L’ALTRA FACCIA DELLA LUNA

-GOCCE DI SANGUE SULLA NEVE-

 

 

 

 

 

 

"E dal cielo trasformato sorride un'altra luna ..."

(Guccini)

 

La luna… regina delle notte che di tenebre avvolge la Terra; quella sera in tutto il suo splendore si specchiava nella neve di Asgard, cullata da un vento maestoso che batteva senza sosta le foreste di pini soavemente adagiate tra le valli e le guglie del palazzo sacerdotale, svettanti e al contempo massicce con la loro grigia pietra spruzzata di perenne, niveo candore.

Sulle mura sferzate dal soffio selvaggio, due uomini stavano l’uno di fianco all’altro, osservando i movimenti dell’incontaminata natura e ascoltandone le voci remote; nessuna parola si erano ancora scambiati e il silenzio tra loro scandiva il lieve respiro di entrambi.

Erano giovani e la forte amicizia che li legava era palpabile, come un fluido che inarrestabile correva tra i loro corpi e i loro spiriti colmi del reciproco affetto.

Il più alto e robusto dei due era ritto in piedi, le braccia incrociate sul petto, i folti ricci di un biondo tendente ad un castano pallido e ambrato agitati e danzanti come volute di serico oro intorno al viso avvenente, dalla pelle chiara e liscia pari a quella di un bambino; ma null’altro aveva di infantile la possente figura degna di un mitologico eroe. Il compagno accanto a lui era notevolmente più piccolo per costituzione e statura e probabilmente era più giovane e di natura focosa a giudicare dal suo viso vivace e talmente scuro da creare un affascinante contrasto con la corona di capelli biondissimi, acconciati in una bizzarra pettinatura a caschetto, con due ciocche che scendevano gentilmente ad accarezzare le spalle tornite. Costui era appoggiato languidamente al parapetto, il busto reclinato in avanti, lo sguardo fisso sull’orizzonte lontano, su quelle vette di ghiaccio alle quali la luna piena conferiva un’arcana, inquietante atmosfera.

Il loro portamento fiero non era un caso o una semplice posa: quei due ragazzi erano autentici guerrieri, i difensori di Asgard e di tutto ciò che era caro ad Odino, la divinità cui quei luoghi e coloro che vi abitavano erano consacrati. Attendevano di essere ricevuti dalla loro regina, che di Odino era celebrante devota e che aveva passato la giornata a pregare il nume tutelare di Asgard, perché vegliasse sempre sulla sua gente e perché i ghiacci continuassero a regnare incontrastati, nella loro integrità, in quanto il loro sgretolarsi avrebbe significato la distruzione per il paese intero.

Era tardi ormai; solitamente Hilda non attendeva tanto a lungo per riceverli quando tornava a palazzo. Impreviste incombenze la trattenevano nelle sue stanze ma tutto andava bene; Alberich, loro astuto compagno, li aveva così rassicurati. Si stupirono non poco che proprio lui, tenuto da Hilda a considerevole distanza, per una volta avesse ricoperto il ruolo di suo messaggero. Non si fidavano di Alberich e, anche se nulla lasciava presagire che qualcosa di fosco aleggiasse nell’aria, si erano preoccupati; erano usciti insieme, come in un tacito accordo, forse per consultarsi e parlare ma ancora nessuno dei due accennava a voler intraprendere una seppur futile conversazione.

Distante, nella totale, sospesa immobilità del tutto, qualcosa sembrò muoversi: un fluido guizzo accompagnato da un raggio di luna. Impossibile distinguere in dettaglio di cosa si trattasse: una scia sinuosa che strisciava tra pini e ghiacciai, una compatta unità costituita da innumerevoli corpi flessuosi che agivano in perfetta sincronia di azioni ed intenti.

Le due paia di occhi che osservavano attentamente il paesaggio erano troppo avvezzi a quei luoghi perché un simile evento li cogliesse impreparati e il ragazzo più piccolo si decise finalmente a spezzare l’immacolato silenzio:

"E’ solo un branco di lupi. Nulla di cui allarmarsi."

"I lupi sovrani delle foreste e di tutto ciò che ha l’incontaminato sapore di esistenza selvaggia… li trovi davvero così rassicuranti, Hagen?"

Il suono pacato e al contempo malinconico del possente amico, indusse il giovane biondo a voltarsi per scrutare l’anima di colui che conosceva meglio di se stesso e quello che vi lesse non lo rassicurò: era strana quella notte, un sentore bizzarro di arcani messaggi urlanti nel silenzio della notte di Asgard.

"Niente è ciò che sembra… questo intendi, Sigfried?"

