli artigli dell’Idra si spezzavano, inizialmente incapaci di superare la corazza del cavaliere del Nirvana. Ma avevano la proprietà di ricrescere ogni volta, come le teste del mitologico mostro della palude di Lerna, ed infine aprirono una breccia nell’armatura. Aspides non si staccò dal suo avversario finché non sentì che questi era sempre più rigido.

Il veleno dell’Idra fece il suo fatale effetto: Indra spirò, con un’espressione serena sul volto. Nemmeno gli spasmi della morte potevano turbare la tranquillità interiore di un cavaliere del Nirvana.

Aspides rimase in piedi ad osservare il corpo del suo avversario.

Crollò sull’erba, mentre sopra di lui il cielo si rischiarava e gli uccelli riprendevano i loro voli, cantando il ritorno del sole.

PARTE TERZA

Asher entrò nel tempio di Khalì. Si affrettò a salire la scalinata, sapendo che là, in cima alla grande torre, avrebbe trovato Patricia. Il sole stava calando su quel giorno di sangue e di battaglie, e quando fosse scomparso del tutto, lasciando come sempre posto alla notte, anche la giovane vita della fanciulla sarebbe giunta al termine. Il cavaliere dell’Unicorno lo sapeva, e non perse tempo: si lanciò di corsa su per la scalinata, fidando nel fatto che i suoi compagni presto l’avrebbero raggiunto. Era certo che non si sarebbero lasciati sconfiggere in quella che era la loro prima vera battaglia.

Giunto sulla terrazza più alta, dalla quale si dominava la foresta che si stendeva da ogni parte a perdita d’occhio, uno spettacolo terribile si presentò ai suoi occhi. Patricia era incatenata alla statua di Khalì, con la bianca veste lacera e il corpo delicato pieno di graffi. La sinuosa lingua che pendeva dalla bocca della statua, colorata da una striscia di sangue, le stava leccando il collo e le spalle nude, succhiandole lentamente la vita.

Ma da dietro una colonna apparve un’ombra, nella cui mano brillava una sfera di energia viola. Asher fu scagliato lontano, fino alla balconata, e per poco non cadde di sotto.

Asher si rimise faticosamente in piedi. Il cavaliere che l’aveva atterrato venne avanti, e la luce del tramonto illuminò la sua figura. Era vestito di un’armatura color rosso cupo, e i capelli di colore blu incorniciavano un volto dai tratti sereni. Portava un mantello di un viola brillante, agganciato ai coprispalla terminanti in volti di demoni. Anche l’elmo ricordava la testa di un demone, con le zanne scoperte che parevano ancora intrise di sangue umano.

Asher aveva visto poche volte Shaka, e non gli aveva mai parlato. Il Cavaliere d’Oro della Sesta Casa, conosciuto da tutti come il più vicino ad Athena, non si sarebbe di certo abbassato a parlare con cavalieri inferiori, come lui e i suoi compagni dovevano apparire ai suoi occhi.

Forse unico tra i cavalieri del Nirvana, Rama provava disprezzo. Disprezzo per dover affrontare cavalieri palesemente inferiori, ottenendo una vittoria che non gli avrebbe dato gloria perché troppo facile.

Rama lanciò una seconda sfera di energia, ma questa volta Asher era pronto. Incrociando le braccia e puntando a terra i piedi, riuscì a pararla. Il cavaliere del Nirvana era sorpreso da tanta resistenza. Ricompostosi, parlò ora con voce diversa. Era pur sempre un guerriero di una casta superiore,e non era consono alla beatitudine e alla perfezione spirituale che aveva raggiunto farsi trascinare dalle passioni umane.

Rama era stupito. Non aveva mai visto tanta decisione, tanto coraggio e determinazione in un cavaliere tanto inferiore. Non si era mai curato di chi fossero i suoi avversari, perché sapeva che l’esito del combattimento sarebbe stato sempre lo stesso: la sua vittoria. Poco importava sapere il nome di chi aveva di fronte, perché nello spazio di pochi istanti sarebbe stato un corpo senza vita. Ma questa volta decise di fare un’eccezione.

Rama si era reso conto che quel cavaliere, seppur inferiore, avrebbe potuto rappresentare una minaccia. Asher sapeva che il cavaliere del Nirvana celava un cosmo molto potente dietro i suoi modi alteri. I due avversari rimasero per lungo tempo immobili, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro. Poi Rama parlò.