La domanda sofferta di Hagen si perse nel vento che lentamente si alzava, conducendo con sé il gelo insopprimibile di quella notte, per diffonderlo anche altrove, perché le terre di Asgard rimanessero, in eterno, uguali a se stesse, incontaminate lande di ghiaccio a malapena carezzate da un tiepido sole che mai riusciva realmente a riscaldarle.

Il giovane più grande si accostò maggiormente all’amico, si chinò in avanti per appoggiarsi egli stesso al parapetto di pietra antica, intrisa dello spirito di avi vissuti in epoche remote ma la cui essenza ancora si protraeva in quei luoghi che non appartenevano al presente e forse neanche al futuro perché lì il tempo, in un certo senso, non esisteva, se non in una sospensione perenne di tradizioni sempre uguali a se stesse.

Hagen seguì con il proprio sguardo il nobile profilo del compagno che si sollevava al cielo puro e libero da ogni luce che non fosse quella naturale degli astri e delle stelle; niente di artificiale ne corrompeva il vasto splendore.

"Guarda la luna…"

Il giovane ambrato dovette fare violenza a se stesso per staccare gli occhi azzurri dal viso che aveva su di lui l’effetto di un magnete ma, al contempo, gli era altrettanto impossibile rifiutare la richiesta di colui il cui ascendente agiva sul suo cuore più ancora degli ideali in nome dei quali lottavano fianco a fianco.

La luna… tonda e bianca, forse perché in essa si specchiavano le lande innevate o, forse, perché lei stessa ad esse donava il suo singolare, arcano lucore.

"Niente è come sembra, hai detto bene Hagen… ogni cosa può essere anche il suo contrario…"

Perfettamente consone ai suoi pensieri le riflessioni di Sigfried, a dimostrazione ulteriore di quale fosse la sintonia che scandiva i loro animi, all’apparenza così diversi da risultare quasi due opposti; e anche in questo senso valeva quella stessa legge: nulla è come sembra, nessuno può dire cosa si celi nel profondo.

"La luna della quale scorgiamo questa faccia candida, è terribile nella sua ambiguità; l’altra faccia è oscura e significa morte… la nera morte che danza costantemente intrecciata alla vita lucente… esse insieme formano un cerchio perfetto, sigillato da due opposti che si amano e si odiano, che progettano il bene e compiono il male, o viceversa… poco importa… tutto è frutto dell’eterno conflitto che al tempo stesso è una terribile armonia, veicolo del dolore estremo dell’universo al quale non si può fuggire…"

"Perché tanta tristezza, Sigfried?"

Non giunse risposta, solo un fievole sospiro brutalmente spezzato dall’improvviso ululare che saettò feroce nella notte: i lupi erano in caccia e le loro ombre disegnavano sinuose spire sotto la carezza lunare così gentile all’apparenza… ma erano forse intrise di morte quelle mani che sfioravano tutti loro, matrigne, pronte a calare come l’orribile condanna di un sudario?

Una vita, laggiù nelle incontaminate foreste, tra poco sarebbe stata estirpata dal mondo, cruentemente, per fungere da essenziale nutrimento ad altre vite altrimenti destinate a morire di fame: una vita sacrificata alla catena antica come il mondo e che solo alla fine del mondo stesso si sarebbe interrotta.

Per un bizzarro dispetto della mente che non conosce confini, i due giovani stabilirono una perfetta sintonia emotiva con quella creatura dalla vita segnata e il loro solare entusiasmo di ragazzi, il cui ottimismo era dettato da una sorta di autostima che li rendeva a volte candidamente superbi, si dissolveva in un oscuro e involontario presagio che non coinvolgeva unicamente loro due ma l’intero reame di Asgard: un estremo e collettivo sacrificio sarebbe stato, prossimamente, richiesto ai guerrieri che proteggevano le sacre lande dominate dal mito? Perché tali orride sensazioni si dipanavano come serpi dalle scottanti spire tra i loro cuori che all’unisono battevano in doloroso subbuglio? In cosa quella notte era differente dalle altre? Tutto a causa del singolare comportamento della loro amata regina o anche tale evento era stato plasmato con sapienti trame dalle mani di quella notte di arcano sentore?

Nuovamente tra loro regnava il silenzio ed entrambi fissavano la luna: essa appariva ora diversa ai loro occhi o forse loro la osservavano con occhi diversi? La sua luce era vagamente offuscata e oltre quella faccia di pallida luce che a tutti era nota, qualcos’altro era possibile intravedere ad uno sguardo più attento: una sagoma scura, un cerchio più nero di una notte senza stelle faceva capolino dietro la gemella splendente… e come una proiezione impressa a fuoco incandescente, disegnava tracce di sangue vermiglio sulla neve che beveva e assorbiva quel bagno cremisi senza potervisi opporre.

Proprio in quell’istante, latrati euforici si levarono in coro, mentre tra essi si udiva una voce diversa, la vittima predestinata che agonizzava levando gli occhi anche lei alla regina della notte: l’atroce sacrificio era stato compiuto… una pozza di sangue feriva crudelmente l’immacolato candore… due ferite aperte nella neve: laggiù nella selva donava il proprio sangue la creatura offerta come cibo e al contempo, molto più vicino al palazzo, il sangue che la luna riversava, spietata, su tutti loro.

Un brivido corse lungo la spina dorsale dei due giovani: suggestione o atroce conferma di un presagio che urlava nella notte insieme all’agonia di un cuore morente che inesorabilmente aveva smesso di battere?

"I lupi rivelano il loro lato più oscuro… leggiadre creature mosse da incolpevole crudeltà… capisci, Hagen, come non esista alcuna certezza in questo universo e come ogni cosa meravigliosa celi in sé un orrore che spesso non riusciamo ad immaginare?"

Annuì il compagno, non poté farne a meno benché tali riflessioni esistenziali partorite dalle labbra sicure dell’amico lo spiazzassero e gli facessero sentire così flebile ogni certezza che si era costruito in quegli anni di faticoso apprendimento del mondo.

"E quanto è labile il confine tra il nostro mondo e il loro… siamo così diversi, noi, dai lupi? Anche noi uccidiamo per mangiare e siamo molto più terribili perché, più spesso di quanto sia lecito pensare, massacriamo senza apparente motivo mossi dalla gloria o dalla brama di possesso… siamo tutti animali, noi come loro… ma noi siamo i peggiori…"

"Forse seguiamo semplicemente la nostra natura… come loro…" borbottò Hagen stringendosi nelle spalle, desideroso di liquidare un argomento che lo metteva profondamente a disagio, come lo metteva a disagio, quella notte, l’atteggiamento inspiegabile dell’amico dal quale era, suo malgrado, contagiato.

Sigfried scosse mestamente il capo, chinandosi più avanti oltre il parapetto come chi desidera vedere oltre ciò che gli occhi permettono… o come chi agogna di lasciarsi andare e spiccare il volo, liquidando testardamente la consapevolezza che tale volo avrebbe condotto inesorabilmente alla morte:

"Abbiamo abbandonato ormai da secoli la capacità di assecondare semplicemente la nostra natura… l’ingegno che ci è stato donato dagli Dei, non abbiamo saputo indirizzarlo nella giusta direzione e ci porterà all’autodistruzione, senza possibilità di ritorno…"

Soffocando un’imprecazione, Hagen non poté impedirsi una smorfia di disgusto per la piega che quella conversazione aveva assunto; si trovò a chiedersi cosa in realtà deformasse in quel modo irritante le percezioni dell’amico; Hagen non era in grado di ragionare in quel modo, era un guerriero, non un filosofo e tale desiderava restare. Poteva avere ragione il compagno, il mondo forse era davvero un luogo così triste, la razza umana era davvero corrotta e condannata, ma loro erano lì per compiere un dovere e finché l’avessero fatto, la loro coscienza sarebbe stata al sicuro; era tutto così semplice in fondo, perché Sigfried non capiva quanto fosse inutile perdersi in speculazioni mentali sull’universo e i suoi infiniti conflitti? Ad ognuno era stata concessa un’unica vita e stava ad ognuno viverla nel migliore dei modi.

Dallo sconfinato orizzonte un nuovo ululato, immediatamente seguito da un grido che a nessun animale conosciuto sembrava appartenere; penetrava le viscere, facendole fremere e rabbrividire, scuotendo ciò che di più selvaggio giaceva addormentato nello spirito di ogni essere umano.

Per istintiva reazione, gli occhi cerulei di Hagen si sbarrarono e andarono a cercare quelli del compagno più anziano; questi era rimasto immobile, l’espressione immutata e vagamente sognante. Le sue labbra mormorarono nuove parole:

"Forse è lui il più fortunato tra noi; le circostanze lo hanno spinto a riappropriarsi della primitiva natura che un tempo lontano era propria di ogni essere…"

"Lui?" sussurrò Hagen in un soffio leggero mentre il silenzio assoluto tornava a regnare, come per incanto, dopo la tragedia compiutasi.

"Colui che vive a metà tra due mondi, né uomo né lupo, il volto più segreto dei signori delle selve…"

"Fenrir… colui che vive con i lupi… non è forse leggenda?"