Il cosmo di Rama si espandeva sempre più, fino ad avvolgere l’intera terrazza della grande torre. Il cavaliere del Nirvana aveva assunto una posizione di profonda meditazione: in piedi, gli occhi chiusi, le mani unite sopra la testa, lanciò il suo colpo, abbassando lentamente le braccia e tendendole in avanti, senza mai disgiungere i palmi delle mani.

Era un vento di spaventosa intensità, che tutto travolgeva. Una cascata di sangue, che sembrava gettarsi giù dal Cielo stesso e precipitare con fragore sulla Terra. Il vento era tagliente come la lama di una spada, e travolse Asher come un fiume in piena riempie un’arida e secca gola. Era l’arma definitiva del principe Rama, colui che da solo aveva distrutto le malefiche creature che abitavano l’isola dei demoni.

Asher subì il colpo di Rama in pieno petto. Non aveva potuto far nulla per difendersi, perché era semplicemente impossibile riuscire a bloccare un colpo di tale spaventosa potenza. Precipitò giù dalla balconata, ma all’ultimo momento un braccio lo afferrò, tirandolo su. Coperto di ferite, col sangue che gli colava negli occhi, intravide appena l’amico che era sopraggiunto.

Black si volse contro Rama, mentre Asher, esausto, si accasciava a terra. Il cavaliere del Nirvana era stupito che un secondo avversario fosse riuscito ad arrivare fino a lì.

Rama e Black si scagliarono l’uno contro l’altro.

Il colpo di Black era divenuto più forte in quei lunghi anni. Dopo la sconfitta subita nella Guerra Galattica, lui e tutti gli altri erano stati messi di fronte, nel modo più crudele, alla propria, palese inferiorità. Ma l’orgoglio e l’onore che li avevano sostenuti nei terribili anni dell’addestramento li avevano spinti a tornare in quei luoghi maledetti, per migliorarsi ancora. Tra le colline della Liberia, il cavaliere del Lupo aveva seguito ancora una volta gli insegnamenti del suo maestro, e come gli altri era ora divenuto un vero guerriero, finalmente degno dell’armatura che indossava e del nome di cavaliere che portava.

Ma tutto questo sembrava non bastare. Rama era troppo forte: era un cavaliere superiore, elevatosi ormai al di sopra dei comuni mortali. Nel suo cosmo brillava la luce dell’illuminazione, ed egli si librò in aria, avvolto in quella luce. Scagliando il suo colpo, ne pronunciò il nome in un sussurro, quasi temesse che il suono della sua stessa voce potesse turbare la perfezione alla quale si era elevato.

Nemmeno Black riuscì a pararlo, e cadde sul pavimento accanto ad Asher.

Nel buio corridoio, dove giaceva senza vita il corpo di Khrisna, Geki dell’Orsa aveva ripreso i sensi. Appoggiandosi al muro, si rimise in piedi, trascinandosi lontano.

Sulla piazza delle esecuzioni, là dove c’era stata la pietra dei condannati a morte, Ban del Leone Minore riaprì gli occhi. Barcollando e incespicando, si diresse verso il tempio di Khalì, ricadendo più volte a terra.

Nel giardino delle acque, dove i piccoli uccelli volteggiavano sulle ninfee, Aspides dell’Idra si rialzò, e lentamente lasciò quel luogo meraviglioso, dove la verde e fresca erba era ora arrossata dal sangue di Indra.

Rama fissò a lungo i due cavalieri distesi ai suoi piedi, privi di sensi; si chiese come mai proprio i più deboli fra i cavalieri di Athena erano venuti a sfidare Khalì, la Nera Signora. Improvvisamente percepì qualcosa: incredibile a dirsi, erano ancora vivi. Si fermò accanto ad Asher, preparandosi a dargli il colpo di grazia. Ma anche Black si era ripreso, e frappose il suo corpo tra Asher e il pugno di Rama.

Black cercò di rialzarsi. Si reggeva a stento sulle gambe, eppure camminò verso Rama, un passo dopo l’altro, deciso a tentare un ultimo attacco.

Ma proprio quando il colpo di Rama stava per raggiungere Black, un cosmo lucente li abbagliò entrambi, ed essi videro Asher rimettersi in piedi, avvolto in una luce dorata.

Un cosmo dorato si era aggiunto a quello violaceo dell’Unicorno. L’armatura di bronzo brillava, ed Asher spiccò un balzo, puntando contro Rama. Il cavaliere del Nirvana era impressionato: dove aveva trovato tanta forza un uomo che fino ad un momento prima giaceva riverso a terra, prossimo alla morte ?

I due colpi si scontrarono con una violenza inaudita.

- Blood Demonian Sword ! –

- GALOPPO DELL’ UNICORNO ! –

Per un lungo attimo, i due poteri si scontrarono alla pari. Poi gli zoccoli dell’Unicorno dispersero il colpo di Rama, travolgendo il cavaliere del Nirvana, che cadde a terra con l’armatura in frantumi.

Riverso sulla schiena, Rama esalò l’ultimo respiro, e i suoi occhi si chiusero nella serenità della morte.

Asher corse verso Patricia, ma improvvisamente di fronte a lui apparve Khalì. L’oscura Divinità era terribile a vedersi: la lunga stola nera che portava era fermata in vita da una cintura di serpenti vivi, e al collo portava una collana di teschi umani. Si avvicinò alla statua e si mise esattamente di fronte a Patricia, nascondendola alla vista di Asher.

Asher sapeva bene che era folle gettarsi così contro una Divinità. Era alla sua prima battaglia, indossava solo un’armatura di bronzo…eppure doveva provare. Doveva farlo, perché Patricia, i suoi compagni, i Cavalieri d’Oro e la stessa Athena contavano su di lui. Doveva farlo, cercando dentro di sé quella forza che permette agli uomini di compiere miracoli.

Il sole era quasi del tutto scomparso: gli ultimi raggi illuminavano la cima della grande torre, mentre sull’immensa giungla già si allungavano le ombre della notte.

Il cosmo dorato che lo aveva sostenuto nell’ultimo scontro con Rama lo guidò una volta ancora. Non sapeva a chi appartenesse, non sapeva dire quale Cavaliere d’Oro fosse giunto in suo soccorso. Si trattava forse di Shaka della Vergine, il cavaliere più vicino ad Athena ? Non c’era tempo per porsi simili domande.

Ma Khalì fece apparire nella sua mano il laccio di seta nera, il simbolo dei suoi accoliti, i terribili strangolatori Thugs. Con questo afferrò il delicato collo di Patricia, iniziando a strozzarla. La fanciulla cercava di liberarsi dalla stretta, ma era incatenata alla statua, e più si dibatteva più il laccio la soffocava.

Il suo ghigno si mutò in stupore quando vide Asher bruciare il suo cosmo e prepararsi a lanciare il suo colpo.

Asher sapeva che era una mossa disperata. Aveva una sola possibilità, una sola.

Asher si gettò contro Khalì. Con un calcio preciso, la colpì alla mano che teneva il laccio di seta nera, polverizzando quell’arma arcana e sinistra. Lo spirito della dea oscura lì racchiuso si disperse nuovamente nello spazio.

Le catene che legavano Patricia alla statua scomparvero, e la fanciulla , stremata ma viva, scivolò tra le braccia di Asher.

Anche Aspides, Ban e Geki giunsero infine sulla grande terrazza. Insieme, i cinque amici avevano salvato Patricia ancora una volta, come tredici anni prima al Grande Tempio. Avevano vinto la loro prima vera battaglia, liberando la Terra da una terribile minaccia.

 

Seduto sulla soglia della Sesta Casa, Shaka della Vergine guardava verso oriente, e avvertì lo spirito di Khalì abbandonare per sempre il mondo. Sul suo volto imperturbabile apparve un lieve sorriso.

 

Nel tempio di Khalì, ormai deserto, i cinque amici si erano riuniti, sincerandosi delle proprie condizioni e di quelle di Patricia. La fanciulla era stanca, ma trovò la forza di ringraziare ciascuno di loro, ed in particolare Asher. Non avrebbe mai pensato di vivere una simile avventura…

Improvvisamente, un immenso turbine di vento proveniente da occidente squassò la foresta, investendo con una violenza inaudita il tempio nato dalla giungla. Colti di sorpresa, Asher e gli altri vennero travolti senza nemmeno capire cosa stava succedendo.

Molto tempo dopo, quando ripresero i sensi, scoprirono con orrore che Patricia era scomparsa.