"Era leggenda il grido che abbiamo udito, Hagen? Era forse un animale? Non somigliava forse più a una creatura indefinita, che a nessun mondo appartiene realmente, eppure a noi tanto vicina? Non l’hai sentita anche tu quella sensazione, amico mio, quel palpitare di ogni nervo del tuo corpo, quel desiderio durato un secondo… desiderio di balzare oltre queste mura e correre anche tu insieme ai lupi? Non hai per un istante invidiato chi ha lanciato quel grido di assoluta e totale libertà?"

Le coordinate di quella notte seguivano una scansione al di fuori del tempo e dello spazio nei quali Hagen era avvezzo a muoversi; i pensieri di Sigfried balzavano da una problematica all’altra senza che in essi si potesse scorgere un seppur flebile filo conduttore e il giovane guerriero aveva in alcuni momenti l’impressione che il compagno fosse in qualche modo sconnesso, come se navigasse in una dimensione sperduta dalla quale non riusciva, o forse non voleva uscire.

Fortuna? Hagen non era così convinto e si sentì in dovere di aggiungere una postilla al trasporto emotivo del compagno, chiedendosi se il suo non fosse, al tempo stesso, un disperato tentativo di ricondurlo con i piedi per terra, di vederlo tornare il Sigfried maestoso e intoccabile di sempre: erano troppe le fragilità sconosciute che stava scoprendo tutte in una sola notte:

"Fortuna dici? Io ho udito disperazione in quel grido… l’incapacità di ritrovare se stesso, il terrore di essere tutto e niente, di non avere un’identità con la quale farsi riconoscere nel mondo…"

"Tutto e niente… come ogni cosa… non è più sfortunato di tutti noi…"

Un ennesimo sospiro sfuggì al dominio di Hagen; ogni manovra per riportare l’amico ad una rassicurante normalità era vana. Forse quella notte era sorta per destabilizzare troppo fragili equilibri?

"Se la pensi così, significa che neanche noi stessi possiamo essere certi di ciò che realmente siamo! Come vivere se non vi è nessuna certezza, se anche ciò in cui crediamo rischia di rivelarsi, in notti come questa, inutile e senza senso?!"

Hagen si era infervorato e gesticolava come un bambino capriccioso, sputando fuori tutta la frustrazione che simili discorsi destavano nel suo animo ardente, troppo spesso tendente ad un’impulsività che, a tratti, si rivelava pressoché incontrollabile. Tale attitudine era ben nota a Sigfried che, lungi dallo scomporsi, non mutò in nulla nella posizione e nello sguardo e anche la sua voce rimase pacata e languidamente triste mentre giustificava le proprie malsane idee:

"Come stringere in pugno qualche certezza laddove anche la luce, senza esserne conscia, nasconde in sé l’oscurità che tutto corrompe?"

Le braccia di Hagen ricaddero inerti lungo i fianchi, il suo spirito semplicemente si arrese e lasciò via libera all’angoscia che, fino a quel momento, aveva incontrato sulla propria strada argini dall’indistruttibile apparenza; la sua voce fu spenta e mesta, prossima ad una rassegnazione che non gli apparteneva, mentre i suoi occhi ancora corsero oltre le mura, lontano e infine si risollevarono a contemplare la luna, più inquietante che mai, perché i due ragazzi avevano imparato, loro malgrado, a scoprirne l’altra faccia, quella del profondo abisso dal quale non si può fuggire:

"Di chi fidarsi allora, Sigfried?"

Nell’attimo di silenzio che seguì, un fluido armonico si stabilì tra le loro menti e probabilmente il loro pensiero fu unanime, perché Sigfried non si stupì e non deviò dal discorso quando Hagen spostò la riflessione su qualcosa che entrambi potevano capire, sul mondo che condividevano e che avevano creduto, fino a quella notte, di conoscere profondamente:

"Neanche sui difensori di Asgard può riporsi alcuna certezza? Tradirebbero mai il loro sacro compito?"

Il compagno si decise, finalmente, a spostare un poco il viso, per poter scrutare il biondo, come se proprio in quel momento si fosse improvvisamente destato da un sogno ad occhi aperti, costretto da elementi contingenti a ricondurre le proprie attenzioni fino ad allora smarritesi in un limbo senza nome, su argomenti di inevitabile concretezza. Le sue labbra si aprirono ma senza permettere ad alcun suono di fluire all’esterno; semplicemente si dimostrò incapace di rispondere e, a giudicare da quel volto fattosi improvvisamente livido, la questione lo angustiava, lo conduceva sull’abisso di un terrore per lui nuovo, fattosi a poco a poco sempre più palpabile.

Hagen distolse il proprio sguardo, portandolo sulle mani nervosamente intrecciate sopra al parapetto di pietra:

"Fai finta che non ti abbia chiesto nulla… Asgard è in pace… perché tormentarsi inutilmente?"

Nel momento stesso in cui proferì tali parole, il suo cuore si strinse e un sapore amaro risalì dalle sue viscere fino in gola, provocandogli un fastidioso senso di nausea; il sangue ancora tingeva la neve, la luna ancora ammiccava con quel grande occhio scuro… cosa accadeva alla loro regina? Cosa sarebbe accaduto ad Asgard?

"E poi" aggiunse Hagen, assumendo quell’espressione imbronciata che alcune volte lo faceva apparire tremendamente infantile "Spero che almeno di loro tu ti fidi… di me…"

"Come potrei non fidarmi di te?" Finalmente una parvenza di sorriso nell’asserzione di Sigfried, ma scomparve l’istante successivo "Tu sei troppo candido per andare contro ciò che senti nel cuore… ma sei davvero sicuro di conoscere perfettamente tutti coloro che ci circondano?"

"Valenti guerrieri, che fanno dell’onore la propria guida…"

La risposta venne fuori meno convinta di quanto Hagen avrebbe voluto; si scoprì terribilmente insicuro. Le figure dei compagni si presentarono una ad una alla sua mente ma i loro volti che conosceva così bene, fluttuavano in un’ombra che sfumava i lineamenti, rendendoli ambigui, deformati nella tenebra.

"Guarda Mime…" esordì nuovamente Sigfried e Hagen gli lanciò un’occhiata quasi feroce:

"Mime, il gentile musico, non ti renderà inquieto persino lui?!"

"Non scorgi tu un velo di ghiaccio sotto quella gentilezza? Il ghiaccio con il quale ha accolto la morte di suo padre, l’incapacità di versare lacrime… La sua non è la gentilezza propria delle anime pure… è la gentilezza di chi cerca, con essa, di celare tormenti che altrimenti gli farebbero perdere il controllo… c’è qualcosa di insano in quel viso, in quegli occhi… qualcosa di cui mai mi ero reso conto prima, ma che stanotte mi appare più chiaro…"

Il capo di Hagen si abbassò e le due ciocche più lunghe andarono ad adagiarsi sul parapetto, carezzando lievemente la pietra grigia che si accese del loro bagliore dorato:

"No… questa notte è stregata e ti fa scorgere il male dovunque… anche in Cid, non è vero? Il nostro amico più caro…"

"Lui è luminoso… ma quell’ombra accanto alla sua stella?"

"La stella gemella di Mizar?" domandò Hagen, rassegnato.

"Come vedi, anche lui ha un lato sconosciuto che forse prima o poi si rivelerà…"

"Solo perché ha una stella gemella?"

"Le stelle governano le nostre vite, Hagen…"

Il più giovane fremette e le sue dita artigliarono il muro, con una tale cieca furia che le unghie furono prossime a spezzarsi, lasciando sgorgare il sangue dalle carni strappate.

La notte si era fatta più buia… forse perché la luna aveva lasciato via libera a quel cerchio nero che sembrava ora assorbirli nella sua orrida oscurità? La figura alle loro spalle si materializzò con passi lievi e leggiadri come quelli di uno spettro inviato dal globo oscuro, con il compito di distruggere ciò che con tanta fatica era stato costruito.

Non ebbero bisogno di voltarsi per riconoscere quella presenza che mai come allora appariva a proposito; il lato più oscuro della luna era dietro di loro e forse li aveva osservati, nell’ombra, fino a quel momento, celandosi come un furtivo fantasma, allo scopo di carpire ogni singola parola, ogni gesto, ogni frase che potesse rivelarsi utile a qualche nuova macchinazione… perché nelle intriganti mani di Alberich, il signore dell’ametista e delle anime della natura, ogni minima cosa si trasformava in un’arma pronta ad assecondare la sua brama di potere.

"La regina vi attende" sentenziò con posata calma e quel velo di ironia che mai mancava di comparire in ogni sua frase, anche quando in apparenza non ne aveva alcun motivo.

Suonò stonato quell’invito alle orecchie dei due ragazzi; Alberich portava un ordine della regina? Loro, i favoriti, avevano dovuto attendere che Alberich, il rinnegato, ordinasse loro di recarsi da Hilda? Si scambiarono un’occhiata; l’altra faccia della luna intanto sorrideva e quel sorriso si rispecchiava nella piccola figura dai capelli rossi, mentre i suoi occhi sfavillavano, feroci, nelle tenebre.